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La pericolosità del cambiamento

di Arcangelo Galante
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Pubblicato il 02/08/2025 06:51:20

Il cambiamento climatico, una volta relegato ai dibattiti scientifici o alle previsioni futuristiche, è oggi una realtà concreta, visibile e drammatica. È una crisi ambientale che si intreccia con molte altre: economiche, sanitarie, politiche e psicologiche. Non è solo l’aumento delle temperature a destare preoccupazione, ma il collasso progressivo di un equilibrio complesso che ha sostenuto la vita per secoli e ora sembra improvvisamente fragile, compromesso.

A fronte di eventi climatici sempre più estremi, incendi boschivi devastanti, alluvioni improvvise, siccità persistenti, ondate di calore letali, si è diffusa una forma di malessere profondo che colpisce non solo chi è direttamente coinvolto nei disastri, ma anche chi osserva impotente l’evolversi del fenomeno. Questo disagio ha assunto un nome: eco-ansia, ovvero l’ansia cronica generata dalla consapevolezza della crisi ecologica. Ad essa si aggiunge la solastalgia, una nostalgia dolorosa per un mondo che cambia o si perde, pur restando fisicamente nello stesso luogo.

Queste condizioni psicologiche non vanno sottovalutate. Colpiscono in modo particolare le nuove generazioni, cresciute con una percezione di incertezza crescente. Ragazzi e ragazze che guardano al futuro con un misto di paura, rabbia e senso di impotenza, consapevoli che erediteranno un pianeta logorato, e spesso disillusi dalle lentezze e dalle contraddizioni del mondo degli adulti. Ma la sofferenza psicologica non si ferma ai giovani: coinvolge intere comunità, soprattutto quelle più vulnerabili, già segnate da disuguaglianze economiche, instabilità politica o fragilità ambientale.

Infatti, le conseguenze della crisi climatica sono tutto fuorché democratiche: non colpiscono tutti allo stesso modo. Le popolazioni più povere, quelle che vivono in zone costiere, desertiche o montane, e in generale le regioni del mondo meno industrializzate, subiscono l’impatto più duro. Eppure sono spesso proprio queste le realtà che meno hanno contribuito alla crisi. Questa ingiustizia ambientale alimenta tensioni sociali e geopolitiche, aumenta il rischio di conflitti legati all’accesso a risorse fondamentali come acqua, cibo, terra abitabile.

Dal punto di vista economico, il cambiamento climatico ha effetti devastanti: i danni alle infrastrutture, alle coltivazioni, ai sistemi idrici, alle reti di trasporto e alle filiere globali impongono costi crescenti, mettono in crisi interi settori produttivi e rendono instabile la competitività delle imprese. Ma anche la salute mentale ed emotiva dei cittadini diventa un problema economico e sanitario a tutti gli effetti: stress cronico, depressione, disturbi post-traumatici e ansia incidono sulla produttività, sul benessere collettivo e sulla coesione sociale.

Eppure, nonostante le dimensioni del problema siano ormai note e la scienza abbia da tempo tracciato soluzioni concrete, la risposta delle istituzioni appare spesso debole, lenta o ambigua. Da qui nasce una seconda ondata di disagio: la frustrazione. Le persone si mobilitano, cercano di fare la loro parte, cambiano stili di vita, protestano, informano. Ma l’inazione dei grandi attori, governi, multinazionali, lobbies, genera un senso di disperazione, una percezione di inutilità che disarma anche le volontà più motivate.

È in questo contesto che emerge una domanda fondamentale: come affrontare una crisi che è allo stesso tempo ambientale, sociale e psicologica?

Non esistono risposte semplici, ma alcune direzioni sono chiare. La transizione ecologica non può essere affidata solo alla tecnologia o al mercato: deve essere anche e soprattutto una trasformazione culturale. Occorre ripensare il nostro modello di sviluppo, rimettere al centro la relazione con la natura e con gli altri esseri viventi, rivalutare la sobrietà come valore positivo, non come privazione.

Serve un nuovo modo di abitare il mondo: meno predatorio, più solidale.

Ciò non significa delegittimare l’azione tecnologica, che resta fondamentale, ma riconoscere che essa da sola non basta. Le fonti rinnovabili, l’economia circolare, la decarbonizzazione dei trasporti e dell’industria sono strumenti indispensabili, ma vanno inseriti in un quadro più ampio di giustizia climatica.

Non possiamo salvare il pianeta senza cambiare il modo in cui viviamo le relazioni umane, il lavoro, il consumo, l’educazione. Non basta fare “un po’ meglio di prima”: serve un cambio di paradigma.

Il ruolo delle istituzioni è decisivo, ma altrettanto cruciale è quello delle comunità. Ogni cittadino può fare la differenza, se non si sente solo. Le reti sociali, le associazioni, le scuole, i movimenti giovanili, le imprese etiche possono contribuire a costruire un senso collettivo di responsabilità, capace di opporsi alla paralisi dell’ansia.

Trasformare l’eco-ansia in eco-consapevolezza attiva: questo è il passaggio chiave. Solo così possiamo affrontare la crisi non come vittime impotenti, ma come soggetti in cammino, consapevoli, fragili eppure capaci di futuro.

In definitiva, il cambiamento climatico è una prova epocale per l’umanità. E come tutte le grandi prove, può schiacciare oppure risvegliare. Sta a noi scegliere se affrontarla con paura e rassegnazione o con coraggio e speranza. La sfida è aperta, e riguarda tutti.

 


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