Le mattine d’inverno ha un suono sorprendente e asciutto
l’incontrarsi di due porcellane, come se la tazza lucente
e vuota che si solleva a ricevere il caffè, per poi ridiscendere
obliquamente nera sul piattino, aprisse una pausa di tempo
sospeso tra pareti sottili di carta velina, spazio aperto
in uno schiocco su pantofole di feltro a strascicare
il passaggio da nuova a vetusta era - testimoniato
da altri oggetti ora in una veste inabituale, ieratica e solitaria -
Scivolano lungo il corridoio slitte di sessanta verste
cariche di uomini fradici e infreddoliti -
come velieri di ghiaccio e luci d’oro,
profeti giunti dalle sponde di fiumi di vetro
che dicono di colombe bianche e divinità
smembrate e poi piantate come semi nella terra -
o parlano del nulla e di tempeste di candore -
pallidi sogni di crisalidi che voleranno in primavera.
E la luce è un riverbero di cristalli di neve
dietro a nubi gonfie come guance di bambine
che hanno appena riso pattinando sul ghiaccio -
e ora sono pronte all’offertorio di una torta al cioccolato
che la nonna spolvera di zucchero a velo
e di parole sacre nel grembo caldo della casa.
Fuori sulla sua neve siberiana candida e marcia Dostoevskji
cammina col passo lento di un pensiero grave, leggendo,
mentre al suo fianco Myskin gli bisbiglia frasi affettuose
in un’andatura sussultante e strana, e il dolce Alioscia
annuncia il suo ritorno in un convento, ma non prima
di avere discusso con un adirato Ivan . Raskòl’nikov
è triste, ma gli sorride la sua Sonia. È Natale.
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