Il XXI secolo è cominciato
come il secolo breve è finito,
con la specie umana divisa in due,
da una parte i baristi e i camerieri,
dall'altra i proprietari dei muri e i clienti,
a sorseggiare cuba libre col morto
su qualche spiaggia al tramonto,
mentre le ragazze truccate di Bahia
sorridono tristezza dalle hall degli hotel
aspettando che un grasso cliente
finisca la sua frittura di gamberi.
Si vende e si compra di tutto,
per sopire vuoti alimentari
e per alimentare sfrontate ricchezze;
perfino le banane, come scimpanzé.
Ma quando venne l'11 settembre,
e zanzare cresciute a dismisura
punsero il cuore dell'America,
nella prima estinzione di massa
dello skyline di Manhattan,
biliardi di dollari insanguinati
da deliri di potenza hanno spezzato
i fili invisibili, hanno sepolto
le emozioni con i corpi dissolti,
sigillato per sempre i pensieri
nella morsa di acciaio e cemento
delle bare piovute dal cielo.
Medioevale follia criminale
di piccoli insetti emuli dei mostri
più sanguinari del novecento...
ma si sapeva che il dollaro e il petrolio
sono quotati alla borsa di New York,
come in tutte le borse della globalizzazione,
molto più del sangue umano.
Non il sangue blu del principe
o quello un po' viola di vassalli, valvassori
e valvassini; ma il sangue rosso comune
dell'uomo che conosce la fatica di vivere,
il sangue di chi vende il suo rene
perché un compratore benestante e disperato
possa finalmente pisciare senza dolore
(perché la qualità della vita è importante...),
o il sangue del picano diventato nero
a furia di ingurgitare asbestosi nei polmoni.
Così il conto dei morti non torna
e non potrà mai tornare.
Anche i contadini dei sobborghi di Dhaka
sono sepolti dai monsoni
sotto gli argini spietati della terra,
mentre il mare di Sicilia
è un'urna sconfinata che scintilla.
La vita ridotta a sdentata paccottiglia
che si vende e che si compra,
questa è la cruda confessione di impotenza
dell'essere che è per la morte
e dei suoi deliri di potenza,
con le palpebre pesanti e la corona
di spine che cinge il capo di qualcuno,
mentre qui c'è il solito trambusto
di chi alza di scatto le tapparelle all'alba
pensando di non turbare il sonno di nessuno,
o di chi si appresta a sorbire il caffè
per allontanare dalla testa quel cerchio
fastidioso di sonno rubato.
Aspetterò che si finisca di contare i morti
prima di salire al giardino di Getsemani.
Aspetterò che dall'alto piova manna
al posto della neve; rannicchiato, intirizzito
tra i cartoni in un buco d'inverno del metrò.
Che pompieri e poliziotti, medici
senza frontiere e angeli della città,
tra gli sguardi riottosi di pasciuti benpensanti,
raccolgano i pezzettini di carne sparsi
prima che i cani randagi li divorino
o che imputridiscano tra i cenci e le pulci
nei covi degli sconnessi da ogni web,
disperati senza terra e senza conto in banca.
Aspetterò come un San Pietro sulla porta
che, col sangue, si riversino fiumi di parole vuote
nell'incomprensibile immensità dell'universo.
Alla fine non sarò io, no, non sarò io
a giudicare le spade innalzate al cielo
come monumenti di preghiera o di bestemmia
da schiere umane di figuranti passeggeri,
controfigure di angeli e demoni,
nei secoli dei secoli.
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