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Mira

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 31/05/2018 12:00:02

MIRA

Ha tolto la stanga e aperto il portone. Viene un’aria gelida dall’esterno che sa di pozzo e di inverno. Ma le foglie marroni che giacciono sul verde ai piedi dei gelsi e della quercia fanno pensare che la morte è un passaggio alla vita.
Mira getta uno sguardo ampio sulla distesa e decide che nel pomeriggio tirerà fuori il rastrello e le accumulerà in mucchi.
Il gatto randagio si è parato davanti alla tenda e miagola la sua fame ingorda. Lei guarda il ventre tondo e quasi vorrebbe dargli un calcio, ma lo zircone degli occhi esercita uno strano fascino e il trovarsi di fronte a una creatura viva le fa dire:
“Aspetta che vengo”.
Sopra le trame nere dei gelsi, il cielo è grigio.
Mira ha già accostato l’uscio e messa la sicura. Prima vuol fare colazione.
Il gommino della caffettiera è consumato e va sostituito, però le gocce perse non le impediranno di versare la dose giusta nella solita quantità di latte freddo…
Sa che quando porterà alle labbra il cucchiaio, con l’inzuppo di fette biscottate, standosene curva al tavolo, avrà l’aspetto di una vecchia triste, ma prova autocompiacimento per quella solitudine nell’ età protratta. E senso di dominio nella grande casa senza comodità.
Pochi panni addosso, ma pur sempre tanti ora che non è più giovane.
Allora buttava le secchiate d’acqua sul pavimento: sei per stanza.
Adesso il viso delle cognate istruite prende corpo dietro le tendine annerite dal fumo della stufa e lei finalmente prova il distacco dal passato, di quando le vedeva bere il caffè dentro le chicchere di porcellana e ridere di allusioni apostrofanti.
Rosa e Cristiana.

Le tazzine tintinnavano vuote sul ripiano del tavolino sotto il platano.
Rosa guardava Mira issando la testa sull’abito a fiori mentre le labbra carnose si dischiudevano in un canto sugli incisivi allineati.
Appoggiava nel piattino il filtro della sigaretta tinto di rossetto :
-La prendi la patente?-
Mira si era fermata con le ciabatte sui gradini e il catino della lisciva sotto il braccio.
-Non lo so ancora-.
-Ma se Giuliano ha comprato la Cinquecento!-
Giuliano riempiva la macchina di cianfrusaglie, la carrozzeria di ammaccature. Lei voleva una macchina tutta per sé. Stava mettendo da parte un po’ di soldi, ma ci voleva del tempo.
Rosa non aveva bisogno della patente. Viveva in città. Si spostava con i mezzi o saliva sulla berlina del marito chirurgo.
Mira andava alla fabbrica in bicicletta sotto la pioggia e la neve.
Perfino il bracciante le aveva detto che doveva comprare la macchina.
Quando infine aveva preso la patente era stata più brava di Cristiana, bocciata in teoria.
Rosa ritornava spesso alla casa paterna: chiedeva alla vecchia zia di prepararle la pizza.
Tra le sorelle il veleno della critica era cancrena infiltrata.
Avevano studiato in Santa Dorotea.
Non potevano vedere Giuliano. Dicevano che era sempre stato il privilegiato. Perché zia Isa, la vecchia zia, gli riservava i secondi migliori e banconote di grossa taglia.
Forse non si erano mai rese conto che aveva risentito più di loro dello stato di orfanezza.

Dalla giuntura della caffettiera le gocce giallastre e acquose scivolano sfrigolando. Mira aspetta che il liquido sia risalito nella giusta quantità prima di serrare il gettito di gas.
Si è alzata in piedi e ha afferrato il manico della caffettiera. Versa il caffè fumante nella tazza blu. Lo sguardo si appunta sulla fascia di piastrelle che recinge senza soluzione di continuità la parete lunga. Un mare di quadretti bianchi su cui si sono incollati per decenni gli schizzi della cucina.
Ha versato. Ha deposto nel lavello la moka. Poi si è riseduta per consumare il caffellatte e le fette ai cereali. La sveglia produce il suo ticchettio ripetuto.
Ha lavato la tazza nell’acquaio, il cucchiaio, la caffettiera. Ha asciugato tutto e l’ha riposto.
Adesso se ne andrà in bagno a mettere un po’ di crema sulle rughe del viso. Ammorbidirà la pelle. Darà alla crocchia grigia una forma più ordinata raccogliendo le ciocche scomposte.
Il bagno a pian terreno è stato ricavato dal retro del garage. Assieme alla cucina e alla stanza adibita a camera da letto forma lo spazio in cui circoscrivere i passi durante il periodo invernale.
Sono le nove e trenta .Dal finestrone che dà sulla siepe dei sambuchi, sulla rete metallica e poi sulla provinciale entra un sole radioso che rende palpabile il pulviscolo della fila degli anni.

Due gatti tigrati nel corridoio che si leccavano le zampe. Un letto sfatto nel camerino a pianterreno.
E lei, la Mary, che si chiudeva la lampo della gonna.
-Filippo ?-
-Filippo è andato alla Camera del Lavoro-
Mary si era seduta sul letto con un fare indolente, due pendenti d’oro sotto la massa nera dei capelli .
-Le va bene il caffè?-
- Sì, mi basta un goccio.
-Venga di qua- la voce di Mira era incolore.
La napoletana bolliva sul fornello. Zia Isa la afferrò per il manico con un vecchio calzino rotto e la capovolse.
-Quanto zucchero?-
-Due cucchiaini, grazie-
Le tazzine bianche avevano una fascetta d’argento intorno.
Mary portò alle labbra la sua.
-Piove?- chiese un po’ sognante- ho sentito delle gocce stanotte.
-No, ha finito-
Mira era al secchiaio a lavare le stoviglie, avvolta nel grembiule di cretonne.
I pensieri della mente si arrestavano alla presenza di Mary dentro casa.
Mary avrebbe dormito nel camerino, occupando uno spazio prossimo a dilatarsi. Accanto a Filippo.
Una coppia di estranei prendeva posto nella casa in cui era appena arrivata e l’accolta pensava di essere lei.
-Filippo non può portarla in paese- non capiva se zia Isa, che le si era avvicinata, parlava con voce rauca o bassa.
-Perché?-
-Perché ha abbandonato la moglie-
-Davvero?-
-Beh… sì… -
-Dobbiamo ospitarla. Così dice Giuliano-
-Ma per quanto?-
-Non lo so. Finché Filippo non ha trovato una sistemazione-
Bella era bella. Alta e mora, la pelle di zinco , lo sguardo di fuoco.
Mira ingolfava dentro il sacco del grembiule di cretonne.
E Mary alzava il mignolo inclinando la tazzina del caffè.
Zia Isa le disse che per andare al bagno si doveva uscire sul retro. Lei se ne ritornò nel camerino e s’indirizzò verso l’esterno con un asciugamano bianco intorno al collo.
Mira sentì la folata di vento che portava dentro l’odore delle rose.
Un gatto tigrato fuggiva soffiando verso l’ingresso opposto.
Zia Isa preparava il ragù.
Quando la Mary tornò in cucina chiese di poter far qualcosa. Cristiana le disse di asciugare i bicchieri e Mary cominciò a passare lentamente lo strofinaccio sui calici.
La malia di Filippo era tale che non aveva esitato a farsi bersaglio, abbandonando Locri per un destino incognito, accanto a un uomo sposato e bandito dalla famiglia.
Mira zittiva. Imbarazzata si chiedeva se doveva rimanere lì in cucina a far compagnia all’ospite, andare in giardino a raccogliere le rose o salire le scale per rassettare la camera da letto.
Alle rose aveva già pensato la cognata che stava cercando un vaso di cristallo.
Zia Isa le porse quello di ceramica a fiori blu.
Davanti ai vuoti di conversazione, Mira risolse col ritirarsi nella camera da letto.
Sprofondare in quello stile impero era una fiaba per illudersi che il diadema sul capo non avrebbe smesso di brillare.
La vergine di Raffaello, incorniciata tra le palmette d’oro, era benedicente.
Dalle persiane aperte entrava il getto di aria fresca mentre le chiome degli olmi stillavano gocce notturne.

Seguirono giorni inquieti. Giuliano, in campeggio a Marina, ignorava i battiti della giovane sposa bisognosa della sua presenza.
La Mary intristiva: Filippo si presentava solo la sera per coricarsi nel letto del camerino..
Cristiana aspettava il marito da Venezia dove studiava.
E tutto ruotava intorno alla vecchia zia. Zia Isa, la reggitrice.
-Quanti esami ha ancora?-
-Sette…sette…- il mento di Cristiana si allungava.
-Sette? Sette?! Ma non aveva detto che gli mancava solo la tesi?!-
Cristiana impallidiva e si chiudeva nel mutismo.
Lei pensava agli animali appesi a testa ingiù, al sangue sulle piastrelle bianche, all’odore di aceto e bicarbonato, al negozio di carni.
Una laurea è promozione agli occhi del mondo. Per il marito di una figlia, che aveva studiato in Santa Dorotea e poi a Ca’ Foscari, ci doveva essere l’alloro.
-Quegli animali da macello è meglio che li metta nelle tele- diceva.
Zia Isa faceva il grugno. E intanto chi lo mantiene?
Già, chi lo mantiene? Lo pensava anche Mira. La spartizione dell’eredità non era più roba fresca.
Cristiana voleva vendere la Ca’ Rossa. E comprare un pezzetto di terra sotto l’argine dove i pastori portavano il gregge a brucare l’erba verde e c’era la fila dei pioppi silenziosi sul fondo.
E intanto se ne stava ancora nella casa paterna.
Mira non vedeva l’ora che arrivasse ottobre.
Così se ne sarebbe partita per le sue supplenze a Cavina. E avrebbe preso affitto là.

Bussano alla porta. Poi ai cristalli della finestra sul davanti. Signora. Signora.
Mira finalmente ha sentito.
Chi è? Chi è?
Raggiunge l’uscio. Toglie la sicura, scosta il battente.
Le si presenta un signore anziano. E’ Adelmo. Chiede dov’è il rastrello. Vuol raccogliere le foglie.
-Ah, sì, allora lo fa lei!-
-Sono libero stamattina !-
-Guardi, è appoggiato al moro!-
Ha visto. Si sposta lento per andare a prenderlo.
Mira rinchiude la porta. Il freddo è tagliente.

Filippo aveva parlato di una sistemazione a Goro ma per il momento tutto era fermo. Lui adesso se ne stava dai suoi e la Mary nella casa di Giuliano.
Giuliano sovrintendeva ai lavori agricoli e poi si assentava per i viaggi. O se ne stava in camera a suonare la tromba.
In casa circolava poco denaro. Zia Isa lasciava nei negozi i conti da pagare annotati in un libretto. Percepiva una piccola pensione di invalidità per i disturbi al cuore e un modesto affitto per una minuscola stanza che possedeva in paese, ma forse quei soldi li dava di nascosto a Giuliano perché diceva sempre che non aveva una lira in tasca.
Mira aveva ripreso i lavori di cucito e maglia, che faceva da ragazza, dopo aver scoperto di essere incinta.
Finalmente, a Natale, la Mary partì per Goro.
Mira non voleva sapere che posto fosse. Le avevano parlato di pantani, anguille e solitudine. A lei premeva soltanto di sgombrare la mente dall’idea degli estranei in casa.
Giuliano, invece, sembrava essere affascinato dal delta del Po, dai casoni di canne e, quando vide Filippo e la Mary salire sulla Topolino C, provò una fitta al cuore perché quasi gli sarebbe piaciuto andare con loro in quella zona di acqua e terra.
Mira era contrariata nel vederlo rabbuiato e abulico. Come se fosse stata colpa sua se aveva perso la compagnia.
Giuliano aveva bisogno di gente intorno, anche se gli accadeva di litigare spesso.
Filippo era esuberante. La battuta giusta. La stretta solida. Giuliano avrebbe voluto essere come lui. Agile e guizzante nei pantaloni di cotone chiaro.
Po e No li chiamavano alla scuola elementare.
Zia Isa conservava, nel vecchio cassone in solaio, il cestino di cartone duro con un libriccino di animali e un sacchetto di battista pieno di sassolini. Che Giuliano aveva raccolto insieme a Po quando con la maestra erano usciti in passeggiata lungo l’argine.
Giuliano dopo i vent’anni era ingrassato. Le maniche delle camicie sempre da accorciare dalla sarta. Non reggeva la canicola potente dell’estate né i rigori dell’inverno. Sudava o si copriva di maglie.
-Ma cos’ ha Filippo di così affascinante per Mary?- chiese una sera Mira a zia Isa che contava dei bollini : era passato poco tempo dalla partenza degli ospiti.
L’aveva chiesto così, con quella voglia di insinuarsi nelle vicende degli altri che, a volte, prende.
-Come? non lo sai? Filippo scrive poesie-
Zia Isa aveva alzato la testa e Mira le aveva colto un’espressione più giovane nel viso.
Si era incuriosita. Giuliano, durante il fidanzamento, le aveva mandato lettere zeppe di similitudini che avevano esercitato la loro seduzione, ma non le aveva mai scritto una poesia.
Chissà com’erano quelle poesie. Lunghe o brevi? Di che cosa parlavano? Sicuramente d’amore. O della vita di Filippo. Non lo sapeva e non lo avrebbe saputo.
Scrive poesie e questo era tutto.

Adelmo ha finito. Ribussa ai cristalli della finestra. Signora.
Mira assopiva appoggiata alla spalliera del seggiolone. Scuote la schiena e la testa.. Si alza.
Un momento!
Riapre la porta.
-Ho finito- dice l’anziano.
- Ha sete? Vuole un bicchiere d’acqua?- chiede.
- Non voglio disturbare-
- Si accomodi-
L’anziano fa ingresso. Il passo malfermo. Gli abiti del contadino che non ha mai smesso di essere.
Mira prende la bottiglia di acqua minerale.
Lui si è seduto. Accosta la mano grande al bicchiere.
-Mi ricordo di quando mia madre veniva qua a lavorare alla risaia-
Già, se ne ricordano in molti. Altri tempi. Altra storia.
Basta il pivici della bottiglia a far pensare.
-Si ricorda di Nino Taliàn, il bracciante?- chiede Mira.
Adelmo annuisce.
-Faceva tutti i lavori che avrebbe dovuto fare Giuliano. Avremmo potuto essere ricchi…
La donna sospira. La fitta dei ricordi si rifà acuta.

-Ho sentito la gallina faraona cantare! Ma chissà dove avrà fatto il nido!- diceva zia Isa fuori dall’uscio- Ci andate voi a cercarlo, Nino?
Il bracciante appendeva la falce a un ramo della quercia. Si riabbottonava il giubbetto grigio e si inoltrava nel fitto a calpestare i rami caduti e la sterpaglia.
La reggitrice ritornava a tagliare le zucchine.
I pensieri non scandivano il tempo mentre le ore venivano gettate alla ricerca delle uova.
- Le ho trovate!-
Erano una dozzina, vicino al ceppo del tiglio. Lucide e fresche da bere all’istante. Finivano abbandonate dentro le ceste in dispensa o tra la cenere delle terrecotte.
Un’altra volta c’era la corda del bucato da tendere tra due alberi. O ancora, si doveva smaltare il tavolino per il the .
-Nino! Nino!-
Zia Isa lo chiamava continuamente!.

E Giuliano? Giuliano riposa. Giuliano non c’è.
Zia Isa lo sosteneva. E’ nato settimino. Un parto travagliato. Hanno usato il forcipe.
Cristiana diceva sempre che era il favorito.
Mira prima l’aveva difeso contro la cognata, poi l’aveva avversato contro zia Isa.
Eppure zia Isa non era antipatica.
Come ci era andata in ospedale a partorire?
Sulla lambretta di zia Isa.
Era estate. In piazza ballavano. Giuliano in campeggio a Marina.
-Se nasce una bambina, chiamala col nome di mia madre- aveva detto Giuliano.
Santa. Non le piaceva, ma voleva far contento il marito.
Santa. Era nata Santa.
Una bambina minuta, lo sguardo triste quasi profetico.
Di notte si alzava in piedi nel lettino e batteva i pugni contro il muro della camera in stile impero. Mira accendeva la candela. Balzava giù e se la prendeva in braccio.
Giuliano si girava dall’altra parte. E poi aveva cominciato a dormire nel camerino in fondo al corridoio accanto allo sbocco della scala.
-Ho il sonno leggero. Questi pianti mi disturbano troppo.
Così la bella stanza, destinata a mamma e figlia, aveva perso per Mira l’incantamento della camera degli sposi.
La bambina cresceva malinconica. Già quando era nella pancia, la madre le aveva trasmesso i suoi umori. La lussazione all’anca poi aveva aggrumato tristezze…
Visite, controlli, ingessature. E quel divaricatore. Che un giorno qualcuno aveva scagliato in mezzo alla carreggiata a prendere la pioggia.
- Povera bambina.
- Non le doveva capitare-
-Forse rimarrà un po’ zoppa-
E Cristiana rincarava la dose. Se si rompeva uno specchio, diceva che erano sette anni di disgrazie, se vedeva una biscia, un’ insidia era in agguato, se cadeva il sale sulla tavola…
-Oddio, stanotte ho sognato male- perciò non si poteva far questo e quello.
Mira mal sopportava i confini tracciati: quell’atmosfera creata dalle altre due donne le faceva mancare l’aria.
Percepiva se stessa sospinta verso gli angoli e non in sintonia con i loro gusti. Stonata nella voce che le usciva grossa, nei lavori di casa che risultavano maldestri.
Spesso Cristiana parlava della morte. Di come il senso del passaggio dovesse attraversare la concezione della vita. Mira a volte li giudicava discorsi bizzarri, altre volte inutilmente tristi.
Achille arrivava dalla stazione al sabato con la motoretta bianca. Vietato chiedergli a che punto era con gli studi. Zia Isa gli grattugiava dosi abbondanti di parmigiano sui maccheroni.
-Devi nutrirti!- lo trattava affettuosamente come un figlio.
Mira di solito aveva già mangiato e se ne stava seduta vicino alla cassetta della legna a guardare la sagoma della donna, curva e servizievole accanto al cognato.
Zia Isa ha allevato tutti… Zia Isa andava a scuola a piedi e faceva dieci chilometri al giorno. A zia Isa veniva sempre il mal di gola quando era piccola. Giuliano lo diceva alla bambina.
Mira stizziva. Prendeva la bambina in collo e andava in camera da letto.
Santina giocava sul pavimento della bella stanza con la bambola e una sediolina di compensato..
Mira sedeva nella poltrona a pozzetto, sul velluto verde, a consumare livore.
Guardava la bambina con le manine appoggiate al pavimento in cotto. Un raggio di sole filtrava attraverso le tende e illuminava la polvere dei mattoni.
Santina sbatteva la testa della bambola sull’impiantito.
Mira era lontana con i pensieri e non la sentiva.

Davanti al cancello si è fermato il furgoncino. E’ sceso l’ometto per sversare il vetro dal contenitore apposito. Mira sente l’inconfondibile fragore del travaso.
Le dimensioni della casa comportano tasse consistenti per la raccolta rifiuti, anche se Mira ci abita da sola e adesso non si capacita del cambiamento che è avvenuto nel giro della ruota.
Quando era appena sposata si gettava tutto in una buca dietro casa e si copriva con la calcina.
Poi, si caricava in macchina alla volta dei cassonetti.
Adesso c’è il porta a porta per bimestrali da capogiro.
Tutto sembra più comodo e a portata, ma le cose una volta avevano un altro sapore. Anche se pesava il secchio calato nel pozzo per prendere l’acqua.
Mira crede di sentirsi addosso lo spirito della vecchia zia Isa.
-Si è sempre andati avanti così- era questo il suo ritornello alla richiesta di qualche miglioria per la casa.
Adesso capisce quel bisogno di sprofondare nell’anacronismo per rivendicare la propria identità.
Ma, allora, quando era giovane, guardava al futuro negli elettrodomestici che riempivano le case delle sue amiche, mogli di operai.

-Se non ci sono abbastanza soldi, allora voglio andare a lavorare anch’io- annunciò un giorno mentre Giuliano e zia Isa prendevano il caffè nel salottino.
Zia Isa le aveva rivolto uno sguardo tra il meravigliato e il remoto.
-A lavorare? Ma dove? Come?-
-In fabbrica- rispose.
In fabbrica. Giuliano ebbe un sussulto. Il caffè traboccò dalla tazzina. Sua moglie in fabbrica?! Era una bestemmia.
Non le bastava quella casa grande di loro proprietà? I campi larghi intorno? La spesa fatta dalla zia? I conti della spesa pagati dopo gli sfalci, i raccolti ?
Che voleva questa figlia di operai? Si era già dimenticata le due stanzucce anguste in cui viveva?
Giuliano aveva fatto un gesto seccato, inappellabile.
Metti su pretese? Fatti bastare quel che ti vien dato. E ringrazia la serva che va a far la spesa e cucina anche per te.
Mira si era rifugiata in camera da letto a guardare la Madonnina di Raffaello.
Poi la posizione di Giuliano era cambiata. Se non altro perché i musi della moglie erano insopportabili. O forse perché capiva che in fondo non aveva torto.
Le aveva cercato il posto in una fabbrichetta con poche dipendenti. Il proprietario si chiamava Orio. Giuliano lo conosceva.
Producevano minuteria metallica. Mira avrebbe dovuto stare in piedi davanti a un ingranaggio che assumeva il pezzo da una imboccatura e poi lo rigettava modificato da un’altra. Otto ore al giorno.
Era iniziato il suo lavoro da operaia. Il salario si aggirava intorno alle sessantamila lire al mese. Con le quali avrebbe potuto comprare i vestiti per Santina e qualcosa per la casa.
Soprattutto si sarebbe sentita indipendente.
La bambina adesso era affidata tutto il giorno a zia Isa. Che accudiva anche il figlio di Cristiana. Lei ci sa fare con i bambini! Ben lo sanno Rosa, Cristiana, Domenico e Giuliano. I quattro fratelli, figli di Santa e Amedeo, che l’hanno avuta come balia.
Zia Isa aveva un debole per i maschi.
Non le piaceva la bambina. Con quella testa grossa, gli occhi in fuori, il corpo minuto, il camminare incerto.
Preferiva il figlio di Cristiana: Giovanni Diodato. Bello, biondo, ieratico. I capelli, dei boccoli da putto. Il viso espressivo. Riproduceva il verso degli animali, imitava il modo di parlare degli adulti.
Santina stringeva con le labbra l’imboccatura di una bottiglia di vetro e guardava nel vuoto. La mamma la infagottava dentro i grembiulini a righe o a quadretti.
Cristiana le insegnava le preghiere. Le diceva che l’unica forza e rifugio era la Fede.
Achille, seguendo i desideri della moglie, aveva progettato la casa da costruire sotto l’argine sopra una cassa di colmata.
Veniva su un edificio ispirato all’architettura funzionalista. Giuliano diceva che sembrava una fabbrica: bianca, fredda con le finestre-portelloni adatte a celle frigorifere. Lui apprezzava Achille solo per i quadri che dipingeva.
Mira incupiva. Non sopportava che il marito offrisse vitto e alloggio alla sorella e al cognato in attesa che la nuova abitazione fosse pronta.
Una famiglia in casa! Una famiglia in casa! Continuava a dire.
-Ma è stata anche la sua casa!- diceva zia Isa.
-Sì, ma potevano rimanere nell’altra in paese!-
Mira non ne voleva sapere: si sentiva stretta, schiacciata, soffocata. Dalla cognata che aveva studiato in Santa Dorotea, che parlava di buone maniere apprese da una certa Madre Torta. Che sapeva il tedesco e lo insegnava a Giuliano per i suoi viaggi.
Un giorno aveva sorpreso fratello e sorella parlottare nel salottino. Cristiana per vezzo gli faceva le carte. -Questa danarina ti pensa- gli diceva.
Chi era questa danarina?
Mira non aveva detto nulla. Aveva finto di non sentire, di essere concentrata sullo spazzolone e lo straccio che doveva passare sul pavimento. Ma nella testa quella cosa aveva cominciato e continuato a turbinare.

Il furgoncino è ripartito. Mira si è affacciata alla finestra. Guarda il cortile. Le foglie sono state raccolte e rinchiuse in sacchi.
Il sottobosco adesso appare più ordinato.
La donna percepisce il silenzio sotto le fronde.
Un leggero sentore di nausea la opprime. Il medico dice che deve evitare tutto ciò che ingombra l’intestino. Forse un po’ di pastina con olio e parmigiano potrebbe andare bene.
Fruga nella credenza. Ha trovato i risoni dentro la confezione di cartone blu.

Era stata una gestazione travagliata.. Il dottore le aveva ordinato riposo, riposo assoluto.
Mira aveva ottenuto astensione dal lavoro.
Al mattino presto si svegliava con la bava alla bocca. I conati di vomito.
Santa si coricava accanto a lei quando durante la giornata si distendeva nel letto.
-Sei sana, sei forte – diceva zia Isa- vedrai che andrà tutto bene.
Giuliano assicurava che questa volta sarebbe stato presente. Voleva sentire il primo vagito.
Un maschio, un maschio aveva detto la vecchia Maien quando era venuta a raccogliere la camomilla e aveva osservato la pancia di Mira.
Come lo chiamerete? Come il nonno. Come il nonno paterno naturalmente. Amedeo.
Sarebbe nato a settembre, quando riaprivano la caccia.
Mira, fino al momento del ricovero, non si aspettava complicazioni.
Il nascituro era in posizione podalica. Il medico aveva dovuto forzare, attendere, procedere. Attendere, procedere, forzare. Attendere.
Si era perso tempo. Troppo.
Giuliano era rimasto nel parco alzando ogni tanto lo sguardo pensieroso verso la finestra . Zia Isa aveva riportato veloce la cesta in macchina.
Andirivieni di infermiere... Rumore di ferri.
Mira aveva sentito solo male e malessere.
Poi, testa vuota.
-Si faccia coraggio! Si faccia coraggio!-

Non voleva più ricordare. Non voleva più piangere.
Si era rifugiata nella bambina.
-Ho la mia bambina! Ho la mia bambina!-
Guardava il suo visetto triste.
Le aveva detto del fratellino volato in cielo.
Santa aveva spalancato gli occhi, li aveva fissati in un punto.
Un essere fragile che aveva bisogno di lei. E Mira aveva bisogno di lei.
Doveva pensare ai libri, ai vestiti, alle visite mediche per i denti, le anche, i piedi.
Gli zii si erano finalmente trasferiti nella loro casa, bianca e moderna, e adesso la bambina dormiva in una camera tutta per sé. Tre finestre grandi, una dava sul terrazzo.
L’impiantito era sbreccato. A Giuliano erano partiti dei colpi da un vecchio mitragliatore e sulle piastrelle si erano formati dei buchi. Le travi erano state tinteggiate di marrone e conferivano alla stanza un’aria rustica e un po’ desolata.
Zia Isa si premurava di decantare il letto in ferro battuto con la testata dipinta.
-Questo era della nonna che si chiamava come te! Una rarità, un oggetto prezioso-
La bambina lo trovava alto.. Quello delle amiche era più basso. Si doveva arrampicare. Aveva paura di cadere mentre dormiva.
Zio Achille le aveva arredato con un' antica olla, rimessa insieme da alcuni punti di ferro, l’ angolo sotto la finestra rivolta a mezzogiorno, e le aveva appuntato nella parete di fianco al letto una stampa di Millet: “L’Angelus”.
-Guarda che bello! Guarda che poesia!-
Santa guardava lo sfondo: quella campagna bruna con l’odore della terra che le giungeva dalla finestra spalancata sul terrazzo era la stessa. Era la sua...

Mira versa i risoni nel piatto fondo e grattugia il parmigiano. Nota che la cassetta della legna è vuota. Se il freddo persiste, dovrà tenere alimentata la stufa.
Ha messo gli stivali di gomma che erano di Giuliano. Non vuole bagnare e infangare le ciabatte. Apre il portone, scende i gradini, attraversa lo spiazzo, si dirige verso la tettoia della casa di Massari per prendere qualche ceppo.
Ha preso una bracciata di legna, rifà il percorso, rientra in casa, deposita accanto al camino. Lo sguardo le cade sulla bambola infilata nel vaso. Paffuta, gli occhi spalancati.
Pensa a Santa. Chissà dov’ è a quest’ora. Chissà come sta. Come sta Justo.

-E’ inutile: c’è chi è fortunato e chi è sfortunato. E io sono sfortunata! -
-Ma perché dici questo?-
-Perché non sono riuscita a concludere gli studi e ho ripiegato su Fisioterapia, perché non sono attraente, perché non sono capace di adattarmi!-
-Sai quanti medici ci sono già?! Non hai sentito Giovanni?!-
-Giovanni ha continuato e sta finendo…io invece…-
-Meglio per te! Troverai il lavoro subito e potrai aiutare tante persone!-
Santa guardava torva ed esplodeva.
-Già, mi devo far santa! Santa!-
Mira usciva dalla stanza. Santa prendeva la macchina per scrivere e cominciava a ticchettare.
Mira negli spazi grigi della casa intravvedeva se stessa giovane. Con le gambe lunghe e i fianchi che sagomavano bene le gonne, la vita stretta, il seno rilevato sotto il golfino aderente.
Santa somigliava a Giuliano e alle zie, Rosa e Isa. Il corpo sproporzionato, il collo corto, gli occhi aggettanti e senza blu.
Perennemente immusonita, insicura, autolesionista .
- Perché non ti vesti meglio? Perché non ti valorizzi?-
- Tanto per quel che conta! E poi non mi piace, non mi piace la finzione!-
- Ma quale finzione! Si tratta solo di farsi apprezzare per quel che si è!-
- Appunto!-
Santa non voleva stare a sentire. Sguardo basso, espressione imbronciata. Abbigliamento dai colori neutri o scuri.
Giuliano taceva o se ne usciva con un laconico “Lo troverà”.
Finalmente era stata assunta presso la ASL.
Curava terapie di riabilitazione. Articolazioni da far funzionare. Anziani che non riuscivano a camminare bene, atleti o giovani reduci da qualche incidente.
Lei li faceva appoggiare a sé. Li accompagnava nei loro passi incerti in cui ritrovava la bambina col suo divaricatore.
Adesso era più serena. Tornava a casa con l’aria distesa e consapevole. Si sentiva utile.

Ha messo il pentolino a bollire. Attivato la stufa. Il borbottio del fuoco le fa compagnia. Apre lo sportello, guarda le incandescenze mentre il calore della vampata le investe il viso .
La pastina è pronta. La versa nel piatto. Una cucchiaiata d’olio e un po’ di parmigiano. Per secondo la polpetta avanzata ieri. Poi c’è la mela al forno.
La sveglia ticchetta. La legna crepita nella stufa. Da fuori viene il verso del fagiano.
Mira pensa alla bella stagione, all’aria dolce, all’odore dei fiori di acacia, al venticello che s’insinua tra le gemme dei rami.

Un pomeriggio il gatto aveva sporcato una poltrona del soggiorno e Santa stava coprendo la seduta con un avanzo di un vecchio grembiule di cretonne.
-Ci sono novità?- le chiese Mira entrando.
Lei si girò e la guardò fissa, eretta.
-Sì…-
Mira sobbalzò.
-E… come si chiama?-
-Non ne voglio parlare- rispose lenta .
-Va bene. Lo sai tu. L’importante è che tu sia felice!--Ma se dovessi definirlo con due parole?- insistette la madre, curiosa.
Santa sorrise, le lanciò uno sguardo azzurro, denso. Si sciolse:
-Dolce ed elegante-
-E… che cosa fa?-
-Vuoi sapere troppo!-
-Giusto! Non ti chiedo più nulla!
La figlia aveva iniziato a leggere poesie: Prévert, Neruda, Lorca, Merini. Montale.
Si chiudeva nella sua stanza. Scribacchiava bigliettini. Esprimeva pensieri sulla caducità delle cose, sul silenzio delle spighe di grano, sulla rosa di sale, sull’ipertempo.
Da taciturna e poco connotata che era, si era fatta creatrice di un clima d’attesa.
Giuliano incupiva, preso dalla gelosia possessiva per la figlia femmina.
Lei non parlava.
Mira si augurava che lui fosse una persona premurosa e presente. E che l’amasse. L’amasse veramente.

Ha terminato il pasto. Lavato le stoviglie. L’attende un pomeriggio interminabile. Le tre, le quattro, le cinque, le sei sono lunghe e noiose. Poi arriva l’ora di cena e finalmente un’altra giornata è compiuta.

Com’era stata la vita di Mira? Lunga e noiosa. Giornate sempre uguali, grigie come le nebbie, i vapori che uscivano dai pentoloni messi a bollore per i bucati, come l’atmosfera creata da zia Isa che viveva per Giuliano, per quel rapporto esclusivo con lui.
Un mondo morto che apparteneva a loro due, a loro due soltanto. Un mondo lontano rievocato tra le tazzine di caffè. Nei finimenti del cavallo, nel calessino col soffietto, nella biancheria ricamata di nonna Santa e della prozia Oneglia morta di tisi, negli ombrellini.
E poi nelle terre, nelle risaie ch’erano state del nonno, del bisnonno.
Un mondo racchiuso tra pareti centenarie, vivente nei racconti. Un mondo di orfani che si aggrappavano alle pietre, alle memorie, agli oggetti riposti in soffitta.
Il futuro era incertezza, minaccia, insidia.
Mira attraversava quel mondo e si sentiva investita da sussulti e respiri in cui persistevano le ragioni di quelle vite. Tremule foglie della sera che volteggiavano al soffio del vento impetuoso rimanevano pervicacemente attaccate al ramo vecchio.
Il bello era stato allora. Non poteva più ritornare. La casa si riempiva dei suoni e dei rumori delle persone che l’avevano abitata e che adesso non c’erano più…
Mira, per un attimo, aveva assaporato il gusto della favola bella quando Giuliano le aveva spalancato la porta della camera da letto, sontuosa, commissionata a professionisti artigiani.
Il bello per lei era rimasto fermo lì..
Zia Isa era legata indissolubilmente a Giuliano. Gli aveva fatto da mamma, sostituendosi a nonna Santa dopo che la stessa aveva avuto tre bambini, anzi quattro perché uno era morto dopo il parto. Dopo che la stessa, a breve, era venuta a mancare.
Giuliano era il figlio che Isa avrebbe voluto.
E che aveva perduto.

Era una storia quella che non poteva e non voleva ricordare.
Isa non aveva ancora vent’anni quando era fuggita con Napoleòn: un commerciante di cavalli, avvenente quanto temerario, le aveva promesso, incantandola con due versi che si fregiava di scrivere, una vita da sogno a Parigi mirando forse al denaro della famiglia di lei.
Li -avevano ritrovati- a Ventimiglia. Isa, incinta, era stata costretta a tornare alla casa paterna. Il bambino, bellissimo, come lo era stato Giuliano, e con gli stessi lineamenti di Napoleòn, era campato solo pochi anni. Suo padre, trattato aspramente dal mancato suocero e da Amedeo, non l’aveva voluto riconoscere.
E l’aveva abbandonata per un’altra.
Zia Isa viveva in silenzio quel dramma che aveva forgiato il suo viso e reso i suoi modi un po' arcigni nella voluta non curanza dell’aspetto.
Pochi abiti, scuri e dimessi, due borse, due paia di scarpe dovevano essere la mortificazione della sua femminilità.
Giuliano provava compassione e affetto filiali per Isa e ne voleva riscattare il passato offrendole la sua completa dedizione.
Che Mira percepiva come sottrazione ai suoi danni.
E, così, Mira aveva cominciato a mendicare, negli occhi di chi incontrava, due briciole di felicità.
Bastava una favilla. Si fa presto a produrre una favilla. Due fianchi eleganti, due spalle dritte, due zigomi alti, due caviglie nervose. Un bel portamento.
Una donna sa quando un uomo la guarda.

Adesso pensa a zia Isa. Agli anni vissuti insieme, ai momenti di incomprensione per una donna che, involontariamente, forse, ha rappresentato un ostacolo alla sua felicità. Alla sua morte improvvisa dopo una vita così lunga.

Forse l’aveva lasciata lì di proposito, appena sgusciante da una busta gialla sul tavolinetto della sua camera. O forse Santa se l’era dimenticata davvero perché in quel periodo era molto distratta. Mira l’aveva vista. Era una foto. Di lui. Bellissimo. Gli occhi chiari, la mandibola pronunciata, le labbra morbide, i lineamenti regolari. Leggermente scantonata l’attaccatura dei capelli. Dolce e deciso lo sguardo.
Sul retro un nome a matita, scritto con l’iniziale minuscola: Jacques.
A Mira il cuore aveva cominciato a battere. Per l’involontaria intrusione, per l’inattesa scoperta.
Jacques, Jacques… chi doveva essere?! Mira compiva viaggi con l’immaginazione. E associava nella mente visi di persone che con quello avevano qualche somiglianza.
Infine aveva saputo.
Giacomo. Giacomo Beltrami. Libraio.
Era caduto per le scale con la bottiglia di latte in mano. Come un bambino. Aveva lussato la gamba.
-Le fa male qui?! Qui? Qui?-
-Sì…sì…un po’-
Durante le applicazioni si abbandonava lontano.
Assente.
Poi, era stato l’orologio del campanile… Aveva battuto le cinque: quel rintocco pesante di campana automatica doveva aver sbattuto anche in uno dei suoi centri di pensiero.
Si era rammentato dei versi e, improvviso, aveva recitato “Di lontano già gli viene la cancrena, alle cinque della sera”. Santa ricordava a memoria “il vento portò via i cotoni e l’ossido seminò cristalli e nichel alle cinque della sera”. Era stato saldatura.
Lui si era aperto un po’. Aveva detto di sé. Del suo micro universo.
Sembrava stessa lunghezza, magnete.
Lei aveva cominciato a percorrere viali ordinati tra aiuole lussureggianti cui poteva accostarsi e guardare.
E attingere forza, slancio, spinta.
Zia Isa le aveva consigliato prudenza.
-Aspetta di conoscerlo bene-
A Santa sembrava di conoscerlo da sempre.
Mira tratteneva il respiro. Giuliano non si liberava della sua tendenza al sospetto.
-Ce lo presenterai!-

Era venuto in Mercedes. -E’ di mio padre-. I capelli in ciocche scomposte e riflessi dorati avevano fatto spicco sopra la portiera, quando era sceso.
-Piacere!- Piacere- Si accomodi- Non guardi al disordine- Zia Isa faceva gli onori.
Si era seduto in punta sul divano di velluto del salotto.
Aveva rifiutato il vino novello preferendo un bicchiere di sidro.
-Sono astemio-.
Giuliano gli aveva chiesto del mercato librario.
Lo sguardo era attento, il parlare capace di aderire alle cose.
Santa si era messa accanto alla stufa che veniva dal Trentino. Mira portava bicchieri e bottiglie.
Poi, erano usciti nel parco.
Lui aveva notato le gazze. L’apertura delle ali, il piumaggio dai riflessi bluastri.
Era un esteta. Con quel tocco da decadente che faceva contorcere nelle viscere. Giuliano aveva pensato ai suoi compagni di collegio. Era stato un attimo.
Santa non diceva nulla. Intimidiva alla presenza del padre. Si interrogava sulle impressioni prodotte.
Giuliano sfoggiava informazioni e conoscenze. Lui assecondava gentile.
Erano arrivati fino alla fila delle arnie e al filo del bucato, poi erano tornati indietro. Lui aveva infangato leggermente la suola delle scarpe e la tomaia all’inglese. Zia Isa gli era andata incontro con uno straccio.
Gli avevano regalato del vino per il padre.
Lui aveva donato una stampa topografica d’epoca.
Poi era ripartito salutando con fare impostato e signore.
Giuliano aveva abbassato la testa, forse chiedendosi qualcosa.

Si è alzato il vento. Produce un rumore fastidioso.. Sbatte le imposte del bagno e quelle delle terrazze. Mira deve fare le scale, salire al piano superiore per andare a chiudere.
Le caviglie le dolgono e anche i polsi.
Il vento è sempre fastidioso. Porta malanni e notizie fredde.
E’ arrivato Giovanni Diodato. Ha battuto ai cristalli della finestra. - Zia! Zia!-
La donna è andata ad aprire. Si ripete la scena.
- Come stai?-
- Sto da povera vecchia- è una frase che Mira ha rubato a Cristiana.
Il nipote le ha portato una lepre da tenere nell’enorme congelatore . Dice che servirà per una cena con gli amici.
-E Santa?-
-Mi ha telefonato una settimana fa… pare che la cappella stia sorgendo …
-Ah…Mi ricordo quando veniva da mia madre per le carte.
Mira schiude un angolo della bocca per sorridere.

Ma davvero quell’uomo, così fine, elegante, all’apparenza esperto delle cose del mondo, provava interesse per Santa? Che cosa poteva aver visto nella figlia, che era fragile, timida, insicura, poco furba e con scarsa considerazione di sé?
Forse erano state semplicemente quelle due mani morbide che avevano toccato il suo corpo, là dove gli doleva, ad attivare la corrente? Cioè il bisogno. Il bisogno di fisicità, covato da tempo, proiettato su una facile ai trasalimenti?
Giuliano era dubbioso, forse solo per un sentimento di gelosia possessiva.
Guardava la figlia serio e lei, sentendo il macigno dello sguardo, teneva la testa bassa e continuava ad arrossire come aveva sempre fatto fin da bambina, sentendosi impotente.
Alla domenica pomeriggio usciva e incontrava Jacques.
Facevano una passeggiata in centro. Parlavano. Parlavano di poesia.
Lui diceva che poesia era vita, condensato, essenza. Che doveva essere risorgiva e non ripetizione.
Che implicava la scoperta di un Io capace di ascoltare l’intelligenza universale. Che il pensiero diventava canto.
Lei non ne sapeva e si era messa a cercare in libreria.
Cercava di capire simbologie, accostamenti incomprensibili. Tensioni metafisiche e ricerca del valore comune.
Davanti al tavolinetto intarsiato su cui erano appoggiati il fante e il re di bastone, le carte della stesa, Santa aveva detto a zia Cristiana che Giacomo, Jacques, era un tipo speciale.
-Ti pensa- diceva zia Cristiana - gioisce quando ti vede.
Santa era felice.
Davvero? Davvero?
Davvero.

Giovanni Diodato si è messo a girare intorno al tavolo. Gira il dito indice intorno a una ciocca grigia di capelli in punta sulla fronte e pensa.
Poi comincia a lamentarsi dei ritmi di lavoro ospedaliero, dello stipendio che non è adeguato.
Mira considera che la sua pensione , nonostante la reversibilità, è modesta.
Giovanni Diodato fa altri giri intorno al tavolo. Guarda i segni della sua presenza nella casa dell’ infanzia. Una piastrella con l’apostolo prediletto appesa alla cappa, la tazza per il latte che usava da bambino destinata ai gatti.
Sorride mentre gli passa nella mente chissà quale pensiero. Mira lo guarda distratto. Pensa che tra poco la saluterà.

Gli piacevano gli alianti. I velivoli senza motore che andavano solo con la forza del vento.
Una volta Giacomo aveva detto a Santa:
-Ti faccio una sorpresa-
Era finito col suo volo a vela in mezzo alla campagna. Mira, Santa, Giuliano, zia Isa erano usciti nel verde per guardare l’enorme insetto bianco fatto di lamiere, con le ali spalancate tra le barbabietole.
E Giuliano, di fronte a Jacques con il foulard al collo, non aveva potuto fare a meno di ricordare le operazioni militari della prima guerra mondiale.
-Viene da Villa San Martino?-
-Sì-
Erano rimasti per un tempo imprecisabile fermi intorno al velivolo atterrato, pieni di stupore, quasi che fosse un ufo planato da chissà dove.
Poi avevano guardato verso l’alto il puntolino che sarebbe sfumato in pochi minuti nel cielo .
Per Santa era gemma d’oro.
-Quando vi vedete?-
-Mah, non lo so…
-Come mai?-
- Ha tanto da fare… non ha tempo…
Ha tanto da fare, non ha tempo… Che cosa aveva da fare?
Mira un po’ fremeva. Voleva concretizzazioni. Invece sembrava tutto così vago e sempre in fase iniziale.
Erano già passati due anni da quando aveva scoperto la foto sul tavolino dentro la busta gialla.
Mira era in pensione, Santa lavorava all’Asl, Giuliano partiva per i viaggi , zia Isa invecchiava lentamente.
Succedeva che per settimane Santa e Jacques non si sentivano. Poi era quasi sempre lei che gli telefonava. – Sai, è timido..
Santa diceva di identificarsi con certe poetesse di grande temperamento.
Adesso stava dentro la sua narcosi. Spalancava gli occhi, partiva col pensiero, scriveva.
Il fine non era chiaro, se non che subiva il plagio di Jacques.
-Sai, lui legge molto.
Si nutriva di endecasillabi e versi liberi, colate di emozioni.
Mira diceva che erano solo parole e fantasticherie.
-Devi guardare i gesti. I gesti. Ti vuole bene?-
-Sì, me lo ha detto-
-Ma parla di fidanzamento?!-
-Questa è una cosa superata. Non s’usa più-
-E allora, di matrimonio!!
-Non esageriamo-
Era laconica come un uomo. Non si confidava.
Mira aveva l’impressione che si trattasse di qualcosa campato in aria. Una fantasia senza un fondamento concreto che stava solo nella testa della figlia.
Cristiana diceva che era giusto che facesse le sue esperienze, naturalmente temperate dal senso della moralità, e che il sogno era una cosa bellissima.
Santa sembrava esserne paga, anche se spesso le si coglieva nello sguardo una nota di malinconia.
Perché è bellissimo conoscerti/ E mantenerti nell’aura/ della cosa sconosciuta/Curiosa ti chiedo chi sei,/curiosamente tu ti celi.
Righe in corsivo che Mira trovava a bizzeffe scritte nei bordi dei quotidiani, nelle pieghe degli incarti destinati alla pattumiera, nelle scatole dei fiammiferi da cucina.
La cosa più difficile/ Da dirti /È /Che ti voglio bene.

Giovanni Diodato ha salutato ed è uscito. Il telefono ha squillato nel corridoio e Mira è andata a rispondere. E’ il solito scocciatore con qualche offerta pronta per estorcere denaro. Mira non lo lascia parlare. Gli dice subito: “Non mi interessa”
Ha acceso il televisore. Un talk show nel quale intervengono giovani con le loro storie intrecciate. Mira ascolta, si fa coinvolgere. Evade.

Santa mormorava nel parlare di Giacomo. Come se anche attraverso la voce, volesse esprimere riguardo, cura e rispetto per lui.
Lui, quando la vedeva, era gentile. Non le risparmiava sorrisi. Però, a volte, lei lo sentiva remoto: quasi che dovesse attivare la memoria per ricordarsi dell’inizio, di quando sembrava essersi tuffato nella sua palpabile sensibilità.
Le aveva fatto leggere “Gli uomini vuoti” di Eliot. Lei non aveva capito...
Poi, le aveva raccontato una storia triste, di sé, simile a quelle che Mira ascoltava nei talk show del pomeriggio.
Il padre si era rivelato un uomo efficiente negli affari ma incapace di esternare affetto. La madre era una donna fragile che, alla sua terza gravidanza, si era data dei pugni nella pancia e aveva ingoiato pastiglie: non a sufficienza, tuttavia, per impedire al concepito di venire al mondo.
Da piccolo gli si contavano le costole.
Lo avevano allevato ed educato i nonni. Poi, aveva frequentato un collegio dove il tempo pareva essersi fermato. In seguito, si era messo a lavorare nella libreria del padre. La madre gli voleva bene ma le due sorelle venivano prima di lui.
Aveva mani morbide e ciocche dai riflessi di rame. Beveva latte e sidro. Sorrideva al mondo con un fare vago e gentile. Prendeva quota nell’azzurro del cielo col suo aliante senza motore che spesso cadeva nei campi.
Gli occhi di Santa si facevano più tondi davanti al sogno. All’ aereo. Alla sciarpa al collo. All’anello coll’ametista o la corniola che portava al dito medio. Al fascino di quella storia infelice.
Lui sapeva di città. Di frenesie di signore che s’arrestavano sapute in faccia a volumi allineati per ordine alfabetico. Di condense di odori, diversi da quelli della campagna.
Lei prendeva vortice nei discorsi di lui.
-Devi chiederti chi sei, che cosa vuoi. Che cosa vuoi veramente-
-Per un sentimento che reprimi ne inasprisci un altro-
Erano emozioni pompate in vena da un motore che andava a ritmo continuo. Era deglutizione d’aria, digiuno di grazia, volo.
Ma lui sembrava voler rimanere nel limbo delle cose sospese, nella tensione di un principio permanente. Si capiva che non voleva andare oltre.
E Santa aveva cominciato a dimagrire.

Il talk show è finito. Il telecomando ha arrestato il flusso di immagini. Mira si è alzata. Ha voglia di uscire, di sentire l’aria fresca della sera che rapida viene.
E’ sull’uscio di casa. Il vento della sera porta odore di terra e di foglie morte. Gli uccelli si appollaiano sui rami con le loro sagome scure. Là, sul fondo, la carreggiata si sperde sulla linea dell’orizzonte che imbruna.

-Domenica esci con lui?-
-Non lo so !-
Le labbra erano pressate in un filo storto.
-Non ne vuole più sapere!
-Ma, no! Ti sbagli! Forse ha qualche problema che non conosci!
Santa scuoteva la testa come una bambina smarrita.
Mira non capiva. O meglio, pensava di aver sempre capito.
Quello era un tipo molle, incapace di un progetto con una donna. Un tipo inaffidabile, dispersivo, con fumo nella testa e baggianate varie che purtroppo avevano il potere di avvelenare il sangue alla sua Santa.
Ecco chi aveva incontrato sua figlia.
-Pensa al tuo lavoro- diceva Giuliano guardandola dall’alto delle sue spalle e dell’addome in fuori.
Santa aveva ripreso a claudicare .
Il fiume si era arrestato. Il greto era in secca.
-Oggi che ti aspettavo non sei venuta. E la tua assenza dice che non vuoi amarmi… -
Quelle mille parole che lui le aveva detto -le svelava che- erano simulazione.
-Sai la poesia è finzione-
-Sì, però scaturisce da qualcosa di autentico-
-Può essere…magari…sì, per una scintilla-
-Una scintilla che infiamma-
-Si fa presto con le parole! Anch’io posso essere finto… che ne sai?-
-No, non ci credo-
-Sei vissuta troppo allacciata, inesperta...
Giacomo faceva lo sguardo serio, irridente, lontano.
Santa abbassava il suo, percependo se stessa ora dentro ora fuori dal bosco. Un misto di smarrimento e rabbia impotente s’impadroniva di lei.
In lui, il gusto di torturare come faceva con le lucertole quando era piccolo.
Sembrava sicuro di sé, forte, cinico.
Aveva provato piacere nell’incantarla e adesso ne provava ancor di più nel negarsi.
“Quello che sono è quasi nulla…”
- Nulla è immutabile e io non potrei accettare l’immutabilità-
-Ma alcuni sentimenti e valori devono durare, devono rimanere immutabili-
-Tu non mi conosci, non sai niente di me. Della mia vita, delle mie ombre-
Santa allibiva. Avrebbe voluto sapere. Che cosa c’era da sapere?
Che il vuoto di quell’affetto primordiale aveva spalancato ancor più le sue fauci quando lui o i parenti avevano tentato di colmarlo con altro?
Che il bambino sempre desto cercava di procacciarsi sotto altra forma ciò che gli era stato sottratto e credeva gli spettasse, facendo di se stesso l’oggetto esclusivo delle proprie cure?
-Non sono capace di dedizione, non so vivere un’amicizia. Pasticcio un po’ con tutto, sentimenti compresi, ma in realtà non so impegnarmi veramente in qualcosa.
“Si può esistere non vivendo, con radici strappate da ogni vento…”
La sua complessità diventava improvvisamente disarmo.
-Parlo di poesia, ma non so che cosa sia la poesia –
“Si può vivere nel fuochetto di voglia dell’emulazione…”. Giacomo proponeva con esasperante distacco dei versi di Montale.
Santa impazziva. Dita e capelli si azzuffavano.
Al lavoro era spenta. Il camice macchiato.
Guardava i pazienti e non li vedeva.
Chi era Giacomo?
Un inganno, un inganno pensava la madre. Una vigliacco che suscitava l’amore senza intenzione di amare.
Giuliano trovava conferma ai sospetti iniziali.
-Pensa al tuo lavoro!-
-Senti chi parla!- gli aveva risposto la figlia, sbattendo la porta della sua camera.
Giuliano si era rivolto a Mira con livore:
-Tu me la metti contro!-
-No, sei tu che la rendi insicura!-
- Io non c’entro: è lei che è nata insicura!-
Insicurezza. Connaturata o indotta? Entrambe le cose. Entrambe le cose.

“Caro Giacomo, io busso alla tua porta ma la trovo inspiegabilmente chiusa. Mi chiedo e ti chiedo se ho mancato in qualcosa. L’impressione è che tu sia slittato altrove e questo mi riempie di indicibile pena. Pensavo che la nostra amicizia potesse trovare uno sbocco diverso, ma devo convincermi che tu vuoi guardare verso altri orizzonti. Se non ti costa troppo, mandami due righe affinché io capisca il motivo di questo tuo cambiamento. Con affetto. Santa”

“Santa, io non posso giungere allo sbocco di cui parli perché non mi piacciono le caselle. Non si tratta dei pentimenti dell’amore nella sua fase iniziale. Si tratta del mio essere che postula la libertà e quindi la solitudine. Amo volare nel cielo proprio per questo. Mi dispiace se hai investito in me. Io non sono la persona adatta.
J.”



Si sente un odore di carogna marcia nell’aria. Qualche uccello morto che imputridisce sotto le foglie. O una donnola sbranata dal cane di Giovanni Diodato. Mira sull’uscio fa roteare lentamente gli occhi da destra a sinistra. Annusa l’aria umida.
Si è fatto buio pesto. La pendola nel corridoio ha mandato i suoi rintocchi. Mira ha sprangato il portone e il suo sguardo è corso verso la scala che porta al piano superiore. Alla colonna col capitello che la affianca. L’occhio percorre la copertura in cotto dei gradini. Una volta erano ricoperti da lastroni grigi.
Due gatti miagolano all’esterno. E si azzuffano. Mira parla ad alta voce. Poi, sente un brusio di voci afone, quasi di foglie contro fiato dietro i vetri di una finestra e pensa che se ne sono andati tutti…

-Gli uomini mentono. Oppure hanno paura…non se la sentono. Certi uomini sono così… sta a noi capire per tempo e non farci confondere.
Mira trovava la carica di saggezza nel suo ruolo di madre.
Santa, sdraiata sul divano del salotto, teneva la testa reclinata sull’omero sinistro.
-Lui ha sofferto molto, sai! Non si è sentito amato…
-Adesso fa soffrire te… ma perché ti sei fissata su di lui?-
-Perché è diverso da tutti. E’ un tipo incredibile… -
-Cioè?-
-Non ti guarda mai come se ti volesse spogliare, non abbassa mai lo sguardo fino alla cintola, ai fianchi o alle gambe. Ti guarda negli occhi, vuol leggere quel che hai dentro.
-E legge?-
-Sì. Legge quando sei a disagio, quando non sei te stessa, quando hai bisogno di confidarti e di ricevere le parole giuste-
-Che lui dice…-
-Sì, sa dire le parole giuste, esattamente quelle che ti aspetti. Sembra un parente. E’ come se ti conoscesse da sempre.
-Sei sicura che non sia una tattica?-
-Ha detto che l’ha imparato con la libreria. Nel leggere i libri e anche per vendere i libri alla gente ha acquisito sensibilità.
-Ecco vedi, lo dici tu stessa… c’è una componente di opportunismo-
-Ma in tutti c’è un po’ di finzione-
-Ma tu hai finto con lui?-
-No, io no-
Certo. La figlia non fingeva. E mostrava la sua autenticità che significava impaccio, insuccesso, mentre quello, incapace di provare sentimenti, interpretava bene una parte.
-E, allora, se tu non hai finto e lui invece sì, a quanto pare, vuol dire che all’inizio ti ha assecondata perché si è sentito lusingato ma poi è venuto fuori per come effettivamente è. Te ne devi fare una ragione… -
Santa annuiva.
-Sì, sì…-
Il suo sguardo da allucinata si fissava nel vuoto.
Mira si chiedeva a cosa pensasse. Ai ricordi? Ai momenti belli ? Alle illusioni che si era fatta ?
La figlia non poteva convincersi che fosse tutto finito. Non poteva credere che lui non ne volesse più sapere. Quando si ama una persona non si può pensare di non essere ricambiati. Il trasporto concepisce una familiarità, sostanzia una condivisione.
Non poteva vivere senza di lui.
Non voleva.
“Sei tu che mi hai creato secondo i tuoi desideri. Quel Giacomo che immagini non esiste. Forse ho contribuito a fartelo immaginare, ma non posso aderire all’idea che ti sei fatta di me”.
Zia Cristiana lo aveva definito il mese di novembre.
Il mese delle strade non percorse. Delle case vuote.

Domani è sabato. Giorno di mercato. Mira farà un giro tra le bancarelle, poi andrà in chiesa a confessarsi. Le dà sollievo confidarsi col prete, liberarsi degli accumuli.

Aveva ripreso il suo ritmo di lavoro all’ASL. Tornava verso le cinque e mezza di sera. Prendeva in braccio i gatti che le si strusciavano contro le gambe. Sbrigava qualche faccenda in casa.
Spesso guardava dalla finestra. Assente.
Stendeva i pensieri in silenzi pacati. Li appendeva come panni al filo. Li guardava sventolare al vento. Taceva e si abituava a una compagnia incorporea di cui percepiva i rumori lontani.
Un’idea ha un peso. Un ricordo ha un peso. Un’emozione ha un peso.
Lei tratteneva la magia compresa tra il prima e il dopo.
E, non potendo concepire altro, immaginava di poter contemplare all’infinito quelle uniche perle che le erano state destinate per il suo scrigno.
Continuava ad accarezzare una vita che aveva percepito correre sui fili dell’alta tensione, densa di suggestioni, richiami, fantasia.
Ma lui, prima perno, adesso era diventato sfacelo.
-Con te io sono sempre stato poco sereno-.
Lui, prima sostanza, adesso era ombra.
-Mi sono impegnato a vivere un rapporto, ma ciò che ci divide è una barriera culturale e di formazione-.
Si era eclissato. Uscito dall’orbita.. Ma lei continuava a stare sulla scia, inseguendo il lasciato, il toccato, il detto, l’immaginato.
Perseguiva il fine con ostinazione caparbia, avendone fatto ragione di vita.
Non poteva aderire a quella che sembrava morte. Un sentimento non muore. Doveva alitarvi sopra, come si fa con le braci perché continuino a divampare le faville.
E poi l’aveva rivisto, un giorno. E naturalmente con un’altra. Ridere, scherzare come se nulla fosse. Ripetendo, chissà, la stessa strategia, lo stesso piano. Con quella intenzione arrotolata dentro un filo destinato a rompersi. Nella sua doppiezza punitiva: per sé e per l’ignara.
Era stato in quei momenti che la bellezza della città, con i calamai delle luci che segnavano i volti, per la prima volta le era sembrata inesistente.
E quando, disperata, lo aveva raccontato a Mira, Mira aveva ripensato a zia Isa. Al suo dolore. E, forse per la prima volta nella sua vita, aveva provato sincero affetto per la donna cui Giuliano aveva voluto consegnare le chiavi di casa.
“Caro Giacomo, oggi ho partecipato al funerale del marito di una collega, venuto a mancare improvvisamente. Era una persona conosciuta e amata.
In chiesa si respirava un misto di gioia e dolore. Quando ho guardato la bara, con le gerbere rosse deposte sul coperchio, ho pensato che dentro c’eri tu”.
“Ho capito che devo dimenticare, ma non è facile. I ricordi si affastellano, gridano e chiamano. Ricacciarli è sofferenza, disorientamento. Io pensavo che fosse una cosa bella scorgere nel velo del mistero il lampo di una sincera corrispondenza, ma so che devo ricominciare a trovare nella grigia quotidianità il senso dell’esistere. Santa”
“Santa, io so che tu sei fatta per andare oltre. Giacomo”

Le giornate di mercato sono capaci di elettrizzare. Anche se si incontrano poche persone conosciute, anche se si ritorna a casa più stanche, dopo la camminata tra le bancarelle. Anche se si acquistano cose inutili che poi finiscono in soffitta. Mira ha preso le abitudini della famiglia in cui ha vissuto per sessant’anni: porta tutto il dismesso in solaio.
Là c’è la polvere di più d’un secolo e stratificazioni di oggetti. Selle da cavallo, un aratro, un carretto, una stia, graticole di ferro, scatole di latta zeppe di carte manoscritte, anatre da richiamo, scaldaletto in legno, sedie spagliate, poltrone sfondate. Culle. Biancheria dentro sacchi. E poi dei bauli serrati da lucchetti arrugginiti di cui si è smarrita la chiave.
Lei sa che lì si sono intrecciate le vite. Vite che si sono concatenate e riflesse in mutua reciprocità. Vite di cui adesso sente di percepire con rispetto i segni.

Poi, era accaduto l’inatteso.
Santa e una collega , un sabato pomeriggio in città, stavano al balcone sotto il sole di giugno, sopra una via trafficata di gente. In basso, sul marciapiede, una signora fermava le altre per vendere degli orecchini.
In un crocchio qualcuno issava sulle spalle una croce.
Avevano aguzzato la vista incredule: un uomo con la barba, il capo coperto, una veste lunga color marrone , avanzava reggendo una croce di legno.
L’avevano seguito con lo sguardo, finché non era sparito tra la folla.
Erano andate alla messa serale nella chiesa del Carmine.
Durante la celebrazione eucaristica il tipo alto e robusto era stato presentato da un monsignore.
Veniva dal Sud. Da giovane aveva condotto una vita da gaudente. Dopo un incidente che l’aveva costretto a un periodo all’immobilismo, aveva sentito la voce di Dio. Si era dedicato ai poveri, ai bisognosi. Aveva fondato un centro.
-Io sono qua a offrire la mia testimonianza. Porto per le strade la croce di Gesù per rinnovare il Mistero della Fede. La Fede nell’amore totale di Dio . Di un Dio capace di morire per noi.
Voglio, vorrei, dare una scossa alle nostre coscienze che sembrano addormentate. Non sono solo. Quelle persone, che forse avete notato intorno a me, condividono la mia esperienza.
Il nostro progetto è ambizioso. Percorriamo in lungo e in largo l’Italia. Ci fermiamo nei paesi, nelle città. Veniamo ospitati dai parroci, dalla gente pia. Cerchiamo di fare apostolato.
Vogliamo fondare delle cappelle per lampade viventi. Ma l’idea è ancora in nuce.
-Quando frequentavo la scuola, qualcuno mi disse, un giorno, che nel nostro nome c’è il nostro destino. Non so se sia vero. Io mi chiamo Justo che significa Giusto. Sono nato in Argentina, dove i miei genitori erano emigrati : mi hanno voluto dare questo nome sperando che fosse di buon augurio.
- Mi sento di dire ai giovani che cercano qualcosa al di fuori della Fede : fuori di qua non c’è nulla. Il senso della vita è qua- e indicava col dito la zona dell’abside. Dell’altare.
-Il nostro secolo è un periodo convulso. Noi siamo degli uomini disorientati. Degli uomini impagliati, vuoti. Se invece ci riempiamo di Dio, diventiamo uomini pieni…
-Quasi a tutti capita di pensare che le nostre giornate siano noiose. Che la nostra vita sia una monotona ripetizione . A volte, la durezza del vivere ci fa perdere la speranza e ci rende apatici. Ma non bisogna smettere di vegliare, che vuol dire vivere, perché il Veniente si manifesta a noi in modo nuovo. Il Veniente ci prepara sorprese.

-Il Veniente ci prepara sorprese, si manifesta a noi sempre in modo nuovo-.
Santa era vissuta con la propria tristezza murata nel cuore e aveva desiderato e creduto di trovare quel dono raro che tutti cercano, poi svaporato all’istante.
Ma, in seguito, non le erano bastate le illusioni approntate dall’anima per frenare i lamenti della sua voce piangente.
Lei aveva deciso di alzare lo sguardo al cielo che non sentiva vuoto ma grondante di verità.
Mira aveva trepidato per il futuro della figlia, augurandosi che fosse migliore di ciò che la sorte aveva riservato a lei. Quell’imitazione di Cristo le era sembrata una mortificazione autopunitiva cui la figlia si sottoponeva, condizionata dalla rassegnazione del non importa.
Giudicava Justo un suggestionatore planato da chissà dove per riempire i vuoti che nello stesso modo avevano accompagnato anche le sue giornate. E si dava delle colpe.
Santa un giorno glielo aveva presentato .
Era un uomo alto, deciso, di poche parole. Sprigionava energia e tenacia.
Quando si era levato in piedi, scostando la sedia del tavolo da cucina per stringerle la mano, Mira aveva rivisto il soldato che, durante l’occupazione, l’aveva invitata con forza a scendere nello scantinato prima che l’aereo ricognitore sganciasse il suo ordigno.
Due spalle larghe, capaci di opporsi alle contrarietà della vita. Due calzari che aderivano alla terra e il capo eretto che puntava verso l’ alto .

Adesso, dopo tanti anni, Mira lo sa.
Santa ha incontrato Justo nel momento più adatto per recepire un disegno e comprendere un cammino..
Per mettere a frutto dei semi… o dei segni.
Nonostante tutto.
La religiosità di Cristiana, l’esigenza del diverso di Giuliano, il bisogno di unità di Mira, la ricerca dell’essenza di Giacomo.
Nonostante tutto.
La sera è inoltrata. Mira si è riseduta accanto alla stufa sulla seggiola impagliata . Vuol recitare il rosario prima di cena, perché poi avrà sonno e gli occhi le si chiuderanno.
Sorride e sente che può guardare con serena consapevolezza il circolo dell’esistenza trascorsa. Gli episodi accaduti, le situazioni, il loro senso e compimento.

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