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Al bar Stella

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 09/11/2018 11:02:18

AL BAR STELLA

Al bar Stella facevano il caffè più buono di tutta la città e lì, proprio a due passi dal Policlinico, si ritrovavano da anni i medici e gli infermieri, per una pausa, invitandosi vicendevolmente o invitati da qualche paziente grato.
Alessandra Risposi, ferrista e caporeparto della divisione oncologica, vi accedeva invece raramente. Ligia al dovere e versata alle rinunce per formazione, riteneva, sicuramente a torto, che quel piccolo vizio, a cui tutti cedevano, fosse il primo passo verso le distrazioni e lei evitava accuratamente ogni tentazione che l’avesse distolta dal fine primario della sua esistenza: essere una brava efficiente infermiera.
Sempre sorridente, il camice immacolato, s’imponeva un atteggiamento di servizio impeccabile, esercitando il proprio ruolo con naturale autorevolezza, nel fermo proposito di curare al meglio ogni aspetto che il mestiere presentava.
E l’intento era tanto perseguito in quanto connesso con le attese e le attenzioni riservate dalla stessa a chi stava in cima ai suoi pensieri e cioè il professor Giovanni Della Corte, chirurgo stimato e benvoluto da tutta l’èquipe medica e paramedica, apprezzato e idolatrato dai pazienti e rispettivi congiunti . A questa affermata reputazione aveva contribuito anche lei , Alessandra, sostenendo per tanti anni il medico come una serva fedele, pronta a essere mobilitata in ogni istante, attenta a provvedere alle bisogna con intuito e professionalità.
E il chirurgo si appoggiava a lei. Le affidava tutte le fasi terminali degli interventi, perché seguisse le operazioni di sutura eseguite dagli assistenti, chiedeva che si sobbarcasse i turni di notte quando il decorso post operatorio si presentava critico per i pazienti; inoltre si lasciava andare a qualche confidenza sulla famiglia e la investiva con la sua Weltanschauung a suon di citazioni filosofiche.
E Alessandra Risposi, che aveva frequentato le Magistrali e un po’ di filosofia l’aveva masticata, anche se dimenticata, dopo anni di gramo ménage quotidiano fatto di omogeneizzati da riscaldare e di pannolini da cambiare , avviata da quegli indizi di pensiero, si era comunque spinta a fare l’identikit psicologico del suo primario che considerava, se ben aveva inteso, un po’ kierkegaardiano e un po’ faustiano. E, per colmare i propri vuoti culturali, per sentirsi all’altezza di una conversazione con il luminare, si dava nottetempo a letture intellettuali.
Naturalmente le di lui osservazioni, riflessioni e confidenze, suscitavano quelle emozioni che Alessandra consumava in silenzio, paga comunque degli sguardi elettrici che lui le riservava e di quei “vogliamo andare”, “vogliamo fare” che lui le rivolgeva.
Al reparto tutti avevano assorbito, senza particolari reazioni, la portata di quell’intesa che non destava alcun pettegolezzo, dato che rientrava nella fisiologia della situazione: entrambi erano professionalmente preparati, entrambi si mettevano a cuore il destino dei pazienti, entrambi avevano una natura delicata e idealista, entrambi meritavano rispetto. Il sodalizio, dunque, era il prodotto della comunanza degli intenti oltre che delle affinità.
Sui trascorsi del chirurgo si dipanava un’aura di mistero: si sapeva che aveva una bella moglie, seria e riservata, dedita a opere di beneficenza. In quanto ad esperienze pre-matrimoniali, c’era chi giurava che, a dispetto del nome, Giovanni Della Corte fosse stato in gioventù un misogino incurabile, mentre altri sostenevano che, al contrario, avesse sulla coscienza diversi cuori infranti.
Comunque fosse, ad Alessandra non interessava il passato del suo capo che ora, a cinquantanni suonati, esprimeva soltanto carisma e salde convinzioni.
La caporeparto inevitabilmente subiva il fascino del suo superiore, drammaticamente rafforzato dal distacco che lui mostrava e dalla naturale gentilezza con cui il professore trattava il suo prossimo.
E come darle torto se il marito di lei era talmente tranquillo da dilettarsi a realizzare composizioni floreali con sassolini colorati e fiori essiccati, appesi a calice in giù alle travi della soffitta, divertendosi nei giorni di festa a coltivare nature morte e niente più?
Così Alessandra trovava la sua pienezza in reparto, confortando malati terminali, aggrappandosi alla vita che le sfuggiva dalle mani, rinfrancata dalla vaga sensazione di sentirsi , tra le altre, la favorita.

Un giorno, era appena rientrata dalle ferie estive, notò una infermiera nuova sistemare le poltrone dell’astanteria. Le venne da osservare lo stretto giro di vita, messo in risalto dal camice sciancrato.
Una brunetta tutta impettita, rotonda di fianchi e di polpacci. Si chiamava Rosaria Floris ed era sarda. Si strinsero la mano in guardiola e Alessandra fece capire che se avesse avuto qualche problema, avrebbe potuto rivolgersi a lei. La giovane infermiera ringraziò, sorridendo.
Successivamente, alla caporeparto non occorse molto tempo per capire che la nuova venuta era una campionessa d’efficienza. Ordinata, precisa, si trovava sempre al posto giusto nel momento giusto. In sala operatoria prevedeva le richieste del chirurgo. Quando Della Corte diceva klemmer, l’infermierina aveva già la klemmer a due centimetri dalla mano del medico e lo stesso faceva con la pinza di Coker, con i tamponi e con tutti gli altri ferri. Vestiva il chirurgo con l’abilità e la premura di una governante di buona famiglia ed era pronta a detergere il sudore del dottore, che operava, con un bianco fazzoletto e l’atteggiamento di devozione della Veronica che soccorre il Nazareno.
Inizialmente, Alessandra non prestò attenzione alla cosa. Pensò che tutto quello zelo fosse solo mirato ad acquistare immediata considerazione e rispetto.
Ma la nuova infermiera sembrava essere divenuta, nel giro di pochi mesi, indispensabile per molti. Dalle camere la reclamavano perché mettesse in vena gli aghi delle flebo. I parenti dei ricoverati le si raccomandavano perché serbasse un occhio di riguardo ai propri cari, le confidavano non si sa quali problemi personali. Il suo nome risuonava da una corsia all’altra, da una sala all’altra: “ Floris, c’è un’urgenza”, “Floris in sala rianimazione”, “Floris, ti vuole Della Corte”.
E la fronte di Alessandra Risposi cominciò a essere increspata da una ruga. Adesso alla caporeparto si faceva riferimento più di rado. Sembrava che tutte le infermiere e gli infermieri sapessero esattamente cosa fare in ogni circostanza. Per inspiegabili motivi, avevano fatto quadrato attorno a Rosaria Floris che, con sorrisi espansivi e cordiali battute pronte, si era accattivata la simpatia di tutti , chirurgo compreso. Alessandra l’aveva vista sorridere a Della Corte e parlottare fitto fitto in astanteria con lui, una sera verso le nove, quando i locali dell’ospedale erano semi deserti.
E, nei giorni successivi, dovette amaramente constatare che lei, la capo infermiera scrupolosa e irreprensibile, veniva deprivata di considerazione non soltanto dal basso e da mezza altezza, ma anche dal vertice: lo stesso professor Giovanni Della Corte, l’affascinante primario idealista e idealizzato, sembrava aver preso le distanze .
Durante un’assemblea con il personale medico e paramedico lo sguardo di Della Corte aveva incrociato debolmente il suo un paio di volte ma, quando Rosaria Floris, seduta in prima fila con le gambe accavallate e strette nelle calze nere sotto il camice bianco, aveva preso la parola per esporre il problema dell’accanimento terapeutico, causa di tante sofferenze per le famiglie, rossa in viso e animata da una potente forza interiore, gli occhi degli aiuto, degli assistenti e del chirurgo erano piovuti a tiro incrociato sulla Pasionaria infermiera sarda.
E Alessandra Risposi, che si era sempre vantata di possedere uno stomaco solido, cominciò a soffrire di gastrite.
Lentamente, ma progressivamente, andò subendo una trasformazione. I muscoli facciali, prima distesi, ora erano costantemente contratti, il passo, in precedenza placido e regolare, era diventato frenetico e nervoso, il camice non si presentava più immacolato e la parola risultava lenta , come se la lingua si fosse appuntata al palato.
Ma contro quel malessere, che rischiava di compromettere fisicamente e professionalmente la ferrista, prevalse l’istinto di conservazione.
Alessandra trovò ben presto il coraggio di spiegare a se stessa la causa di tale funesta metamorfosi.
E cioè come il suo chiaro fulgido orizzonte fosse stato oscurato dalla presenza della nuova arrivata, come la sorte le avesse giocato inaspettata un tiro mancino.
Quale malia misteriosa esercitava Rosaria Floris che non era né bella, né affascinante, né particolarmente colta o elegante?
Come poteva Giovanni Della Corte dedicare tanto tempo e tanto spazio a quell’infermiera, arrivando addirittura a citare i pareri di lei in presenza degli assistenti e a farne in poco tempo il suo principale punto di riferimento?
Mentre Alessandra aveva lottato per tanti anni per arrivare dove era arrivata?
Quali rapporti dovevano intercorrere tra il primario e quella ragazza?
A queste domande la caporeparto rispondeva facendo maligne supposizioni che le riversavano veleno nell’anima. Certo “quella persona”, che doveva sicuramente ignorare le più elementari regole del galateo, era capacissima di invitare il suo superiore al bar Stella a sorbire il caffè più buono della città. Ma lui, lui di che poteva parlarle? Che cosa avrebbe potuto rispondergli la modesta infermierina, se non supplendo alla mancanza di preparazione con l’astuzia della provinciale, abituata da generazioni ad aguzzare l’ingegno per la sopravvivenza?
Ah, in quanto a scilinguagnolo, ne aveva da vendere! E pensare che Alessandra, nonostante rappresentasse il prototipo della perfetta signora, per le caratteristiche che possedeva e che aveva letto in Maupassant, e cioè finezza di lineamenti, gentilezza, eleganza innata, si era sentita tante volte davanti al suo superiore come il sarto del Manzoni al cospetto del cardinal Borromeo . E dire che lei si era letta anche Céline e quegli inquietanti romanzi autobiografici del medico- scrittore, mentre Rosaria probabilmente non aveva neppure sentito parlare della pedestre “Cittadella “ di Cronin. Semplicemente, Rosaria esercitava, senza remora alcuna, l’unica seduzione di cui disponeva: la giovinezza.
E Alessandra Risposi , che era prossima alla quarantina, sentiva che la lotta da condurre era impari. L’altra, anche se più ordinaria, poteva contare su un vantaggio schiacciante: l’età. Che significava incarnato liscio, tonicità di muscoli, capelli lucidi e pensieri frizzanti.
E per il chirurgo, abituato a vedere quotidianamente carne in disfacimento, l’aspetto sano e fresco di una donna, era l’unico balsamo da desiderare …
Alessandra, che finora aveva sublimato, evitando di oltrepassare la soglia sacra del consentito e ricacciato nella profondità del suo essere quel “dénouement”, che a volte la tentava, avvertì in questa particolare situazione che non avrebbe sopportato di sentirsi abbandonata da chi aveva provocato in lei una vertigine di sentimenti.
Decise perciò di “parlare” al suo primario per conoscere le ragioni del mutato comportamento, per capire perché , dopo anni di silenziosa intesa, lui le avesse voltato le spalle seminandole il gelo intorno.

Mancavano pochi giorni a Natale.
In reparto si respirava un’ atmosfera d’attesa e di festa. Le luci dell’abete, che illuminavano a intermittenza l’atrio dell’ospedale, suscitavano ricordi d’infanzia , di calde gioie domestiche.
Alcuni medici si preparavano ad andare in ferie. I turni erano già fissati. Molti pazienti erano stati dimessi. C’era un clima di vacanza.
Rosaria Floris aveva chiesto qualche giorno per tornare al sud a rivedere la famiglia.
Il chirurgo aveva fatto sapere che da Natale a Capodanno sarebbe andato in una località sciistica con la famiglia, rendendosi ovunque reperibile.
La caporeparto avrebbe aiutato il marito a fare le composizioni floreali, con le stelle di Natale, per distribuirle ad associazioni benefiche.
Tutto, insomma, seguiva i ritmi della normalità, fatta eccezione per la tempesta che turbinava nella mente di Alessandra la quale, alla prospettiva di un’altra lapidazione morale, che l’anno nuovo sembrava riservarle, si sentiva morire.
Riandava con la memoria ai primi tempi del sodalizio con il neo chirurgo, quando lui le offriva sincero il viso luminoso: “ Alessandra, il paziente è anziano…potrebbero insorgere delle complicanze…dobbiamo prendere tutte le precauzioni…” “Alessandra , questa è la nostra vita…”.
“Questa è la nostra vita”… Galeotta complicità delle parole.
Poi, lui aveva consolidato i propri connotati interiori, si era trovato circondato da mille persone, in parte adulatrici in parte sinceramente ammirate, la sua personalità si era fatta mito, e quelle attenzioni autentiche a lei riservate erano diventate formalità, ripetitivo frasario attinto dal deposito dei luoghi comuni…sì, certo, doveva essere così.
Alessandra adesso si sforzava di rammentare i momenti in cui lui aveva esplicitato, seppure in maniera impercettibile, senso di fastidio, indifferenza, insofferenza nei suoi riguardi. E le pareva di poter dare a certi atteggiamenti, che ora le si stagliavano nitidi nel ricordo, una interpretazione diversa da quella fino a quel momento attribuita.
Considerava che c’era stato più di un rimpasto dell’organico infermieri; erano subentrate tante facce nuove, la gestione si era fatta più complessa , soffocata dalla burocrazia tentacolare che sembrava annientare anche i rapporti umani. Non c’era più tempo per commentare sugli esiti delle operazioni o sugli stati d’animo del personale che operava. Tutto doveva essere prodotto, effettuato, con la meccanica efficienza dei robot le cui peculiarità influenzavano l’agire umano. Tutti andavano di fretta, presi dal precipuo obiettivo di dover selezionare ciò che era necessario. Anche il chirurgo sembrava piegato alle necessità che i tempi nuovi imponevano. Alessandra adesso trovava nel professore conformismo, cedimento. Non le sembrava più che percorresse, come faceva prima, strade poco battute. Non si batteva per sostenere un ideale. Si adeguava al tran tran della vita ospedaliera, frenetica e soffocante, attento sempre, però, a imporre il proprio potere seduttore: forse perché “il miglior tempo della sua vita andava passando e declinando”.
La ferrista soppesava i rapporti instaurati con Rosaria Floris e con le altre, che dimostravano come anche lui si fosse fatto prendere da “smanie insane”.
Così si comportavano tanti, che sentivano il dovere,cioè il piacere, di abusare del proprio ruolo…
E quelle voci che circolavano sui suoi trascorsi da dongiovanni ora trovavano conferma…In fondo lei stessa l’aveva definito faustiano…
Dunque, incapace di sopportare, pensò che avrebbe cercato nell’esternazione un conforto , pur sapendo di dover attentare alla propria immagine.
Sì, Alessandra Risposi stava per squadernare i suoi sentimenti al suo superiore, anche a costo di perdere dignità e onore.
Era la vigilia di Natale.
Il giro pomeridiano delle corsie, appena terminato. Della Corte si attardava con il personale a prendere gli ultimi accordi della giornata .
Alessandra attese che uscisse .E finalmente il chirurgo sgusciò fuori dalla sala infermieri. Percorse il corridoio e si ritirò nel suo studio.
L’infermiera lo seguì, si accostò a “quella” porta. Bussò ed entrò.
Il Primario era seduto a tavolino. La penna tra le mani, lo sguardo assorto.
-Ah, Alessandra è lei! Non mi dica che c’è un ‘ urgenza! Non mi rovini il Natale!”. La voce era pacata e accogliente. Continuava a scrivere qualcosa .
Alessandra deglutì faticosamente e, rigidamente, con il cuore che le pulsava nelle orecchie:
-No , nessuna urgenza – sbottò- vorrei solo parlarle, professore- aggiunse abbassando gli occhi.
-Sì, mi dica- le rispose lui attento, fissandola.
Il silenzio che seguì era di piombo e lei stava per riempirlo con un discorso che avrebbe cambiato i loro rapporti. L’infermiera si sentì raggelare ed ebbe per un attimo la tentazione di fuggire via.
Ma era pietrificata.
- Lei mi ha delusa – gli disse senza preamboli- Lei mi ha delusa, perché la credevo amico e confidente e invece ho capito che mi è lontano ed estraneo. Lei si è premurato di conquistare il mio consenso per ottenere impegno, collaborazione e affetto da parte mia e poi, indifferente alla mia dedizione e forte del suo potere, quando si è presentata una “nuova occasione”, non ha esitato a “guardare altrove”. Tanto una persona vale l’altra! Anzi, vale di più chi è più giovane! - e qui si arrestò in un gemito straziato.
Della Corte aveva ascoltato con composta partecipazione lo sfogo . Era meravigliato, ma cercò di non darlo a vedere. Davanti a lui stava una persona che soffriva e che si mostrava in tutta la sua fragilità.
Una persona apparentemente granitica che era malata di lavoro, che forse rischiava di confondere la realtà con l’immaginazione, a causa anche di quelle parole che lui aveva usato e che dovevano aver identificato delle emozioni. Le donne , si sa, subiscono più degli uomini il potere della parola.
-Mi spiace di averle dato questa impressione, Alessandra - le rispose con tono fermo e comprensivo -devo aver sbagliato in qualche cosa e le chiedo scusa. Ma credo che per me non sia cambiato nulla. La stimo e la considero fraternamente un’amica. Mi permetto solo di ricordarle che il nostro mestiere è fatto di donazione ed è in questo senso che ci muoviamo, è in questa direzione che deve marciare l’ ospedale. Perciò non dobbiamo escludere nessuno e valorizzare tutti, anche gli ultimi arrivati. Se coloro che prestano il loro servizio qua dentro, si sentono apprezzati e considerati, lavorano più volentieri e le cose funzionano meglio. Lei lo sa e può far tanto. Quindi chiedo proprio a lei, che ha tanta esperienza, quella collaborazione cui prima accennava..
Alessandra si sentì mancare. La risposta era impeccabile, nobile, perfetta. Era adeguata alla situazione, rappresentava l’idea che l’infermiera, in tanti anni, si era fatta dell’uomo che l’aveva pronunciata.
Non le rimaneva che accettarla per verità, chiedere scusa, se non voleva attirarsi il ridicolo addosso.
Il dubbio continuava a sfiorarla, ma si rendeva conto che aveva messo delle pretese sul medico,e che lei avrebbe voluto un rapporto esclusivo che , purtroppo o giustamente, non era possibile. Si convinceva che se avesse insistito nell’assumere un atteggiamento accusatore, lui avrebbe preso veramente le distanze. E allora sì che l’avrebbe perduto per sempre.
-Mi dispiace-disse lentamente -lei ha ragione. Deve essere la stanchezza…mi toglie l’obiettività-.

Mortificata, rimase immobile in piedi davanti alla scrivania del chirurgo con gli occhi bassi e le braccia abbandonate lungo i fianchi.
-Venga – le disse il medico d’impulso - la invito al bar a prendere il caffè! E non sia troppo severa con se stessa !.
Alessandra decise meccanicamente che non poteva rifiutare. Indossò il soprabito, dopo averlo tolto dall’armadietto dello spogliatoio, e seguì il primario come un automa.
Bevve il caffè al bar e si compiacque di tener testa alle battute di Della Corte, chirurgo stimato e riverito da medici e pazienti.
Tornando al Policlinico, passò davanti al presepe, che era stato allestito accanto all’albero di Natale, e le parve che il Bambino, morbidamente adagiato nella mangiatoia, la guardasse sorridendo.
Alessandra pensò che il caffè del bar Stella meritava tutta la sua fama e che in futuro l’avrebbe gustato volentieri con gli altri.


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