Rimanendo esposti alla visione
dell’incanto, senza divorarlo,
sconfiniamo nel convento di una pelle
che si muta in isabella e palomino,
con le orecchie, le antenate di ogni passo,
che si librano confuse nel destino
del ventre di una madre- calamita,
la medica che ha fame della pioggia,
per far dono di altra vita. Ed è la prima
ad uscire allo scoperto dalla grotta
ospitando il seme lucido nel vuoto
iscritto nel suo corpo, come un Dio-
quando cerca, sul filo della voce,
il suo amato dal volto inconosciuto
danzando fra pascoli e deserti
per l'ingenua meraviglia di intrecciare
il nudo e la splendenza dei suoi occhi.
Nel cedimento all’estasi più bella
non altro, con la lingua delle messi,
che un odore di verbena sull’altare
di betulle, fieno greco e ribes bianco -
come il canto di qualcuno che ha nel seno
tutta l’aria immaginata- che trabocca
in sacrificio, nel perfetto di chi brucia
totalmente per offrire in una danza
il midollo del suo utero splendente -
che ha nome antico di misericordia -
fino al rosso genuino del contatto,
alla saliva che illumina l’incontro,
e, dolce più del vino, la sua pioggia.
Nell’ora più preziosa ci tocchiamo
con le mani che vanno nel profondo,
allo spiraglio della mandorla di luce,
dove i nostri templi sono aperti
visitati dal sole nella bocca
e tra le gambe, è il nuovo nato, che si allunga
combaciando le porziuncole di pace
in giardini di acqua e sangue, terra franca,
che riluce e ci fa mondi, benedetti
nell’eterna eucaristia. Dei nostri corpi
è questo il desiderio di consegna?
come il volto cristallino di un morente
che si affida al proprio cielo silenzioso?
o il neonato inerme alla sua terra?
Le acquenostre - che perdita stupenda!-
se consegnano in un riso l'impotenza
sussurrando: chi non perde la sua vita
non fa salvo quel respiro che si versa
sulla soglia sempre umida del cuore.

Disegno Sofia Rondelli