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In nome e per conto della comune umanità

Argomento: Letteratura

di Timothy Megaride
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Pubblicato il 20/11/2020 12:43:16

da il tetto, n. 334, anno LVI, novembre-dicembre 2019, pp. 76-84

 

«Anni settanta nati dal fracasso

s'aggrappan tutti alle cose di sempre

qui c'è uno scemo che s'aggrappa invece

ad un bambino morto di dicembre».

[Paolo Pietrangeli, I cavalli di Troia]

 

 

Certe verità non hanno nulla di assoluto e incontrovertibile; appartengono piuttosto al novero delle possibilità. Approssimative per difetto di prove, possibili per profusione d’indizi contestuali. È forse uno dei non rari casi in cui l’empirismo muove un passo indietro e lo cede al metodo ipotetico-deduttivo che, procedendo dalle circostanze, focalizza il fatto per logica inferenza, approssimandosi a esso, mai centrandone il nucleo rivelatore. 

Non c’è serio investigatore (né uomo di scienza o storico) che possa sentirsi autorizzato a una simile procedura; è consentito solo al letterato, il quale può bene affermare di sapere senza avere le prove. 

È dunque opera di letterato il bel libro di Antonio Iovane[1] che qui provo ad analizzare e capire, senza la pretesa di riuscirci. Ascrivibile, per certi versi, al genere romanzo storico, se malauguratamente la Storia non richiedesse tempi più lunghi e documentazione più probante per ricevere l’opinabile crisma dell’imparzialità. Perché sarà pur vero che la storia la scrivono i vincitori (avendo il privilegio di conoscere qualche storico, mi consento di affermare che si tratta di un luogo comune, probabilmente vero per un modo arcaico di fare storia), ma qui si dà voce anche ai vinti, se in bibliografia compaiono i nomi (e che nomi!) degli sconfitti. Per farla breve, penso che l’aggettivo “storico” sia riduttivo e semplificativo perché, a dispetto della presenza nel libro di persone “vere” esistenti o esistite e della cronaca di fatti accertati, le passioni legate a quella cronaca sono ancora vive e tutti noi ancora percepiamo le conseguenze degli anni di piombo, non solo perché molti dei protagonisti e dei testimoni di quegli anni sono tra noi, ma anche perché il terrorismo, comunque si manifesti e qualsiasi ne sia il movente ideologico, lascia strascichi che investono più generazioni, non diversamente dalle guerre, certamente latrici di morte, distruzione e rovine. Ho letto sul volto di giovani e giovanissimi i segni di un antico misfatto del quale non sono stati né potevano essere testimoni. Nell’uccidere un loro antenato abbiamo sacrificato qualcosa della progenie, assai prima che questa venisse al mondo. Persino Iovane, che all’epoca dei fatti riferiti era solo un bambino, pare che soffra e che, nel suo dire, intenda trasferirci la sua pena. 

L’autore si è servito degli archivi dei giornali e delle emittenti televisive, di una nutrita bibliografia, forse di qualche testimonianza per darci una possibile narrazione di circa un decennio di storia nazionale, dal 1969 al 1979, con un epilogo che giunge al 1982, anno del rapimento Dozier e simbolicamente della disfatta delle Brigate Rosse. L’escalation della violenza e del terrore è rappresentata da una specie di diario delle giornate cardine del conflitto armato che vide combattere su opposti e impari fronti il gruppo marxista-leninista e lo “stato padrone”. La dietrologia è implicita per gran parte del lungo racconto, si fa più esplicita, insinuante e drammatica nel finale, che fa pensare a un giallo senza il piacere della scoperta dell’assassino. Risponda chi legge queste note: che cosa asciuga bagnandoti? Salvatore, un personaggio cardine delle vicenda, non sa rispondere. Lo fa per lui Ornella Gianca, una giornalista in gamba, ma la soluzione le resta strozzata in gola. Salvatore non l’ode, è già lontano e, quale carabiniere, da allora in avanti si occuperà sempre più di mafia e sempre meno di terrorismo

L’enigma vero resta irrisolto o perché chi sa non dice o, se dice, lo dice solo a se stesso e dunque è come se non dicesse. I misteri italiani sono così, da sempre. Le Brigate Rosse ebbero una regia diversa dai riconosciuti capi storici? È credibile che il terrorismo di estrema sinistra fosse parte integrante della stessa strategia della tensione dalla quale la vicenda prende le mosse? Chi lo volle e perché? 

Mi viene in mente l’affermazione di un altro personaggio simbolico, Antonio, un giovane cameramen, ballerino affetto dalla Febbre del sabato sera: «Non sarà Dalla Chiesa che sconfiggerà le Brigate Rosse. … Sarà John Travolta». Sennonché penso che l’attore ballerino non abbia inventato se stesso e forse non sono stati neppure i suoi registi e sceneggiatori a concepirlo, ma qualcuno che non vuole essere nominato. Travolta sembra il naturale approdo della strategia della tensione, degli anni di piombo e della lunga scia di sangue che, come fiume in piena, travolse uomini e valori: il riflusso, il disimpegno, l’effimero, l’ignoranza dei giovani hanno una data di nascita e un movente, la drammatica fine di un innocente e il  plumbeo grigiore degli anni più bui della storia della Repubblica. I giovani volevano sole e vita, volevano danzare e cantare, avevano gridato scemo scemo nelle piazze, una stupidità sembrerebbe, in realtà il loro slogan di rivolta alla solfa sanguinaria della redenzione rossa: il potere nasce dalla canna del fucile. Non redimi nessuno se uccidi un innocente. La realtà è quella che osserva Jacopo Varega detto Vladimiro, un brigatista “tipo” in clandestinità. Scruta, a distanza di sicurezza, i suoi genitori. «Guardavano Scene di un matrimonio. Non stavano abitando l’angoscia, ma vedevano tranquillamente alla TV il film di Bergman in sei puntate sulla crisi della coppia. Io pensavo alla rivoluzione e loro guardavano un film sulla crisi della coppia. … loro guardavano Liv Ullmann ed Erland Josephson che mandavano in pezzi il loro matrimonio. So perché provai rabbia. Roba come quel film, le lettere sull’adulterio al Corriere della Sera o le sale da ballo erano contro di noi. Noi risvegliavamo le coscienze mentre gli altri si rifugiavano nell’effimero dell’amore e del divertimento». Sesso, droga e rock and roll; polizziotteschi, commedie sexy all'italiana e Bruce Lee; Teatro 10RischiatuttoCanzonissimaSenza reteMilleluciAdesso musica (lanciò i Matia Bazar citati nel libro), CantagiroUn disco per l’estateFestivalbarIeri e oggi, programmi popolari e seguitissimi, furono, col contestato Lucio Battisti, l’effimero che impazzava presso “le grandi masse” negli stessi anni in cui per le strade d’Italia si sparava. La controrivoluzione aveva già vinto ancor prima che la rivoluzione cominciasse. I brigatisti, imbevuti di una rappresentazione mitica della realtà, prigionieri di una dottrina utopistica (forsanche distopica) che somiglia assai più a una religione che a un progetto politico, non sanno fare i conti con la società loro contemporanea, non sanno leggere i segni dei tempi, colpiscono quelli che loro definiscono “simboli”, ignari della verità incontrovertibile, ora e per me incontrovertibile, che nessun essere umano può essere un simbolo, per il semplice motivo che vive, respira, prova gioie e dolori, pensa, sceglie, agisce, ma cambia anche idea e disdice quello che ha detto, si contraddice perché il tempo, nel modificare lo scenario, modifica l’attore. Il simbolo è statico, l’uomo è dinamico. I brigatisti di allora, ora ultrasettantenni, sono la prova schiacciante dell’azione plasmante del tempo. Si dedicano ad attività di pubblica utilità: espiano, come ogni buon cattolico che si rispetti, il loro personale peccato originale. 

Venivano tutti dalla cultura cattolica, essendo nati e vissuti in un paese che ciucciava cattolicesimo col latte materno e tuttora lo ciuccia, beninteso non il cattolicesimo possibilista postconciliare, ma ancora essenzialmente controriformistico, fatto di forme, simboli e viete liturgie. Non si tratta di una religione, ma di una cultura e uno stile di vita. Già allora qualcuno diceva di loro: hanno cambiato religione, ma restano dei monaci. I rituali formali del cattolicesimo tradizionalista ci sono tutti, parzialmente attinti dall’arcaico cerimoniale ebraico. Ecco l‘agnello di Dio, ecco il capro che assume su di sé i peccati del mondo, il capro espiatorio, la vittima sacrificata a un’idea percepita come divinità: «… ripetevo a memoria alcuni brani dei Manoscritti economici filosofici come un rosario» - dichiara Jacopo. I suoi epigoni contemporanei leggono versetti coranici e chiamano santa la loro guerra. I libri cambiano, ma restano sacri e indiscutibili. Chi li discute non è degno di vivere. Bella prospettiva, per la Storia, per la conoscenza, per la civiltà!

Preferisco parlarne con Moreno. Lui è stato operaio, ha seguito la vicenda da una prospettiva interessante, anche se temo guardasse Scene di un matrimonio in compagnia di sua moglie. Nato nell’immediato dopoguerra in una delle tante città italiane devastate dai bombardamenti, da bambino ha conosciuto le privazioni, la miseria, la fame, la pediculosi, il tifo e la dissenteria. I dopoguerra sono così. Molti della sua generazione ce l’hanno comunque fatta, hanno lottato, patito e infine hanno trovato un lavoro in fabbrica. Si sposò con una maestrina, ebbe due figli. Oggi è vedovo. I figli sono entrambi laureati, sposati, vivono ambedue lontani.  Ora se la cava da solo ed ha una sua calma saggezza. Non l’ho mai udito lamentarsi di nulla. Mai! Dopotutto si sente fortunato: in casa sua entravano due salari, all’epoca ancora una rarità e una fortuna. Erano salari bassi ma bastevoli a far vivere dignitosamente quattro persone. Proprio sul principio degli anni Settanta le paghe presero a migliorare, sia nel pubblico impiego sia nel privato. Trovavi nelle case, oltre al televisore, anche il frigorifero e la lavatrice, per lo più comprati a rate. Riuscivano a portare al mare, per un paio di settimane, i loro figli. Li mandavano a scuola, all’epoca già formalmente aperta a tutti. Liceo, capite! E poi l’università. Tutto questo tra gli anni Settanta e gli Ottanta.

Sono le donne che fanno gli uomini – mi ripete spesso. – Elvira fece me. Io, dopo le elementari, ho frequentato per tre anni la scuola di avviamento professionale. Dopo la quale ho fatto il tornitore per quattro anni, fino a quando, per un colpo di fortuna, sono entrato in fabbrica. Grande azienda! Orari e turni da contratto, niente più lavoro nero, sfruttamento sì, ma non paragonabile a quello subito durante gli anni dell’adolescenza. Elvira mi educava, oltre ad amarmi, mi educava alla responsabilità, alle cose serie e importanti della vita, alla lettura dei suoi numerosi libri. Mi ha reso felice e responsabile. Eravamo entrambi orgogliosi dei nostri figli. Loro infine ce l’hanno fatta e oggi conducono una vita davvero decente. I loro figli, miei nipoti? Sono ragazzi di oggi. Sanno poco o nulla delle nostre vite. Sono un po’ viziati, come tutti, stanno perennemente a smanettare sui loro smartphone. È così che sono andate le cose

Gli ho regalato il romanzo di Iovane perché mi sarebbe piaciuto confrontarmi con lui. Lo ha letto in due giorni per poi dirmi che, sì, gli è piaciuto molto, ma che gli ha anche messo una gran tristezza addosso. Mi dispiace, non volevo; volevo solo parlarne con lui, con uno che è stato in fabbrica per quarant’anni e che gli anni di piombo li ha vissuti. 

Hai fatto bene. Mi hai fatto conoscere un libro e uno scrittore dei quali ignoravo l’esistenza. Penso che di un libro del genere ci fosse bisogno. Sicuramente non è tutto, ma è equanime e non si ferma alla cronaca. Nessuno dei personaggi è un simbolo; di chiunque si tratti e comunque la pensi, l’autore mette in campo degli esseri umani, non dei simboli. È vero che divide la società italiana in categorie, ma non può fare altrimenti se intende rappresentarla nella sua interezza. Ecco gli attori: le Br, i nemici delle Br, lo stato, i giornalisti, la società civile, gli altri. Uno schema, certo, ma uno schema credibile per rappresentare una realtà complessa e dinamica. Hai notato come cambia prospettiva a seconda dei gruppi che rappresenta, i quali hanno, come nei film, protagonisti, comprimari e comparse? Il racconto è rigorosamente in terza persona, a parte la testimonianza di Jacopo, che si racconta da solo perché drammaticamente rappresenta il nocciolo del dramma collettivo. Cazzo, Timothy, quanto è umano! Per la verità non c’è personaggio che non abbia una sua vita privata indegna di considerazione. Il personale è politico! La lezione proveniente dal femminismo militante qui è come il motivo ispiratore del romanzo. Guarda la storia della famiglia Fornati o quella dell’ex partigiano Rocco. Osserva Paolo Galbiati, Marina e Salvatore. Dio, quanto è bello e tenero il personaggio di Salvatore De Rosa. Vi trovi l’eco della celebre polemica pasoliniana a proposito dei fatti di Valle Giulia. “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri”. Di Pasolini Iovane pone in esergo una citazione da “Petrolio”. Evidenzia l’edipo irrisolto di tanti giovani di allora. Non puoi uccidere tuo padre se ne ignori la storia. Devi sapere chi è tuo padre prima di superarlo. E comunque l’uccisione di Edipo è metaforica. Tu non uccidi nessuno. Vai oltre, fai storia, non fermi la storia.

Quando obbedisci ai Comandamenti, non fai politica, ti guadagni il paradiso; va bene, non ho dubbi che vada bene! Però mi pare acquisito che il paradiso non sia di questo mondo. La gestione di questo mondo è gestione politica e la politica, ahimè!, non è una scienza esatta. La politica, per altro verso, non la pratica alcuna divinità; è solo ed esclusivamente responsabilità degli uomini. Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Zedong furono esseri umani come noi e non mi pare che siano tra i redattori della Bibbia o del Corano. Mettiamola così: a rivoluzione finita le BR avrebbero realizzato la “dittatura del proletariato”. Sarebbe stata stalinista e poco leninista. Qualcuno mi spiega quale voce in capitolo aveva il proletariato con Stalin? Nessuna. Se avesse provato a dissentire sarebbe finito nei gulag, fatto salvo il valore supremo dello stacanovismo, che probabilmente è qualcosa di peggio della catena di montaggio. Ecco la prospettiva di quel moto “rivoluzionario”. Per altro verso lo Stalin nostrano avrebbe dovuto fare i conti col proletariato italiano degli anni Settanta, non con quello russo del 1917. Com’era il nostro proletariato? La famiglia tipo operaia era costituita da padre operaio, madre casalinga e figli. Benché non mancassero i qualunquisti e persino qualche fascio, di solito il padre votava Partito Comunista e la madre Democrazia Cristiana. Un compromesso storico alla carlona, del genere bonario di Peppone e don Camillo. Gli operai comunisti andavano in chiesa e si segnavano, celebravano per lo più il matrimonio religioso anche dopo l’introduzione del divorzio e del nuovo diritto di famiglia, facevano battezzare i figli, li mandavano al catechismo, gli facevano somministrare i sacramenti dell’eucarestia e della cresima, celebravano il Natale e la Pasqua. Non solo per compiacere le loro consorti, ma anche per dare ai loro figli la percezione di essere parte di una cultura comune. Con che cuore avresti tolto loro la gioia del presepe o del regalino sotto l’albero di Natale? Come avresti potuto escluderli da una ritualità tanto consolidata senza privarli del bene prezioso dell’infanzia? I padri avevano sofferto e anche tanto! Non volevano che i figli pagassero ancora per una guerra che sembrava non finire mai. 

La condizione operaia migliorava, lentamente, ma migliorava. I più anziani volevano gettarsi alle spalle la tragedia della seconda guerra mondiale, erano stufi di morte e distruzione. In un primo momento, diciamo fino a Sossi, le BR godettero di qualche simpatia da parte del ceto operaio. Agitavano le acque e lo facevano in maniera più irruenta del pachiderma sindacale. Poi, quando si diedero alle gambizzazioni e agli omicidi, cominciarono a perdere consenso. La gente comune non capiva e non avrebbe mai capito. I loro proclami erano incomprensibili, le foto che ritraevano i sequestrati sembravano manifesti di lutto. I brigatisti erano lugubri e tristi, uccidevano i sogni, cancellavano nei fatti le speranze. Hai visto come li rappresenta Iovane? Non sorridono mai. Sesso e amore sono banditi dai loro discorsi quasi fossero non istanze umane ma privilegi borghesi. Hai letto cosa Gaia afferma delle prestazioni sessuali di Jacopo? Hai visto come reagisce lui? Ti sei interrogato sui suoi sentimenti per Irene, sui suoi moti di gelosia, sulla repressione di tutto ciò che in lui resta di umano? Ci sono ammazzamenti che sembrano stupri, quasi la compensazione di un erotismo negato. 

Castelporziano fu catartico: non solo per la voce del mitico Allen Ginsberg, ma anche per quel senso di riscatto che il libero sesso consentiva ai fricchettoni del momento. Negli anfratti della boscaglia potevi vedere giovani corpi confondersi ben oltre gli amplessi di genere. Il femminismo che aveva per anni rivendicato il diritto individuale alla proprietà e gestione del corpo ora quel diritto sputava in faccia a chiunque passasse nei paraggi. I corpi si sceglievano liberamente, senza più inibizioni né condanne. Ecco ciò che molti volevano: appartenere a se stessi, esprimere la loro identità. Diritti civili! Chi riuscì a interpretare questo bisogno diffuso vinse la partita. Non il campionato. Mentre in altri paesi democratici sembra vinto il campionato, da noi occorre ancora combattere per la bacchettoneria di ritorno che sempre serpeggia nei bacati di mente di tutte le dottrine, qualsiasi ne sia il colore. La laicità, che dovrebbe impregnare la politica, è emarginata dal 1922 nel nostro paese. Qui da noi la guerra santa è prassi comune. La figura di Montanelli, in verità alquanto iconografica, è intrigante per questo. La letteratura può anche consentirsi un po’ di retorica. Il celebre giornalista è rappresentato come un galantuomo, a dispetto di una biografia non sempre all’altezza della fama di cui gode. Bella la sequenza in cui Lucio Aliberti (definito democratico) va a rendere omaggio all’avversario politico ferito dalle BR. Sembrano due cavalieri usciti dalla penna di Ariosto. L’immaginario collettivo così si rappresentava alcuni avversari politici, concorrenti, non nemici da denigrare o trucidare. Forse ne esistevano. 

Abbiamo i cervelli in fuga? Per forza! Chi ha un cervello e ha il vantaggio di saperlo usare cerca luoghi migliori in cui vivere. Il paradiso in terra non esiste, ma esistono paesi in cui la qualità della vita supera di gran lunga l’angustia della terra natale, la grettezza e l’ipocrisia del “paese orribilmente sporco”.

Ancora Pasolini. Pare che Iovane ne tenga sott’occhio gli scritti polemici. Il poeta friulano dichiara che Moro è “colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi”. Intanto è Aldo Moro che viene rapito e poi ucciso dalle BR. Per quale crimine, se davvero fu un ripiego il suo rapimento? Andreotti, Fanfani e Cossiga erano inavvicinabili. Moro era l’anello debole della catena. Ti fa pensare al predatore che nel branco erbivoro adocchia la preda meno protetta, l’azzanna, la divora.

Fu uno stillicidio di cinquanta giorni in cui non più il politico, ma un sessantaduenne inerme, marito, padre e nonno, provava a esorcizzare il senso di estrema solitudine nella quale viveva a motivo della cattività. Le foto mostravano un volto prostrato dal dolore. Il cofano aperto di una Renault rossa parcheggiata in via Caetani esibì alla comune pietà il corpo senza vita di un vecchio indifeso e fece versare non poche lacrime ai tanti che, quant’anche non lo avessero amato, non lo avevano mai odiato. E molti si chiesero: perché?

Fu quella la vera sconfitta delle BR. Avevano colpito al cuore qualcosa che apparteneva, se non a tutti, alla maggioranza del popolo italiano: l’umanità.

Ricorda, Timothy, non si governa nessuno in nome e per conto di un’idea; lo si fa in nome e per conto della comune umanità. A me sembra la lezione del bel romanzo di Antonio Iovane. 

Non ho osato interrompere la lunga e calorosa perorazione del mio amico Moreno, uno dei tanti operai in pensione. Se fossi l’autore del libro, chiederei a lui di presentarmi al pubblico. 

 

Timothy Megaride     

  

  



[1] Antonio Iovane, Il brigatista, minumum fax, 2019.


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