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Globalizzazione eno-gastronomica

Argomento: Alimentazione

di Catello Nastro
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Pubblicato il 14/05/2009 11:44:47


Globalizzazione eno-gastronomica

PRODOTTI DI QUALITA’ FUTURO DEL CILENTO

Con la globalizzazione anche i prodotti eno-gastronomici hanno invaso i mercati italiani avendo come unico scopo il risparmio per il consumatore dando vita ad un fenomeno mercantilistico che va sotto il nome accattivante quando menzognero di “offerta speciale”. Prendi tre, paghi due, per ogni pezzo comperato uno in omaggio, un litro e mezzo al posto di uno solo, ad ogni chilo di salsiccia un coltello in omaggio, mangia per tre paghi per due, compri due pacchi di vermicelli e ti diamo un pacco di spaghetti in omaggio, compri due pacchi di spaghetti e ti diamo un pacco di vermicelli in omaggio, ed il giorno dopo, si ripete la stessa storia. Insomma non è più la qualità che la fa da padrona, ma l’offerta speciale. Ebbene, cari lettori, io penso che nel nostro beneamato Cilento, nel quale vivo da circa sessanta anni, per risollevare le sorti della nostra economia, si dovrebbe ragionare all’incontrario. Mi spiego meglio. Prodotti industriali scadenti, di importazione o meno, costano meno della metà dei prodotti genuini che ancora oggi – fortunatamente si producono nel Cilento. Passiamo ad esaminarne alcuni. La mozzarella di bufala della Piana del Sele è un prodotto unico al mondo. Per il suo gusto, per la sua freschezza, per la sua genuinità. Per essere tale deve costare dodici o quattordici euro al chilo. Se costa di meno trattasi di imitazione che ha solo due cose in comune con l’originale: la forma, rotonda, ed il colore, bianco. Ma il sapore certamente no. I salumi del Cilento costano dai venti ai trenta euro il chilogrammo. Proprio perché sono prodotti con carni di maiale allevati senza mangimi e prodotti chimici e spesso provenienti dall’estero. Le sopressate di Gioi Cilento, se costano meno di trenta euro il chilo, sono dei prodotti industriali scadenti, con conservanti, di imitazione, senza alcun sapore. I ceci di Cicerale se costano meno di dieci euro al chilo provengono delle grandi coltivazioni spesso dall’estero, spesso con diserbanti ed altre diavolerie chimiche. Lo stesso discorso vale per i fagioli. Per quelli di Controne occorrono dodici euro al chilogrammo, per quelli provenienti da colture intensive, magari conservati in scatola, pieni di prodotti chimici che limitano di molto il sapore, meno di due euro. Anche gli ottimi fusilli di Felitto, fatti a mano, senza l’ausilio di mezzi meccanici, ma solo col famoso ferro quadrato, devono costare non meno di dodici euro al chilogrammo. Anche gli ingredienti ( farina e acqua) devono essere locali. Fusilli industriali, magari prodotti in Puglia o in qualche stabilimento del nord Italia, possono anche costare un euro al chilo. Ma veniamo alle verdure. Il carciofo di Paestum, quello ecologico, sul quale, magari, si trova anche la “maruzza spugliata”, deve essere prodotto nella Piana del Sele, senza diserbanti e di stagione. Sissignore, i prodotti di stagione sono i migliori ed i più genuini. Le cipolle, il finocchio, le cime di rapa, i pomodori ( ve li ricordate i San Marzano?), i cavoli, la cicoria, selvatica, naturalmente, sono il fiore all’occhiello della produzione di ortaggi del territorio. Naturalmente la differenza la fa il prezzo. Se al mercato li trovate a un euro, saranno senza dubbio di colture intensive. Sia ben chiaro che il prodotto ecologico, spesso, a vedersi, è meno perfetto di quello delle serre, che pur abbondano nelle nostre campagne, ma è senza dubbio di migliore qualità. Lo stesso discorso vale per le carni: bovine, suine, caprine, ovine, ecc. La carne di maiale può costare dai quattro euro al chilo, ai sedici euro al chilo. Quella di pollo stessa quotazione. Il vitello può arrivare anche ai venti euro al chilogrammo. Insomma è tutto questione di prezzo. I salumi del supermercato costano meno di otto euro al chilo, quelli di “artigianato” oltre venti ed anche trenta. Ma la differenza c’è e si vede. Anzi si gusta. Anche nei prodotti ittici avviene la stessa cosa. Un’orata di allevamento quattro euro al chilo, una di mare, di pezzatura più grossa, anche venticinque euro il chilo. Ed infine per chiudere questo nostro trattatello di enogastronomia, passiamo ai vini. Essendo vissuto in Piemonte per circa quindici anni, ho degustato… abbondantemente tutti i vini piemontesi. Ebbene, quelli della Campania non hanno proprio niente da invidiare a quelli della maggior parte delle regioni italiane. Fiano, Santa Sofia( quasi scomparso), moscato e moscatello, malvasia, tra i bianchi, aglianico, barbera, primitivo e sangiovese, tra i rossi, senza andare a scomodare i più nobili titolati molto quotati e quindi non accessibili a tutti, sono tra i migliori vini non solo in Italia, ma nel mondo. Il terreno, il sole, l’amore dei produttori, nobilitano queste preziose bevande che completano un pasto prezioso che solo nel nostro Cilento si può fare. Ma ora, cari lettori, veniamo al nocciolo della questione. Questi stessi prodotti li potete gustare in molte aziende agrituristiche del Cilento ed anche in molti ristoranti. Ma con una sola differenza. Se avete pagato, per un pranzo normale, quindici euro o anche meno, i prodotti non sono cilentani e genuini. Se invece avete pagato quasi trenta euro a pasto, è probabile ( a meno che non vi trovate di fronte a ristoratori disonesti) che avete fatto un ottimo pranzo con dell’ottimo vino cilentano. Ed a questo punto mi viene in mente un vecchio detto del territorio che così recita: “ Quanto spienni, tanto appienni”. Cioè, ogni prezzo di un pranzo ( o di una cena) è proporzionato alla spesa sostenuta. Il prosciutto crudo cilentano costa non meno di cinquanta euro al chilo. Quello che costa meno di dieci euro al chilo, non è cilentano, ma viene dall’Argentina. A voi la scelta: un etto di prosciutto prodotto genuino locale oppure mezzo chilo di quello argentino. In conclusione, e sempre a mio avviso, se il Cilento vuole qualificarsi nell’enogastronomia, deve battersi sui prodotti di qualità. Anche il consumatore, una volta abituato, non farà più questione di prezzo. Si accontenterà di una piccola quantità, ma di ottima qualità. In parole povere “ Poco e bbuono!”. Sia ben chiaro che questi “prodotti di qualità” vanno consumati sul posto. Perché sempre freschi ed alla portata di mano. Senza essere esportati “vittime della globalizzazione”, perdendosi nei meandri di una distribuzione che spesso non va tanto per il sottile. E questo, cari lettori, in conclusione, si chiama fare turismo. Turismo enogastronomico. Una voce sempre più roboante nella nostra economia di antiche tradizioni.





Catello Nastro



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