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25, Morta che parla

di Maria Musik
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Pubblicato il 25/11/2017 19:39:29

Immagine di repertorio  25, Morta che parla (esce sempre!)

(Foto di repertorio reperita su Internet)

 

Ma cos’è quel manichino disarticolato, abbandonato sul marciapiede alla mercè dei curiosi? Non posso essere io! Eppure, benché non mi appartenga quello sguardo pietrificato dal terrore, l’azzurro dell’iride che si confonde nel rosso dei capillari rotti rassomiglia al mio. Mia madre mi dice sempre che ho gli occhi color fiordaliso, quasi viola, come quelli di Elizabeth Taylor.

Mia madre… Oddio! Mia madre non deve vedermi così! Cosa state lì a guardare?

Il viso è gonfio, la bocca spalancata in un urlo terrificante e afono, le palpebre paiono serrande bloccate come quelle di una bambola rotta; i miei bei capelli biondi insozzati da sangue rappreso, il collo livido. L’abito verde che mi piaceva tanto è gravido di macchie raggrumate e lascia scoperte le cosce e le mutande intrise d’urina.

No, non succede a tutti quando muoiono: mi sono pisciata addosso per il terrore quando le sue mani si sono strette intorno alla mia gola.

 

Le sue mani io le amavo: erano quelle di un pianista. Curate, affusolate ma non femminee, mi conoscevano come nessun altro.

Quella bella estate, quando con tocco leggero, aveva spostato dal volto la ciocca che la brezza salmastra rendeva così indisciplinata, per me si era aperto un mondo sconosciuto. Quell’inattesa carezza mi aveva fatta vibrare: fu come se dalla sabbia si fosse sprigionata una corrente elettrica che, dalle dita dei piedi formicolanti, era risalita aumentando d’intensità, attraversando il ventre come un orgasmo, per arrivare a sciogliere la severità del viso teso a respingere un’avance da spiaggia, fino a squagliarsi in bocca come il più dolce confetto dal cuore di mandorla.

 

Cosa devo fare per essere ascoltata? Voi, con la divisa, cosa state facendo? Non vi è abbastanza chiaro che mi ha ammazzata? Aspetta, te ti riconosco! Quando venimmo in commissariato, la mamma e io, mi dicesti che mi capivi ma, visto come il mio ex marito era stato bravo a non superare il limite delle minacce, al massimo si poteva chiedere al giudice un ordine restrittivo che gli impedisse di avvicinarsi a me e alla nostra abitazione. Te lo annunciai che, in ogni caso, non sarebbe bastato. Lui conosceva tutto di me: i miei luoghi, le mie persone, le mie attività gli erano più che noti. E non avrebbe rispettato un ordine che non era pronto ad accettare. Cosa avrei dovuto fare? Chiudermi in un convento di clausura? Cambiare città o, meglio, nazione? Smettere di lavorare, non andare più in palestra, rifiutarmi di incontrare le amiche… non vedere Alessandro?

 

Fu così che Michele entrò nella mia vita: percuotendo con tocco leggero la mia fronte, come fosse un fa sulla tastiera. Non ero più una ragazzina eppure sprofondai nel suo amore come una mosca nella melassa: poco meno di un anno e mi trasferii nel suo appartamento in centro. Furono i sei mesi più belli della mia vita e ci volle poco per decidere che, alla nostra età, non c’era da aspettare oltre. Ci sposammo e, lentamente ma inesorabilmente, Michele cominciò a cambiare. Iniziarono prima a scomparire tutte quelle piccole attenzioni di cui mi aveva sempre circondata: un mazzo di fiori senza alcuna occasione da festeggiare, la cucina già rigovernata e la cena pronta al rientro dalla palestra che mi concedevo, almeno due volte a settimana, all’uscita dal lavoro, la colazione domenicale servita a letto. Pensavo fosse normale: quando una coppia si consolida e si esce dal corteggiamento, mi dicevo, non c’è più bisogno di tanti vezzi.

 

Non vedere Alessandro. Dopo la separazione non pensavo che avrei potuto tornare ad amare un uomo. Per un po’, in ogni maschio scorgevo un mostro sopito ma pronto a mostrare i denti. Ma Alessandro, con quel suo modo semplice e onesto di essere sempre e comunque se stesso, aveva aperto una breccia nella mia armatura anti uomo. Non mi aveva scelta… si era lasciato scegliere. Accanto a lui sentivo di riappropriarmi del diritto di avere una relazione senza dover negare la mia identità di persona e di genere. Ma alla fine, è stato a causa sua (ma non per sua colpa) se adesso sto qui a guardare esterrefatta ciò che resta del mio povero corpo. Cazzo! È il mio corpo quello che state rivoltando calzando guanti di lattice per non sporcarvi o contaminare la scena del crimine. Volete decidervi a coprirlo con un lenzuolo, un cappotto o uno straccio qualunque? Un po’ di rispetto, almeno ora, non se lo meriterebbe? Non voglio che chi mi ha amata mi veda ridotta in queste condizioni. Non voglio che mia madre o Alessandro debbano subire lo stesso oltraggio riservato alla mia persona.

 

Quanto mi sbagliavo. Dopo che ogni gentilezza fu cancellata dal nostro rapporto, Michele avanzò come un’invincibile armata. Ogni mansione casalinga divenne esclusivamente di mio appannaggio e se qualcosa, dal grado di cottura della pasta alla stiratura della camicia, non corrispondeva alle aspettative, mi comunicava tutto il suo disprezzo per la mia palese mediocrità. All’inizio furono solo rabbugliamenti od ostentati silenzi, poi seguirono i commenti sferzanti e, infine, le punizioni. Tra queste c’era il sesso. Per giorni e giorni non mi toccava poi, all’improvviso, mi prendeva dove capitava. Niente preliminari e nessuna attenzione a ciò che poteva darmi piacere. Mi scopava, veloce e un po’ troppo brutale, in silenzio e senza neanche spogliarsi. Poi, si tirava su i pantaloni e il rumore della zip giungeva a consolarmi perché quell’ennesima umiliazione aveva avuto fine.

 

Finalmente pare abbiate terminato ma, nel frattempo, filmati e foto stanno già facendo il giro del web. Susciteranno pena nei più sensibili, ribellione tra i meno brutali, libidine nei voyeurs e, poi, vista l’ora, tutti a tavola, mentre la mia foto tessera comparirà sullo schermo del telegiornale servito come immancabile pietanza serotina.

Sono la “115” dei primi dieci mesi del 2017. Faccio parte di quella “metà abbondante” che aveva denunciato violenze. Lo leggevo ieri, con le lacrime agli occhi, sul Manifesto. Forse, piangevo perché mi prediceva un appuntamento con la morte: il 25 novembre sarebbe stata la mia giornata della memoria.

 

Fu quando gli annunciai che sarei andata alla cena con i colleghi che Michele, finalmente, fece un passo falso. Prima storse la bocca, poi, mentre mi stavo preparando, piombò in camera e comincio a picchiarmi. Ceffoni in pieno viso: tentavo di proteggermi con le braccia e, intanto, arretravo. Quando caddi all’indietro sul materasso, iniziò a sferrarmi pugni contro i fianchi. Ogni colpo un “Puttana” urlato con tutte le forze e a ogni “Puttana” il mio grido d’aiuto. “Sta' zitta, brutta mignotta, sta' zitta che ti ammazzo!”. Non sentiva che oramai latravo per il dolore o forse era così che voleva ridurmi: come una cagna bastonata. “Te la do io la cenetta con i tuoi ganzi e le tue amiche zoccole”. Tentai di buttarlo giù dal letto: puntavo i piedi, spingevo con le mani contro il suo petto mettendoci tutta la rabbia di cui, oramai, ero capace. Mi violentò lo stesso e io, sotto, smisi di muovermi: respiravo ma, dentro, ero morta e quel corpo non era più mio. Restai lì tutta la notte. Al mattino, andai in bagno e mi guardai allo specchio. Il tempo di una doccia mentre lui, da dietro la porta della cabina, professava tutto il suo dolore per l’accaduto “Non so cosa mi sia successo. Forse ti amo troppo: tu sei mia e non voglio dividerti con nessuno. Sono stato un bastardo, un vigliacco.  Perdonami…”.

Mi asciugai mentre lui era crollato sul water e si teneva la testa fra le mani. Una volta vestita, presi solo la borsa: cellulare, documenti, portafogli. Le chiavi di casa le lasciai sul comodino. Infilai la porta e me ne andai.

 

Cos’è quell’affare che avete tirato giù dal furgone? Sembra un’ogiva d’argento. Non vorrete mica chiudermi là dentro? Non sopporto i luoghi chiusi e asfittici; ho sempre fatto le scale perché odio gli ascensori. Non potete portarmi via: mi squarterete per vedere ciò che è evidente a tutti. Che importa se prima ha tentato di strangolarmi? Cosa cambia se mi ha colpita con dieci o dodici coltellate? Che ve ne frega di sapere se ero già morta prima che il mio corpo volasse giù dal terzo piano?

Lavatemi, vestitemi bene, pettinate i miei capelli e consegnatemi ai miei cari. Che almeno possano piangermi, che questo corpo venga benedetto e incensato prima di scomparire per sempre.

 

Dopo quella sera, Michele non tentò più d’incontrarmi. L’unico contatto il giorno della firma delle carte per il divorzio. Ogni richiesta accordata, parlò solo il suo avvocato. Tornai alla mia routine ma senza più riconoscerla. Apparentemente normale, la mia esistenza era definitivamente cambiata. Io ero cambiata. Avevo paura e non mi fidavo più di nessuno. Mi sembrava d’essere seguita, spiata. L’analista diceva che era una sensazione più che consueta per chi, come me, aveva subito violenze domestiche. Però, mi invitava a non sottovalutare le mie intuizioni. E ricominciava a voler parlare del perché non avessi chiamato la polizia o non mi fossi recata in ospedale. Sapevo che aveva ragione ma il panico non riconosce la ragione. Il fatto che Michele fosse sparito, poi, mi aveva convinta di aver fatto la scelta più giusta, evitando di imbarcarmi in una vicenda giudiziaria interminabile e piena d’insidie. Perché non ero sicura che mi avrebbero creduta.… perché non ce l’avrei fatta ad affrontare le insinuazioni di un abile avvocato.

Conobbi Alessandro e, come entrò nella mia vita, ricomparve Michele. Prima telefonate, poi appostamenti sempre più palesi, infine minacce. Poteva sopportare che non fossi più sua ma non poteva permettere che fossi di un altro. Ma era furbo. Nulla che si potesse dimostrare, provare. All’ennesima chiamata minacciosa, mia madre mi accompagnò a sporgere denuncia.

 

E’ tutto finito ed è finito anche il mio tempo. Il furgone è partito, la folla si è dissipata quando il mio povero corpo è sparito dalla sua vista.

Sento che una mano mi sta afferrando per i capelli e non so dove voglia trascinarmi: nel nulla, in Paradiso o all’Inferno? No, all’inferno no: quello è sulla Terra.

Un’ultima cosa, però, la voglio dire: non dovrebbe esistere la giornata contro la violenza sulle donne. Non dovrebbe esistere la violenza ma, visto che esiste, allora ogni giorno dovrebbe essere dedicato a combatterla. Inutile ricordarci dopo che ci hanno seppellite. E non perdono nessuno.

Non ti perdono, non vi perdono.

Perdono soltanto me stessa perché me lo merito.

 


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