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La “cosa” letteraria non abita più nella carta stampata

Argomento: Letteratura

di Bruno Corino
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Pubblicato il 01/03/2022 07:46:29

La “cosa letteraria” non abita più nella carta stampata. Si è trasferita altrove. Nella volontà di non comunicare il comunicabile. È il medium che ha deciso questa svolta. Non il cosiddetto “libero arbitrio”. Non abita più nella carta stampata, come accadeva un tempo, perché nell’attuale epoca il medium ha preso decisamente il sopravvento sul linguaggio, sul logos, allo stesso modo in cui in un’altra epoca il logos aveva soppiantato la physis.

Il fondamento da cui la «cosa letteraria» ha ora origine, da cui si dischiude alla luce nel suo apparire, è il medium, non più il logos, non più la physis. Un medium che svela/rivela la metafisica del logos. E la svela/rivela in quanto il medium non si pone più come suo strumento, ma come sua “verità”.

Con la fine del logos finisce l’epoca dell’interpretazione, perché il medium non vuole essere interpretato, ma vuole soltanto comunicare, vuole soltanto informare, e, informando, attivare altra informazione, in un processo ricorsivo e senza scopo. In un senso illimitato. Nella nostra epoca, in questo nostro tempo, la comunicazione è fine a sé stessa, non è più lo strumento del dire, ma è lo stesso “dire”.

L’interpretazione resterà un compito riservato al sapere accademico, a una “casta sacerdotale” che non si rassegnerà mai a prendere consapevolezza che la cosa letteraria non abita più nel libro stampato. Ogni libro a stampa rimandava ad altri libri a stampa. Ogni pagina stampata ad altre pagine stampate. Ed è così che pagina dopo pagina la critica si consolidava. Su un’opera, un autore nel tempo si formava un labirinto interpretativo. È sempre quel sovrasenso o un surplus di senso che gli interpreti tentavano di decifrare. Ognuno a modo loro, secondo la propria formazione, la propria storia, la propria militanza. Ma anche seconda la propria inclinazione, il proprio gusto. L’interprete, spontaneo o esperto che fosse, s’esercitava intorno a un surplus, a una sovrabbondanza di significati, a una riserva inesauribile, in quanto era proprio in forza di questo surplus che la letteratura aveva ragione di esistere.

Ora si può soltanto comunicare. Chi decide di apparire comunica. Nessuno si illuda che dietro l’angolo ci sia l’esperto/interprete pronto a decifrare la sua apparizione! L’ermeneutica è finita con l’avvento dell’era dell’informazione. Con l’avvento dell’eccesso informazionale.

L’apparizione potrà essere ripresa nella rete, ma nessuno si preoccuperà di interpretarla. Perciò si è costretto ad apparire in modo sempre più comprensibile, più chiaro ed efficace. Ad apparire come un articolo di giornale. Ad essere trasparente e a tutti visibile. Nessun doppio fondo, nessuna trascendenza. Si è come s’appare.

Il racconto o la poesia si avvicina a un pezzo giornalistico, fino al punto che tra un racconto e un articolo di giornale non si noterà tra non molto nessuna differenza. E si finirà per leggere un racconto con lo stesso atteggiamento con cui si legge una notizia: per essere informati. Questo spiega il grande successo di Roberto Saviano: informazione intrisa di narrazione, e che ha valore finché ha valore la notizia. Questo spiega il grande successo di Massimo Gramellini: una narrazione intrisa di informazione. Tutto orbita intorno all’informazione. È l’informazione a comandare sulla narrazione.

Il sovrappiù di senso, la “riserva di significati” diventano un fattore di disturbo. L’eccesso di significato è rumore. Il polisenso un’assurdità.

Il paradosso sta dunque qui: la “cosa letteraria”, che per statuto conteneva un sovrasenso, che era costituita da un surplus di senso, nel momento in cui si configura come mera comunicazione, come informazione narrata, rinuncia a sé stessa. Cessa di essere una “cosa letteraria”, e veste quelli del prodotto letterario.

Può soltanto proporsi come intrattenimento o evasione, ma non più come “trascendenza”. Poiché proporsi di andare in questa direzione significherebbe incontrare la strada dell’incomunicabilità. Ma i medium non permettono la incomunicabilità. Il suo codice è abbastanza elementare: informazione o non informazione. Se si decide di informare bisogna farlo in modo chiaro, come insegnano tutte le scuole di giornalismo, altrimenti bisogna scegliere il silenzio, ossia la non comunicazione.

La letteratura fondata sul linguaggio andava oltre la mera comunicazione. Si parlava di ipersenso. Si parlava di pluralità semantica. Di ambivalenza. La letteratura era linguaggio, logos non banale né scontato. Non linguaggio strumentale, ma linguaggio come orizzonte, linguaggio come apertura dell’Essere. Lo si è scoperto tardi, tutto sommato. Nell’Ottocento. Con Hölderlin, anzitutto. E poi con Baudelaire e i maudits. Con Mallarmè la parabola toccò quasi l’apice sino a perdersi nell’onda del silenzio.

Nel Novecento divenne una verità elementare. Lampante. Nello stesso Novecento, quando la grande letteratura sapeva di correre il rischio di essere fagocitata dall’industria culturale, di essere banalizzata. E qui che le strade si sono divise. Letteratura di intrattenimento (quindi di facile consumo, d’evasione), guidata già dalla volontà di informare. O letteratura della trascendenza, dell’abbondanza dei significati. Letteratura come emblema di profondo cambiamento. Delle coscienze. Della storia o delle storie. Insomma, una letteratura che porta a riflettere. A incidere nel profondo. Letteratura che abbia in sé per costituzione fisica quel “sentimento del contrario” di pirandelliana memoria.

Ma questa seconda strada, volente o dolente, conduceva alla incomunicabilità. Alla consegna del silenzio, come sentenziò Roland Barthes, non inteso in senso banale, come rifiuto a parlare o a scrivere, ma inteso in senso esistenzialistico. Ad esprimere ciò che non è esprimibile senza essere banale. Beckett docet. Ma anche Kafka. L’ultimo Joyce. Ionesco. Il Nouveau roman: Alain Robbe-Grillet. L’ultimo Pirandello quello di Quando si è qualcuno. Alfine la babelica visione di Sanguineti, di Zanzotto. Un qualcosa che sfugga al facile consumo, che induce all’impegno della trascendenza. Qui l’interprete assume una funzione smisurata. Senza l’interprete/esperto il lettore è completamente cieco.

Ma quando i significati espressi s’identificano con l’informazione, quale sorte attende la letteratura? Quale cammino riserva alla sua sorte? Comunicazione strumentale, utile a farsi capire, a non essere frainteso?

Oppure….....................
Ed è in questa esitazione, in questa sospensione, in questo non dire il dicibile che la letteratura può salvarsi, evitare di precipitare nel vuoto, ossia di inabissarsi nell’eccesso informazionale…

Aprile, 2013


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