È un contenitore di serie a parente.
Non so dire se sia una cella: non ho lenti
capaci di trapassare vestiti
e carni; e scoprire come di battiti
nel torace. Quindi mi informo di uno
per altro e raduno
memorie in cui tirare il fiato
e basta. Duro a dirlo, ma sono ignoto
e dell’ignoto conosco il vuoto.
Sapete, cerco un appiglio dov’è appeso il lume
la china che sappia fare volume
o che porti un piccolo segnale:
- ehi ehi, sono quiiiiiiiii… (la “i” è lunga per un vizio dialettale).
Date le circostanze attuali, rispondo agli echi,
ormai abbandonati in favore dei like.
Siamo voci singolari in uno spazio singolare,
su di un pianeta che pare di pari, ma non lo è, però pare
singolare, una serra più fragile dei petali che protegge.
La mia guardia del corpo è lo spirito che regge
la resa a parole. Parole maratonete
che come Bikila sentono la sete
quando corrono scalze all’orecchio lunato
senza mai lasciare il ventre provato
- un baco che non si libera del bozzolo
e solo per brevi tratti si coglie a volo.
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