C’è un punto, nella vita, in cui ti guardi allo specchio e ti accorgi che non ti riconosci più.
Non è solo questione di rughe o di tempo passato, è qualcosa di più sottile. È come se fino a quel momento avessi vissuto dentro un corpo non tuo, dentro una storia scritta da altri.
Ti dici: “Va bene, ho fatto quello che dovevo, ho avuto il mio ruolo, ho tenuto botta”, come si dice. Ma sotto quella corazza, qualcosa inizia a muoversi, a sbriciolarsi piano.
A me successe all’improvviso, ma con radici lontane. Forse avevo già sentito i primi scricchiolii, solo che non volevo ascoltarli.
Fino a un certo punto della mia vita ho creduto di sapere chi fossi: il lavoro, l’uniforme, la divisa, le notti, il senso del dovere, il fumo, le corse al parco, le donne che passavano come stagioni. Tutto sembrava bastare, ma dentro era solo nebbia.
Poi, a un certo punto, è arrivato il silenzio. E nel silenzio, la domanda. Quella vera: “Chi sei, davvero?”
All’inizio è una sensazione sgradevole. Ti manca qualcosa ma non sai cosa. Ti senti come uno assetato nel deserto, che scava la sabbia sperando di trovarci l’acqua. È una fame di identità, e brucia più della fame vera.
Capisci che non basta respirare per dirsi vivi, non basta lavorare per dirsi realizzati, non basta amare per dirsi interi. Ci vuole un riconoscimento. Non degli altri, ma tuo.
Ci sono momenti, rari, in cui la nebbia si apre.
Non è una rivelazione mistica, non è nemmeno gioiosa. È più simile a un’alba fredda: la luce arriva piano e tu resti lì, a guardarti come se vedessi un estraneo.
Ma è un estraneo che ti assomiglia terribilmente.
Ricordo quando lessi di Gertrude Stein e del suo ritratto fatto da Picasso.
Lui la dipinse con il volto spigoloso, maschile, scomodo. Lei all’inizio non si riconobbe. Poi sì.
Capì che quello era il suo volto vero, quello che fino a quel momento aveva evitato di guardare.
Non era un’immagine, era una rivelazione.
Ecco, succede così anche a noi, se siamo abbastanza onesti da non scappare.
La mia identità non l’ho trovata in un’illuminazione, ma a colpi di dolore, di errori, di amori sbagliati.
Ogni perdita è stata un pezzo di specchio che si rompeva, ma anche un riflesso in più che si rivelava.
Oggi credo che conoscere se stessi non sia un traguardo, ma una resa: smetti di fingere, lasci che le crepe mostrino la forma di chi sei davvero.
E quando ci arrivi, quando finalmente ti guardi e non hai più paura di quello che vedi, capisci che la vita, con tutto il suo casino, valeva la pena solo per arrivare lì.
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