Forse non ha molto di critico riportare così la lettura di un testo ma ispira una naturale simpatia questo lavoro di Roberto Donati, quarantenne docente, scrittore e sceneggiatore, nel tono di una malinconica e distanziata presenza dal mondo se per mondo si intende, come ora è vissuto, bramato e subito l’esercizio disordinato e senza riferimenti del quotidiano e di se stessi. L’amore anche, ridotto a separati silenzi nella riuscita immagine già del testo d’apertura della passeggiata della coppia nell’abitudine di parole e incontri (“come da sole/ unità più unità/ mai somma//mai plurale”) cui allora, viceversa all’essere soli e non accompagnati segue piuttosto ora il desiderio di momenti ordinari e comodi come di sera tenue e piena di un ritorno a casa condiviso e familiare ora di consapevolezze di troppe nebbie ed ombre a parlargli, a parlarci dentro per volerlo davvero (nel diritto al proprio angolo di solitudine, al proprio inferno privato). Il racconto pertanto è quello di una sospensione ed insieme di un procedere tra ricordi e inquietudini come di tormenta, scelta certo, abbracciata e accompagnata ( giacché “è la bonaccia a uccidere”) nel solo possibile, nel solo che ci è dato. Per questo parlavamo di riconoscimento in tanto dissentire unita a una dolenza di fondo rovesciata in un dire di condivisa e a tratti irrisolvibile, ironica e autoironica impotenza. Per questo, dunque, forse postmoderni come da titolo aggrovigliati a tensioni personali e storiche che consentono solo ritagli, solo impressioni nella visione di interni e di figure che restano come per sogno come per memoria calde e certe e spazialità di continui affetti e appetiti nuovi (tra inviti per chat e l’esser il numero preferito di un cellulare) per poter capire quanto si è vivi e quanto si è morti in un tempo che ha il suo corso lungo superandoci sempre. La carnalità è allora a spingere dai versi, “in una notte di perpetua esistenza”, nell’inseguimento dello stesso mai raggiunto amore, nel nitore di videociviltà la ricerca di un porto d’approdo, di un punto di tenebra (“sia pure un buco di spaziale nero/sia pure una rorida fica”) dai ritorni di ghiaccio, dalle ferite del sonno. Perché, infatti, come in “Ecce homo”, testo tra i più riusciti e di impronta molto sabiana, nel rispecchiarsi nel dolore del suo uccellino per la morte della compagna il rigurgito, o il suo rischio, è quello di un risveglio senza nemmeno la malinconia del ricordo, persi “in un amareggiare ordinato di/ inutili/ abitudini:/più vuote”. La scrittura così non può che essere lapidaria: “Poesie, e poi più:/monologhi di morti”, prosa frammentata nell’affermazione di un senso non trovato seppure, in realtà, sovente offerto nel dettato in aperture liriche di riuscitissima, rivelatoria intensità (vedi l’ungarettiana “Lindoro”, o “L’argine” in cui allo straripare del fiume solo a sorridere nell’emergenza resta il neonato nel sogno de “l’acqua in cui ha nuotato/ la stessa acqua”). In conclusione allora forse questo il lascito, antico, più forte che permane, di là dai tempi, da ogni tempo e dunque anche di questo a saperlo vegliare; quello di un cuore viandante che sempre “dev’essere un miglio/avanti “ (la testa sapendo di tutto la scadenza) nello sguardo notturno di “un girasole” che seppure scettico, perplesso, tra l’oblio della mente e il Nulla, sa e continua a fingersi in poesia.