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Le pareti bianche

di Valentina Grazia Harè
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Pubblicato il 16/07/2013 22:05:12


Ero in una sala d'attesa bianca, un po' giallina, ma l'attesa è bianca quindi la stanza d'attesa era bianca.
Molti personaggi affollavano la sala, molti erano proprio fondamentali come i pilastri che al confronto sembravano più precari. Li guardavo, sapevo di trovarmi in un luogo un po' stranito: mi continuavo a ripetere: sto assaporando l'eterno. Infatti erano tre giorni che aspettavamo lì, senza mangiare e senza bere. Avevamo solo parole e attesa. Ogni tanto un infermiere spuntava alla fine del corridoio, ma veniva ingoiato dalla stanza accanto, e tutto tornava ad essere sconcertante per quanto era immoto. Sentivamo nelle vene perfino lo sforzo che faceva l'orologio nel suo duro lavoro.
Una donna ripeteva a ognuno di noi la stessa cosa, velocissima, ma nessuno capiva. Lei proveniva dalla Clinica "Keep the Queen" e non sopportava che quella in cui noi ci trovavamo fosse migliore a quella del suo cuore. Che fosse il cuore di una situazione che fosse migliore.
Ripeteva supersonica: "Un'equipe equiparata a chi? Chi ha detto che è qui l'equipe equiparata a Keep the Queen?"
La vocina aveva un che di altisonante di malagrazia. E proveniva dalla signora seduta di fronte a me: aveva rari capelli bianchi, come porzioncine di luna non tanto generose: giusto un po' poetiche quando le si paragonava all'ultima stagione della vita. Ma sorprendeva in questa donna la malinconia agguerrita contro tutte le dolcezze della vita: si slanciava in avanti come per vagliare l’intorno, se c'era idea di pericolo. E gli occhietti: : ti fissavano fino a farti confessare che la vita è amara: le strade sono in salita, se non lo sono allora ci sono fossi; se non vedi fossi, ci sono fossi nascosti; le persone ti deludono, o ti rubano il fidanzato, o ti rubano in casa. Insomma tutto questo comunicava la cara signora che calzava e poteva calzare un solo nome: Adunca. Ma poi feci caso alle sue parole, visto che le ripeteva, poiché nessuno afferrava subito il significato. Capii che rimpiangeva la sua vecchia clinica dove tutto andava a meraviglia. E ognuno di noi rimpiangeva qualsiasi cosa, bastava che non fosse il posto dove purtroppo eravamo costretti a stare. C’era una costrizione che era più forte di tutte le cose che ci circondavano, una stramaledetta costrizione interiore, ferrea e imponente, che ci costringeva a ripetere ogni volta la delusione: la notizia che dovevamo rimanere lì: lo diceva l’infermiere a cui noi chiedevamo sempre sapendo che la risposta sarebbe stata quella. Non c’era neanche una diafana possibilità di scelta. Eravamo come costretti a sorbire le parole, sempre le stesse, e di cui noi eravamo stranamente avidi. A causa di una qualche balorda punizione che avevamo bisogno di auto-infliggerci.
L’infermiere tirava un lungo e loquace sospiro, poi con gli occhi illividiti da quelle finestre sempre chiuse, quegli occhiettini che conoscevano solo i libri e che non erano abituati alle persone e alle cose, diceva: “tutto uguale, tutto regolare, niente di nuovo… che si deve fare? Non c’è niente da fare”.

Noi ci guardavamo, poi guardavamo attorno l’aria e non avevamo più nemmeno forza di controbattere, e volevamo bene persino a quell’odioso infermiere. Sentivamo che le sue parole e i suoi occhiettini erano le nostre parole e i nostri occhiettini. Diceva ed era quello che noi –dentro- dicevamo ed eravamo.
La nostra ribellione, che il primo giorno era davvero grintosa, diventava pian piano sempre più flaccida. E così i nostri corpi, lontani dalla musica e dall’amore.

Anche il telefonino che qualche volta, sempre più scoraggiato, suonava, noi come per un impulso, lo spegnevamo: era un impeto fatto di morte. Lo stesso orribile condizionamento che ci obbligava a morire, ogni momento, di una morte vivente.
Prima, quando il telefono suonava, noi subito ci rallegravamo perché rappresentava la vita che voleva vivere; ma ora perdio! pigiavamo il tasto per spegnere,; il male veniva da dentro: molti provavano a dimenarsi, a scappare dalla sedia, ad aprire la finestra, ma tutto curiosamente avveniva dentro la stanza che assomigliava a una pancia e noi eravamo nel corridoio dove transitavano barelle che, a loro volta, somigliavano a cibo che la stanza ingurgitava. Eravamo dentro noi stessi.
E per questo ogni punizione era come se venisse dall’esterno, invece l’avevamo proprio dentro, e niente si poteva fare per ribellarsi. Ci tornavano alle orecchie le parole dell’infermiere: “E che si deve fare? Non c’è proprio nulla da fare.”
Io dissi alla signora Adunca: “è inutile che si dibatte, non c’è nemico contro cui combattere: siamo noi i nostri nemici, e ci combattiamo!”

Un uomo aveva preso a insultarsi da solo, visto che non poteva rivolgersi più al suo odiato nemico che era fuori la clinica. Si ingiuriava perché doveva, la sua mano destra picchiava quella sinistra, e l’occhio destro guardava male il sinistro.
E non ci lamentavamo che non c’era mensa, perché lo strano infermiere ci diceva: tra le pareti di bianca malinconia non ci può essere mensa. D’altronde era una frase perfetta per noi, esseri fatti di perfetto dolore, e l’accettavamo quasi con un sorriso che era la conversione in gesto della nostra paura.
Io pensavo: “Vuoi vedere che ognuno rivolgerà le armi contro se stesso, come fa questo signore…” E la cosa strana era che non ce ne vergognavamo, tutti eravamo spudoratamente accaniti contro noi stessi e contro la nostra irresistibile tendenza a punirci.
Persino la signora Adunca che prima elogiava la sua clinica “Keep the Queen”, ora sembrava non veder più niente a parte il posto dove eravamo. E dove saremmo rimasti: prigionieri del bianco dell’attesa: a poco a poco si faceva tutto sempre più incolore, neanche più bianco si poteva chiamare… era proprio una sconcertante povertà di colore. E infatti pian piano ci scordavamo che esisteva al nostro fianco una persona. Niente, avevamo perso l’interesse degli altri. Ed eravamo sempre più intenti a badare a noi stessi, e ai nostri ricordi. La signora Adunca, dalla malinconia cattiva, ci aveva contagiato. Il sole dietro le serrande sembrava allontanarsi e lasciare il posto a un freddo che si impossessava di noi, lentamente ma inesorabilmente affamato della nostra vitalità.

Passò di nuovo l’infermiere e sentimmo le sue parole, con la nostra voce, e mi diede un effetto strano: era la voce di ognuno di noi che ripeteva: “E che c’è da fare, non c’è proprio, ma proprio nulla da fare”, ma lui non muoveva neanche la bocca: tutto partiva dal nostro cuore avvilito che si suicidava in mancanza di soffi di vita.
La signora Adunca e l’uomo che lottava con se stesso ogni tanto si addormentavano ed anch’io ed era allora che facevamo pace con noi stessi: ci facevamo dei regali, ogni sogno era il nostro compleanno… ma, quando ci svegliavamo, cozzavamo contro la durezza del bianco dell’attesa: eravamo bambini trascurati che attendono un dono, nel nostro caso un infermiere buono che ci desse una bella notizia, ma l’infermiere eravamo noi, e la clinica era la nostra pancia. E facevamo finta di non saperlo: talmente eravamo sconcertati dalla penosità della situazione.
Ricordavamo la vita supersonica che c’era fuori, ma quella appunto era la vita. E noi non ne sapevamo più niente. Echi di sole bussavano alla finestra, ma facevano in fretta a scappare via, come impauriti dalla nostra tristezza che dilagava e sembrava quasi un lutto. D’altro canto un lutto davvero per noi era stata la delusione dell’amico che era fuori dalla clinica, e con cui noi avevamo litigato, e che prima amavamo. Quello che ci aveva fregati… strano a dirsi, era la nostra perplessità nell’amare le persone, sì, l’ambiguità. Ci avevano catturati in questa orribile clinica senza tempo perché degli infermieri ci avevano visti dubitare nella conversazione con i nostri amici. La signora Adunca per esempio parlava con la figlia, ma fu sorpresa mentre esitava nel parlare con lei, e subito gli infermieri l’hanno intrappolata nella clinica dove ora lei pensa solo a se stessa, e sempre con se stessa si arrabbia e si auto-rimprovera. Come tutti noi, del resto, che abbiamo avuto la colpa dell’ambivalenza, e per questo siamo stati puniti. E invece di odiare gli altri, il flusso dell’odio si è rivolto dalla metà del nostro corpo all’altra metà. E finirà che ci annienteremo se continuiamo così…

Ma dicono che verrà il tempo che spalancheranno le finestre e il sole ci tornerà a benedire e ci addosseremo la festa, e sarà molto presto, perché il ricovero in clinica –l’ho saputo da poco!- ha una durata ben precisa, e poi passeremo dalla parte opposta, dove tutto è euforia: ma sarà soltanto, spiegano gli infermieri, per non pensare più alla tristezza di questa clinica: cercheremo altri amori, e sarà sempre per rimpiazzare il dolore di questo brutto periodo con tutte le sue delusioni terribili… Faremo baldoria per non pensare alla malinconia. Ma può darsi che strada facendo, all’uscita della clinica, troveremo un dottore che non sia, come gli infermieri, la nostra voce interiore, ma sia “staccato da noi”, eppure anche come un padre, un fratello, o quello che noi decideremo che sarà… e così possiamo far pace con la nostra ambivalenza, e ci apriremo al rapporto vero con le persone e non ci chiuderemo dentro al bianco delle pareti dove invece ora… ci sono dipinti paesaggi di sogno, i paesaggi dimenticati che formano la bellezza della vita. Proprio sulle pareti pallide della clinica ho scritto questo racconto, e così esse hanno smesso di essere fatalmente bianche


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