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Il gatto che non sapeva uscire

di Federico Zucchi
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Pubblicato il 06/09/2015 13:23:07

Il gatto che non sapeva uscire

I gatti, si sa, s’infilano negli anfratti
e quel giorno io avevo lasciato
una breccia di porta socchiusa.
Era un gatto piccolo e nero, di pochi mesi,
uno dei tanti che battevano il giardino,
metà selvatico, metà domestico,
un gatto cresciuto senza anagrafe
che aveva già imparato a conoscere
la stenosi aortica dell’inverno.

D’improvviso sentii il suo miagolio
salire le scale, inspessirsi di paura
fino a compattarsi in un’aria da soprano.
Lo scorsi correre con le zampine
che derapavano sulla cera
del pavimento in palladiana.
Provai a riaprire la porta e a dispormi
al lato opposto per indicargli la prospettiva,
come un crepuscolare vigile urbano.
Ma un demone gli mordeva la corsa
e come un ossesso spingeva
l’atleta a doparsi di slancio.
Pazientai seduto qualche istante
poi disposi un piatto di crocchette
lungo la direzione della porta
per sottolineare l’esistenza di un varco.
Ma fu tutto inutile e il tempo invano
passava e, dovendo uscire, pensai
di lasciare la bestia dove stava.
Mi ero già infilato il cappotto
quando incrociai il suo sguardo
atterrito, stranito, selvaggio
e scorsi un vago terrore di figlio.
Strano a dirsi, ma accadde allora
uno scambio di vasta portata,
un pareggio d’evoluzione
un reciproco confidare nell’altro.
A breve la sua corsa perse d’angoscia
fino a placarsi in una specie
di coltre calma rappresa.
A passi pazienti mi avvicinai
fino a toccargli il respiro.
Adesso giaceva immobile
e le vibrisse erano libellule
in precario equilibrio sul
dorso di un lago febbrile.
Solo un passo ci separava
e quando mi inginocchiai
scorsi il suo sguardo
soppesare l’azzardo.
Allungai una mano fino
alla pellicola delle ossa.
Si ritrasse, ma solo per
malcelata abitudine.
Lo accarezzai dolcemente
e sentii la schiena tremolare
come il bucato dell'insonnia.
Restammo a lungo sospesi a questa distanza,
due soldati protesi in allerta.
Non si mosse neppure quando, adagio,
lo raccolsi per posarlo in giardino,
il cuore ormai tutto incarnito
al tenue costato d’uccello.
Appena fuori lo lasciai
e lui si divincolò leggero
voltandosi due o tre volte
come un condannato che
non crede alla grazia.

Da quel giorno, ogni mattina,
mi aspetta sull’uscio
e mi scorta fino all’incrocio.
Anche quando ritorno a casa
con ritagli di sgombro e coda di rospo
lui resta in attesa al suo posto.
Come un portinaio di Manhattan
conosce il disporsi degli insiemi
e non manca mai di lanciarmi,
da sotto il colbacco peloso,
un felino cenno d’intesa.

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