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Fifty-fifty. Sant’Aram nel regno di Marte

Romanzo

Ezio Sinigaglia
TerraRossa Edizioni

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 24/06/2022 12:00:00

 

Il primo volume, Fifty-fifty, aveva lasciato il lettore in una sospensione siglata da queste battute: «E, per di più, dietro le gengive di Manon, ecco affacciarsi la dentatura famelica della Smokecock. Che cos’avranno, ambedue, da rider tanto? Una cosa è certa: Manon ha una notizia sulla punta della lingua. Che sarà mai successo? Fra poco, Fifí permettendo, lo sapremo». Dopo mesi di trepidante attesa il secondo volume, Sant’Aram nel regno di Marte, si apre esattamente nello stesso momento: «Le ultime sei-sette battute sono funestate dall’apparizione di Manon. Memento mori. Come se non bastasse Debussy, con i suoi rintocchi sepolcrali». Infatti, la cesura tra le due parti avviene sulle note di Sciade Sulapì, eseguita da Stocky come sottofondo a un dialogo tra Aram e la Ramsay, imperniato sullo scorrere funesto del tempo. E appunto in questa seconda parte delle avventure di Warum e Fifì, Sinigaglia rivela la vera vocazione del romanzo, ovvero l’essere una scrittura sul tempo e sul ricordo. O, segnatamente, su come il ricordo, attraverso il tempo, costruisca l’attuale e lo connoti. A fare riemergere i ricordi dalle oscure e liquide profondità, e a fare da opposto alle note della pioggia autunnale, sono le torbide acque stagnanti di un lavandino intasato. Infatti, a risvegliare i ricordi, mai del tutto sopiti, è l’apparizione di un’affascinante madeleine dalle fattezze del bel Sciofì, antica fiamma di Warum. Madeleine che emerge letteralmente dal ristagno di un lavandino otturato, poiché il bel Sciofì è idraulico, o meglio “Il lattoniere degli dèi” capitato per caso nella villa in Versilia dove soggiornano i protagonisti del libro, come già visto nella prima parte. E l’operazione di disotturamento dello scarico, accolta con grande giubilo dagli abitanti della villa, è letteralmente, nella narrazione, uno sblocco della situazione, arenatasi sulle schermaglie tra Warum e Fifì, innamorati ma non amanti, capaci di arditezze linguistiche ma quasi incapaci di dirsi la cosa più importante. Il bel Sciofì sembra essere proprio la metà mancante di Fifì/Stefano. Dunque, non è Stefano/Fefen, ad essere diviso nella sua essenza in due metà, ma sembra che egli sia solo una metà che si compie con Sciofì, che, tra parentesi, gli somiglia ma che, soprattutto, ha ben saputo essere l’amante carnale di Warum, cosa che manca a Fefen.

 

E Aram ci tiene a mettere subito in chiaro l’opposta complementarità dei due, e con lui Sinigaglia che definisce il carattere di questa seconda parte: «la trasparenza. La distanza tra Fifì e lui (Sciofì) si misura nel rossore. D’acqua quello di Fifì, di vino il suo. La trasparenza non è nel liquido, questo va da sé. Nel recipiente. Legno contro vetro. Corteccia contro finissimo epitelio». Infatti, da qui la narrazione si libera di molti calembour, di sensi mutevoli come acque, di recipienti fatti d’aria come le zuppiere di Sheffield, ma anche della corteccia, di quello strato apparentemente inscalfibile tra Aram e Stefano. Si fa gioco di pelle, di sensazioni, di tatto. Sciofì è, come si dice con abusata metafora, schietto come il vino, tant’è che in preda all’emozione più profonda che gli imporporava le gote ebbe da subito la sincerità (il candore non è una tinta è un talento) di dichiarare il suo turbamento al suo sergente. Il ricordo di quei momenti porta la narrazione nel luogo in cui si svolgerà: la caserma posta su di una polveriera dove entrambi prestano il servizio di leva.

Dopo un’attesa, densa di pensieri, luci e ombre, il romanzo si spalanca su un bellissimo viaggio, a bordo del furgone dell’idraulico Sciofì. Furgone tutt’altro che casuale ma una sorta di “veicolo celeste” dei ricordi: «Dodici giorni contro dieci anni: eppure lo conosco. Lo capisco ai guizzi delle iridi, ai bronci delle labbra. Come un motore rimasto fermo tanto, tanto tempo. Ma, se ce la fa a partire, funziona come prima». E infatti il motore si mette effettivamente in moto, e funziona, funziona bene.

Le pagine a bordo del furgone ricordano il Siegfried Rheinfahrt, in cui il richiamo del corno rimanda agli squilli del trombettiere Pisolo e le lumeggiature il carattere gaio del momento presente e dei ricordi che tornano a fiorire nella mente di Warum. L’aria estiva in cui i ricordi rifioriscono e si rincorrono, richiama, nelle ombreggiature della bella giornata con i suoi timori, le venature di speranza e di destino dell’orchestrazione wagneriana; pensieri e riflessioni che l’incontro di un antico amore, mai dimenticato veramente, porta con sé. I temi della gioventù, degli anni che passano, si rincorrono e si alternano come i temi divini e umani si intrecciano nel viaggio di Sigfrido, sorretti dal grande tema degli idilli della vita militare che fece incontrare Sciofì e Warum. Il primo, autista assegnato agli spostamenti del secondo, suo superiore ma ben presto amante. Così l’angusta tenda militare della vacanza sul Conero acquista consistenza e si circostanzia in una caserma, l’accenno si fa parola. L’idea del Conero trova la sua realizzazione, la sua consustanziazione nella caserma dove sant’Aram, santo per la lettera puntata della sua firma, aveva prestato servizio e dove amori fugaci, ma non per questo superficiali, si succedevano nell’austera cornice della polveriera. Ed è la polveriera, sopita lungo tutte le pagine del primo volume, e anche lungo quasi tutte quelle del secondo, ad essere il cuore nero e sotterraneo della storia: esploderà travolgendo storie e destini, o resterà dormiente, silenziosa compagna ammonitrice delle gesta dei nostri eroi? Sarebbe troppo facile rivelarlo, ma è anche altrettanto facile intuirlo, per cui sorvolo su quest’aspetto per soffermarmi proprio sulle avventure del nostro Warum coi camerati, sottoposti o ufficiali, e ciò che colpisce sempre è il bellissimo linguaggio con cui ogni cosa è descritta.

La narrazione delle “gesta” (di protocollo o privatissime) militaresche è narrata con grande arguzia e umorismo, ognuno dei personaggi ha delle peculiarità, dei tic, che lo rendono unico, ed è Warum a fare da collante alla truppa con la sua spiccata umanità, usando cuore e cervello rende il servizio di leva un’esperienza indimenticabile, tanto che molti, per un motivo o per l’altro continueranno a cercarlo dopo il termine del servizio militare.

Una polvere dorata si posa su ogni cosa, rendendola sublime, donando un valore inconsueto a fatti anche minimi. Quanta bellezza in Warum che prepara la moka per la truppa, quanti sottintesi di una trasversalità dei sentimenti, nel loro serpeggiare senza temere gradi o anzianità. Con quanta grazia e generosità Aram si dona ai commilitoni, ribattezzandoli secondo le loro qualità o attributi; leggendo, spesso mi sono venuti alla mente i supereroi della Marvel: ognuno ha un nome e un soprannome che ne descrive abilità o particolarità, così Sinigaglia trasforma chiunque in un essere con un attributo in più, facendone emergere qualità e abilità attraverso un nomignolo, in fondo facendo un grande atto di fiducia nei confronti dell’umanità: ciascuno ha un suo ruolo importante in meccanismi che lo sovrastano e, soprattutto, se entra in gioco l’amore, ognuno diventa un essere singolare, si staglia perché illuminato dal sentimento, così come una caserma, situata su di una polveriera, si trasforma in un luogo idilliaco, attraverso il lavorio delle parole dell’autore.

Al ritorno alla villa accade un fatto che riempie di gioia Warum: scoppia un temporale, Aram lascia la pioggia gli scrosci addosso, il ricordo di Sciade sulapì si richiude su sé stesso, il cerchio si chiude: può finalmente piangere senza peccato, il ricordo si libera, la morte si allontana.

Dicevo, il viaggio sul fiume incantato dei nostri due eroi si svolge, andata e ritorno, ma al ritorno, al termine del viaggio, dopo che le decisioni sono prese, le trame del destino tessute causano, esattamente come in Wagner il Walhalla brucia, la caduta degli dèi. Fefen se n’è andato. O meglio, chi era prigioniero di una sorta di incantesimo ha chiesto i bauli, sembra di sentire la voce di Françoise: «e alle nove se n’è andata». Nella pagina finale del romanzo riecheggiano le voci dei giganti immersi negli anni, il ricordo involontario, improvviso, ha generato il presente, Warum decide di scrivere un libro per Fifì, per riannetterlo a sé, completo del fifty mancante. La frase, subito dopo il punto finale, potrebbe essere: Fifí non vuol saperne. Non gli piace. Come possa dire che non gli piace, senza averlo fatto, è materia agitata. Un brodo in perpetua ebollizione. La notte, anziché farlo, ne parliamo e così via, il tempo riemerge, si fa narrazione e capolavoro, perché sicuramente questo Fifty-Fifty può essere annoverato fra i capolavori contemporanei.

Un’ultima riflessione, ho avuto come l’impressione, nella lettura, che le due parti del romanzo siano un po’ come le due famose passeggiate proustiane, una bucolica, nei pressi di casa, l’altra più distante, in terre straniere, come doveva essere la sensazione di chi partiva per il servizio militare. Salvo poi, al termine, scoprire che le due parti non sono poi così distanti, vanno più o meno nella stessa direzione, che è quella della vita in sé.

 


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