Grazia Deledda è stata una delle figure più singolari e affascinanti della letteratura italiana del primo Novecento. Autodidatta, proveniente da un contesto periferico e tradizionalista, è riuscita a imporsi sulla scena culturale nazionale e internazionale, conquistando nel 1926 il Premio Nobel per la Letteratura, un traguardo straordinario per una donna del suo tempo, ancora oggi ineguagliato in Italia. La sua opera ha avuto il merito di far conoscere al mondo la Sardegna rurale, aspra e solenne, animata da codici morali arcaici e da un profondo senso del tragico. I suoi romanzi, come Canne al vento, Elias Portolu e La madre, affrontano temi universali come la colpa, il peccato, il destino e la redenzione.
Tuttavia, nel contesto culturale del 2025, la figura di Deledda appare sempre più marginale, quasi congelata in un’aura museale. Pur riconosciuta e celebrata nei circuiti accademici e nelle commemorazioni ufficiali, fatica a trovare un reale coinvolgimento presso i lettori contemporanei, soprattutto tra i più giovani. Questo non tanto per limiti oggettivi della sua scrittura, che rimane densa, evocativa e simbolica, quanto per una distanza crescente tra la sua visione del mondo e la sensibilità odierna.
Il suo universo narrativo è dominato da un senso opprimente del destino e da una religiosità tragica che oggi risuona poco. I personaggi deleddiani vivono spesso prigionieri di un ordine morale inflessibile, in cui la colpa si paga sempre, la trasgressione conduce all’espiazione, e la libertà individuale è limitata da forze ancestrali o divine. Per una società che tende invece a problematizzare l’etica, a valorizzare la complessità psicologica, a rifiutare visioni deterministiche della vita, l’opera di Deledda può apparire cupa, fatalista, talvolta anacronistica.
Anche sul piano biografico, alcuni tratti del suo carattere, come l’ostinazione sentimentale verso Stanis Manca e, più tardi, verso Andrea Pirodda, gettano una luce nuova, talvolta ambivalente, sulla sua figura. Non più soltanto la donna forte che ha sfidato le convenzioni per imporsi come scrittrice, ma anche una personalità fragile, emotivamente cocciuta, forse incapace di accettare i limiti della realtà affettiva. Questi aspetti, se da un lato ne restituiscono l’umanità, dall’altro si prestano a una lettura meno idealizzata, meno mitica, più distante dalla concezione moderna di autodeterminazione femminile.
Questo mutamento di prospettiva emerge con chiarezza se si confronta l’opera di Deledda con quella di alcune scrittrici di oggi. Prendiamo, ad esempio, Annie Ernaux, premio Nobel per la Letteratura nel 2022: la sua scrittura, scarna e analitica, è tutta concentrata sull’esperienza individuale e collettiva, sul corpo, sulla memoria, sulla relazione tra intimo e sociale. Ernaux rifiuta ogni forma di idealizzazione o giudizio, preferendo uno sguardo lucido, quasi clinico, sui rapporti umani. È un approccio radicalmente diverso da quello deleddiano, che si muove entro categorie morali più nette e un senso del tragico molto più marcato.
Allo stesso modo, Elena Ferrante, con il suo stile narrativo immersivo e coinvolgente, racconta figure femminili che si confrontano con il desiderio, l’ambivalenza, l’autodeterminazione. Le sue protagoniste non cercano espiazione, ma comprensione e trasformazione. L’evoluzione personale è spesso caotica, contraddittoria, ma sempre possibile. È una letteratura della complessità e della libertà, che si discosta nettamente dal rigido intreccio tra colpa e destino presente nei romanzi di Deledda.
Questi confronti non vogliono sminuire l’importanza storica di Deledda, ma evidenziare come la letteratura, e chi la legge, sia in costante trasformazione. Le sue atmosfere dense e le sue verità morali appartengono ormai a un tempo diverso, che la nostra epoca osserva con rispetto, ma raramente assume come riferimento.
In conclusione, Grazia Deledda rimane una pietra miliare nella storia della letteratura italiana. Ma nel presente, il suo ruolo appare ridimensionato: non più guida, né modello, ma figura di un passato che continua a esistere, pur parlando con voce sempre più flebile al cuore della contemporaneità.
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