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Andrea o l’inaccessibile felicità

di Valentina Grazia Harè
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Pubblicato il 04/11/2011 18:50:49

"Su, Andrea, svegliati", la signora Depaupe diede un colpo al figlio che fermò il suo sogno e lo catapultò nel mattino.
"Ma è ancora prestissimo, mamma!" Non ne voleva mai sapere di smettere i sogni e cominciare la realtà.
La madre lo svegliava così presto tutte le mattine, perché se lo portava a lavorare. Andava di casa in casa a fare le pulizie e il ragazzo sempre con lei. "Per non farlo stare da solo a perdersi", diceva la donna fra sé.
Andrea aveva tredici anni, ma era già uomo. La sua adolescenza se l'era presa la povertà di soldi e d'affetto.
La madre, ovviamente, gli voleva bene; ma il sogno che lui custodiva profondamente era quello di crearsi una famiglia. E solo quello avrebbe fatto felice la vita.
Andrea non si alzava dal letto, ancora, con gli occhi chiusi.... chissà se li aveva mai aperti... La madre era ancora nido per lui.
Così anche quel giorno Andrea andò con la madre presso una famiglia accesa di felicità quotidiana: i bambini giocavano nell'atrio del palazzo e lui mai che avesse fatto parte di tale fortuna. Era sempre come guardare un bellissimo film, ma lo schermo era la resistenza alla gioia. Ciò che divideva amore e solitudine.
Guardava le mamme, così prese a fare raccomandazioni ai figli: erano così mamme, e i bambini erano così bambini da correre quasi che la vita la sorvolassero tutti insieme, acchiappandosi e ridendo nelle giornate afose. E i papà erano così papà che i figli correvano loro incontro quando tornavano da lavorare.
Insomma ad Andrea pareva che la sua vita non avesse la verità di quelle famiglie: lui aveva solo una mamma che parlava a schegge, frasi spezzettate e senza colore: mai un bacio in quelle parole.
La donna diceva: "anche oggi abbiamo finito di girare, ma chi ci aspetta a casa?" Nessuno li aspettava, neanche il padre del ragazzo aveva aspettato che nascesse. Ma una malattia aveva desolato la luce d'amore che avvolge una famiglia.
Stavano, madre e figlio, in una casa disabitata di parole e sorrisi. Però in quell'assenza tremenda di vita era sbocciato il desiderio di Andrea di sposarsi e avere la sua, di famiglia. Un sogno semplice, che era tutto per lui, ma niente nella realtà. Si girava e gli occhieggiava la sua immagine, alla finestra nera, sola nella sera.
"Saper costruire una famiglia è cosa facile per chi ci è abituato, per chi l'ha avuta, sicura e calda come un nido. Insomma a me quest’idea sembra un animale bellissimo, ma aggressivo, e se apro la gabbia mi uccide. Posso solo ammirarlo e dargli da mangiare -attraverso le sbarre- i miei piccoli grandi sogni. E lo faccio con occhi pieni d'un amore che fa più male che bene.

La signora Depaupe disse: "oggi andiamo dalla signora Ginevra". Andrea ne fu entusiasta: quella era la famiglia più bella che avesse mai visto. Erano quattro i figli, l'ultimo nato era ancora di pochi mesi. I più grandicelli stettero con una signora anziana che badava loro. Mentre Andrea si fermò sulla porta, bloccato dalla visione della signora Ginevra che allattava il figlio. Era come un candidissimo abbaglio.
E disse alla donna: "Siete una sola cosa, ora: come le case e il sole, come un bacio atteso o una promessa mantenuta"
La signora disse che le sarebbe piaciuto parlare altre volte con lui. Disse che era sensibile come lei e poi aggiunse anche: "in fondo, in fondo sei un poeta".
Ma lui rimase un po' interdetto perché la bassa stima che aveva di sé non lo portava a dirsi poeta.
Così disse: "Io non sono un poeta e quindi non posso né decantare la famiglia, né farne parte. Questo significa che sento la voglia di narrarmi la storia dolce del futuro, ma il dolore mi nega le parole; e in ogni famiglia sono un ospite. Cioè non sto né di qua, né di là".
Si fermò, poi con gli occhi che brillavano disse: "Nel cuore degli altri io non sono che un ospite".

Ripensò alle parole che disse a quella giovane mamma, e trovava ridicolo fare della poesia e poi non entrarci dentro.
"I poeti dovrebbero scrivere della strada percorsa e non di quella immaginata..." E si perdeva in tali riflessioni.

Da un po’ di tempo, Andrea era diventato improvvisamente curioso di sapere degli zii che abitavano al nord. Si sentiva insofferente, sentiva il bisogno di saggiare una vita diversa.
La madre gli parlò a lungo di tante cose, di come prima erano stati così uniti, e avevano vissuto insieme per tanti anni, fino a quando lei non si era sposata con un uomo molto più grande di lei e con tanti strani vizi. E così si trasferirono: avevano una catena di negozi. Ma non ne vollero sapere più niente della sorella ribelle e la lasciarono sola.
Ma tanta fu l'insistenza di Andrea nel voler andarci che la madre gli fece un biglietto come si dice una scommessa. E un giorno via, partì.
Lo zio Tommaso si mostrò cordiale, quasi affettuoso; e il ragazzo si mise a lavorare di buona lena.
La sera a cena, la cugina, Sonia, si mise di fronte a lui, a tavola. Era un po' timida e lo sguardo sconfinava in una dolcezza mai vista prima in una donna. Facile come bere quel vino, fu innamorarsi di lei. Faceva l'attrice di teatro e ci teneva a sottolineare che solo ora, a trentacinque anni, aveva avuto il suo successo.
"E' un mondo un po' strano, ma mi piace".
Andrea, che aveva sedici anni ed era sognatore, ingenuo, saltò tutte le loro differenze e la scelse per la sua timidezza e i suoi modi gentili.
"Che cosa conta l'età?", pensava, "ci sono coppie così diverse, eppure la gente le guarda e dice, guardando su, come ad aspettare una benedizione: <<L'amore...>>”

Presero a vedersi spesso: nel pomeriggio facevano delle passeggiate, poi lei sembrava quasi scappare da lui, quando guardava l'orologio e con un'espressione che era una smorfietta, diceva: "ora vado a teatro". O poteva essere il cinema, o chissà che altro. Ma tutto questo altro... senza di lui. Che si vergognasse di lui?

Lui non capiva se nella ragazza lui fosse spazio o tempo tolti, o cuore e mente da ritrovare...
E si rodeva le notti e con lei era sempre più strano, più scontroso. Pensava: avere più soldi, più anni, più cultura?
Io voglio solo dei capelli da pettinare con le dita come fossi vento fresco per lei, o essere un fiato che dia voce al segreto della notte. E poi svegliarsi e vedere nel suo viso il riposo che ha ancora le tracce del sogno.
Intanto Andrea scriveva di più di prima. E le rime, anche quelle che piovevano sul foglio come lacrime, erano belle.

Lei un giorno, mentre si preparava per andare a teatro, lo incontrò sulle scale. Sonia era tutto un luccichio che poco aveva di vero.
Le disse: "ti devo dire una cosa che mi brucia dentro".
Lei, quasi infastidita: "cosa?"
"Tu non ami nessuno. Tu vuoi solo recitare per sentire gli applausi. Non pensi a nessuno quando reciti. Solo alla tua voce e al tuo corpo. Perché l'anima è tutto un altro affare".
Lei stette un po' in silenzio. Poi disse: "ma lo sai quanti anni ho?"
"Lo so, ma la differenza che ci divide non sta in questo".
"No?”
“No. Tu hai avuto tutto. Basta guardare la tua famiglia. Io ho solo le mie parole nell'impallidire della sera e delle speranze. Ma non mi basta".
Lei non sapeva che dire. Si guardava intorno e lui le sbarrava la strada. Poi le diede un bacio che le fece quasi male, per quanta rabbia vi era dentro. E così la lasciò andare via, lì, nel mondo del tutto già scritto, degli effetti speciali che non la sorprendevano più, al contrario della vita di lui. Questo era il teatro per lei. Lui ne aveva un'idea diversa, che sapeva di autenticità, ma questo lei non l'aveva mai capito. Eppure lui sentì che la vita che faceva lui, ordinaria ma piena di sogni, era più reale di quella di lei: realizzata e sdegnosa. E fu grato al suo dolore per averglielo fatto capire.

Andrea depose l'incanto -quello dei primi tempi- ai piedi della ragazza, lo fece con lo sguardo. I suoi pensieri erano così reali che gli sembrava di vederli. E lei con passo leggero si avviò per la sua strada e lui si disse: "sta pestando il mio incanto"

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