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Postilla

di Mariano Bonato
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Pubblicato il 07/02/2019 04:48:06

 

Il XXI secolo è cominciato

come il secolo breve è finito,

con la specie umana divisa in due,

da una parte i baristi e i camerieri,

dall'altra i proprietari dei muri e i clienti,

a sorseggiare cuba libre col morto

su qualche spiaggia al tramonto,

mentre le ragazze truccate di Bahia

sorridono tristezza dalle hall degli hotel

aspettando che un grasso cliente

finisca la sua frittura di gamberi.

Si vende e si compra di tutto,

per sopire vuoti alimentari

e per alimentare sfrontate ricchezze;

perfino le banane, come scimpanzé.

Ma quando venne l'11 settembre,

e zanzare cresciute a dismisura

punsero il cuore dell'America,

nella prima estinzione di massa

dello skyline di Manhattan,

biliardi di dollari insanguinati

da deliri di potenza hanno spezzato

i fili invisibili, hanno sepolto

le emozioni con i corpi dissolti,

sigillato per sempre i pensieri

nella morsa di acciaio e cemento

delle bare piovute dal cielo.

Medioevale follia criminale

di piccoli insetti emuli dei mostri

più sanguinari del novecento...

ma si sapeva che il dollaro e il petrolio

sono quotati alla borsa di New York,

come in tutte le borse della globalizzazione,

molto più del sangue umano.

Non il sangue blu del principe

o quello un po' viola di vassalli, valvassori

e valvassini; ma il sangue rosso comune

dell'uomo che conosce la fatica di vivere,

il sangue di chi vende il suo rene

perché un compratore benestante e disperato

possa finalmente pisciare senza dolore

(perché la qualità della vita è importante...),

o il sangue del picano diventato nero

a furia di ingurgitare asbestosi nei polmoni.

Così il conto dei morti non torna

e non potrà mai tornare.

Anche i contadini dei sobborghi di Dhaka

sono sepolti dai monsoni

sotto gli argini spietati della terra,

mentre il mare di Sicilia

è un'urna sconfinata che scintilla.

La vita ridotta a sdentata paccottiglia

che si vende e che si compra,

questa è la cruda confessione di impotenza

dell'essere che è per la morte

e dei suoi deliri di potenza,

con le palpebre pesanti e la corona

di spine che cinge il capo di qualcuno,

mentre qui c'è il solito trambusto

di chi alza di scatto le tapparelle all'alba

pensando di non turbare il sonno di nessuno,

o di chi si appresta a sorbire il caffè

per allontanare dalla testa quel cerchio

fastidioso di sonno rubato.

Aspetterò che si finisca di contare i morti

prima di salire al giardino di Getsemani.

Aspetterò che dall'alto piova manna

al posto della neve; rannicchiato, intirizzito

tra i cartoni in un buco d'inverno del metrò.

Che pompieri e poliziotti, medici

senza frontiere e angeli della città,

tra gli sguardi riottosi di pasciuti benpensanti,

raccolgano i pezzettini di carne sparsi

prima che i cani randagi li divorino

o che imputridiscano tra i cenci e le pulci

nei covi degli sconnessi da ogni web,

disperati senza terra e senza conto in banca.

Aspetterò come un San Pietro sulla porta

che, col sangue, si riversino fiumi di parole vuote

nell'incomprensibile immensità dell'universo.

Alla fine non sarò io, no, non sarò io

a giudicare le spade innalzate al cielo

come monumenti di preghiera o di bestemmia

da schiere umane di figuranti passeggeri,

controfigure di angeli e demoni,

nei secoli dei secoli.

 

 


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