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La gerla

di Nilla Licciardo
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Pubblicato il 20/04/2019 12:00:00

 

La vita vince sempre, niente riesce a fermarla, nemmeno la guerra. Questo pensava Agnese, mentre con mosse esperte si accingeva a superare l’ultimo costone roccioso che la separava dall’accampamento militare, in cima al monte Lastroni. La primavera stava arrivando, la sentiva nell’aria, la annusava anche lassù, tra le cime ancora innevate.
Quel mattino, prima di incamminarsi verso il fronte con le altre portatrici, alla luce incerta della lanterna aveva scorto un croco, ben dritto sul suo stelo, sul prato ancora invaso dal ghiaccio. Si era fermata a guardarlo, mentre l’orizzonte iniziava ad arrossarsi dietro le creste del Chiadenis. Era il primo che vedeva quell’anno: anche tra la desolazione e la morte, tra la fatica e la miseria, la vita continuava a sbocciare. Quell’inverno del ’17 era stato lungo e terribile: il gelo e la neve avevano invaso ogni cosa, i campi, le strade, le trincee, le uniformi dei soldati e i cuori della gente. Ma sarebbe arrivata di nuovo la primavera, e con lei una nuova speranza.
Era spuntata da poco l’alba e insieme alle compagne si inerpicava sul sentiero che dalla piana di Sappada conduceva alla linea delle trincee. Conosceva quel percorso così bene che avrebbe potuto farlo a occhi chiusi, mettendo un piede dopo l’altro ora su una pietra, ora su una radice.
La gerla di vimini che aveva sulla schiena era colma di indumenti e uniformi asciutte da consegnare ai soldati; le altre donne portavano cibo, rotoli di filo spinato, attrezzi vari per riparare le trincee. Agnese, coi suoi sedici anni, era giovane e robusta e non si sottraeva alla fatica, a cui era avvezza fin da bambina. Il carico che aveva sulle spalle le pareva leggero, ma sapeva che avrebbe cominciato a pesare sempre più, man mano che si fosse avvicinata alla cima. Le donne si mettevano in cammino col buio, per evitare di esporsi ai cecchini nemici, sparsi tra le montagne, e il tratto iniziale era il più rischioso. A volte si affiancavano ai mulattieri, che tiravano le bestie oberate dai pesanti basti.
Da quando faceva la portatrice, Agnese si alzava ogni mattina alle cinque, falciava il foraggio nel prato dietro casa e aiutava sua madre ad accudire le bestie. Poi indossava la gonna più corta che aveva, vi avvolgeva sopra il grembiule, si annodava il fazzoletto sulla nuca e calzava gli zoccoli di legno sulle calze grosse. Aveva accettato quell’incarico con entusiasmo, orgogliosa di rendersi utile e di portare a casa una lira e mezza al mese, come un soldato. Suo padre poteva essere fiero di lei e smetterla di rimpiangere quel figlio maschio che non aveva mai avuto. Con lui al fronte, a casa erano rimaste tutte donne: lei, la madre, due sorelline piccole e la vecchia nonna.
Durante la salita ogni tanto il gruppo si fermava per fare una sosta. Margherita, la capo gruppo, dava la voce e tutte si raccoglievano dietro gli alberi, si sfilavano le gerle, si rifocillavano. Qualcuna tirava fuori il lavoro a maglia, qualcuna il rosario, qualcun’altra intonava una canzone. Poi si rimettevano in cammino, mentre il sole sorgeva alto rischiarando il profilo aspro dei monti alle loro spalle. Per arrivare all’accampamento ci volevano quasi tre ore e le capitava a volte di sentirsi sfinita. Avrebbe voluto riposarsi ancora, recuperare il fiato. Poi pensava ai soldati lassù al freddo e si faceva forza: la sua fatica non era niente in confronto alla sofferenza di quegli uomini, giorno e notte a combattere contro la neve e il gelo, nemici peggiori degli austriaci.
Ora pensava a quel soldato timido dagli occhi neri che le sorrideva sempre e che un giorno, con la sua parlata strana, le aveva raccontato del suo paese, giù al sud, dove fiorivano gli aranci in riva al mare. Che cosa assurda, trovarsi a combattere insieme a gente che veniva da tanto lontano contro un nemico che fino a ieri era amico e vicino di casa.
All’arrivo dei primi soldati, il maggio di due anni prima, qualcuno aveva creduto di trovarsi sul fronte nemico, perché a Sappada si parlava tedesco, ma si erano presto ricreduti, vedendo il patriottismo dei sappadini. Anche suo padre, emigrato in Germania, era rientrato in fretta per arruolarsi volontario tra gli alpini. Diceva che era una guerra giusta, che sarebbe durata poco e che tutti dovevano fare la loro parte per la salvezza del paese. Sua madre un giorno aveva ribattuto che non esistono guerre giuste e che per lei i soldati austriaci erano bravi ragazzi, tanto quanto i nostri, e
non aveva senso ammazzarsi tra fratelli. Agnese la pensava come sua madre e come la maggior parte dei suoi compaesani, che non avrebbero mai voluto entrare in guerra. Detestava certe sue compagne, che prima si trovavano sempre in canonica a parlare di pace e amore e poi si erano fatte imbottire la testa dagli interventisti. Adesso passavano ore a sferruzzare passamontagna e scapolari per i soldati, orgogliose di contribuire allo sforzo bellico.
Erano finalmente arrivate al fronte. Agnese posò la gerla e respirò a fondo, lasciando spaziare lo sguardo tutto intorno, sulla magnificenza delle vette che la circondavano. Di fronte a loro la roccia bianca del Peralba, il gigante alla cui perdita non ci si era ancora rassegnati, risplendeva al sole. Dalla sua sommità occhieggiavano minacciose le postazioni delle artiglierie nemiche, dominando la valle in ogni direzione. Ogni tanto il suo occhio era attirato dalla chiazza di un’insolita fenditura nella roccia. Durante l’ultimo anno di quella estenuante guerra di posizione i soldati avevano impiegato le loro energie a scavare caverne e cunicoli, che sarebbero serviti da riparo contro le intemperie o da ricovero per armi e munizioni. Agnese si chiedeva se anche gli austriaci, dall’altra parte del fronte, avessero fatto la stessa cosa. Dopo migliaia di anni, la crudeltà di quel conflitto sarebbe riuscita a lasciare ferite indelebili perfino sull’immobile sacralità della montagna.
Dopo aver consegnato il materiale ed essersi un po’ rianimate, erano state fatte chiamare dal capitano.
«Ragazze, oggi avete un triste incarico. Ci sono dei morti e dei feriti da accompagnare all’ospedale da campo.»
«Cos’è successo?» chiese Margherita, seria, le mani sui fianchi e la bella testa ricciuta, guardando dritto negli occhi il capitano. Aveva venticinque anni, era sicura di sé e salda e come una roccia e godeva di tutta l’ammirazione di Agnese.
«Un drappello stanotte ha tentato di avvicinarsi al Peralba, - rispose il capitano - ma sono stati travolti da una valanga. Abbiamo scavato per ore per recuperare i corpi.»
Dei fagotti grigioverdi giacevano sul bordo della trincea, legati alle barelle. Agnese gettò loro uno sguardo di compassione. Quando si avvicinò l’ora della partenza i morti vennero attaccati per primi ai muli, poi arrivarono i feriti, visi lividi e sofferenti che sbucavano dalle coperte. Le parve di riconoscerne uno; chissà se i suoi occhi neri sarebbero ancora riusciti a vedere gli aranci in riva al mare.
La primavera era passata, e anche l’estate era ormai un ricordo. L’ottobre aveva rivestito la valle delle calde sfumature dei larici, che macchiavano di giallo e di rosso le pendici dei monti.
Agnese si preparava a uscire, quando sentì qualcuno bussare con insistenza alla porta. Corse ad aprire: era Margherita, l’aria concitata, il respiro affannoso.
«Agnese, non saliamo al fronte più con le gerle! Il nemico ha sfondato a Caporetto, l’esercito è in ritirata!»
«Oh, mio Dio! E adesso?»
«Bisogna sgombrare, tutti scappano! Preparano i carri, caricano poche cose e partono con l’esercito. Gli austriaci stanno arrivando!»
Si era affacciata anche la madre, con le sorelline attaccate alla gonna. In strada era caos ovunque, bambini che piangevano, gente che si affannava di qua e di là trascinando animali e masserizie, soldati affaccendati a smontare tende e a trasportare armi e munizioni.
«Ma come si fa a partire così, abbandonando la propria casa in mano al nemico?»
«Partiamo anche noi, - rispose Margherita - dicono che è meglio non farsi trovare, sono feroci, si accaniscono sui civili, ... siamo in guerra Agnese. Faremo i profughi, che Dio ci assista... che protegga anche voi, addio!» e si allontanò svelta.
«Madre, che facciamo?» chiese Agnese, agitata.
«Resteremo. La nostra vita è qui: la casa, il podere, quei pochi animali che l’esercito ci ha lasciato. E poi, senza tuo padre e con la nonna malata, dove vuoi che andiamo?»
Agnese piangeva come una bambina tra le braccia della madre, e le sorelline spaventate le facevano eco. La donna cercava di tranquillizzarle.
«Calmatevi, cosa volete che ci succeda? Non ci faranno del male: i soldati austriaci non sono né più buoni né più cattivi dei nostri. Sono anche loro dei poveri ragazzi a cui hanno messo in mano un fucile. Se avessero potuto scegliere, nessuno di loro avrebbe voluto questa guerra, proprio come noi!»
Dopo qualche giorno erano arrivati. I soldati che si aggiravano ora per le strade di Sappada avevano uniformi diverse e una luce più dura negli occhi. Tra la gente rimasta in paese c’era un senso doloroso di paura e d’inquietudine. Le donne andavano ancora alla fontana a prendere l’acqua con le secchie appese allo zampdon, il bastone ricurvo in uso nel Comelico, ma non si fermavano più a chiacchierare. Se ne tornavano svelte a casa, anche se un proclama del comando austriaco intimava di lasciare la porta sempre aperta: i soldati dovevano poter entrare in qualsiasi momento, per controllare, reclamare cibo o requisire animali. Gli spacci e le rivendite alimentari allestite dall’esercito erano deserte, il cibo scarseggiava.
Agnese, camminando per la borgata, aveva visto un gruppo di soldati entrare in una cascina abbandonata dai profughi. Dalla porta aperta li aveva sentiti ridere mentre rompevano stoviglie e frugavano ovunque. Si era fermata a guardarli, chiedendosi perché si comportassero a quel modo. Misurava con disagio la propria incapacità di distinguere tra il concetto di uomo e quello di nemico. Quei due anni di guerra erano finora stati per lei e la sua gente una grande avventura anche umana. Nonostante la drammaticità degli eventi avevano compreso nel profondo cosa significava essere italiani. Si erano abituati al rispetto, alla tolleranza e alla compassione attraverso la convivenza con i soldati, tutti brava gente, figli, fratelli, padri lontani dalle proprie case, che avevano trovato in mezzo a loro un po’ di calore. Erano nate storie d‘amore con ragazze del paese. Anche una sua cugina, la Elda, si era fidanzata con un soldato abruzzese. Erano sorte belle amicizie tra gente che parlava dialetti diversi, ma che si trovava unita nella stessa avventura.
Ma cosa c’era di diverso adesso? Non erano forse tutti ugualmente uomini quei soldati, anche se portavano il berretto di un’altra foggia?
Camminando assorta per strada era quasi andata a sbattere contro un militare che arrivava in senso opposto. Lui l’aveva evitata prendendola per un braccio e aveva riso divertito, sotto i baffi biondi: «Stai attenta, ragazza!»
Si era divincolata, mentre lui le lanciava un’occhiata strana, vischiosa. Era scappata via vergognandosi, senza capire il perché. Non si era mai sentita così addosso lo sguardo di un uomo. Era convinta di essere brutta, così magra e asciutta, così diversa dalle donne dai fianchi morbidi raffigurate sulle cartoline che i soldati tenevano sotto il materasso. Si era girata a guardarlo e anche lui si era girato, per vedere dove si dirigeva.
Qualche giorno dopo stavano ancora mangiando quando avevano sentito avvicinarsi degli uomini. Un colpo sulla porta. Agnese era corsa ad aprire e si era trovata davanti un gruppo di soldati, tra cui un ufficiale dall’uniforme luccicante di mostrine. C’era anche il militare in cui si era imbattuta giorni prima. Si fece da parte e con gentilezza li invitò ad entrare, ma dal tono troppo alto della loro voce e dalle loro risate sguaiate si rese conto che non era una visita amichevole.
“Wein, Wein...”, chiedevano, ma dal puzzo del loro fiato, di vino dovevano averne già bevuto parecchio. «Kein Wein, nein, niente vino!» si intromise la madre, allarmata, notando gli sguardi che rivolgevano alla ragazza e i cenni di intesa. Risoluta, si precipitò sulla figlia e la spinse verso la porta strillando:
«Scappa Agnese, scappa!»
Agnese scappò, evitando una mano che tentava di afferrarla. Corse veloce come un capriolo, col cuore che le saltava in gola, udendo dietro di sé le urla della madre, le risa dei soldati, il pianto delle bambine che urlavano «Mamma, mamma!».
Girato l’angolo della casa entrò nella stalla e si rintanò in un angolo del fienile. Si trovò accanto la gerla, la capovolse e ci si infilò dentro, raggomitolata. Dopo qualche minuto sentì un calpestio, come di qualcuno che andava e veniva. Attraverso l’intreccio della gerla vide la porta che si apriva, il chiarore della luna nel cielo di novembre, una mano che reggeva una lampada e una debole luce che rischiarava ora il recinto delle mucche, ora il deposito del fieno. Provò il terrore dell’animale braccato e temette di essere tradita dal battito del proprio cuore. Si chiese come fosse possibile, solo per aver passato il valico, dimenticarsi di essere uomini. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi, recitando un’Ave Maria, finché sentì la porta richiudersi. Rimase a lungo immobile, per un tempo che le sembrò infinito, fino a che il dolore alle gambe la costrinse a muoversi. Dalla gerla sbucarono fuori pian piano i suoi piedi, prima uno, poi l’altro, avvolti nelle scarpet di panno nero, su cui sua nonna aveva ricamato due stelle alpine.

 

 

Premio Letterario Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, V edizione 2019, Opera prima classificata nella sezione B (Racconto breve inedito) ]

 

 


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