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Saggi, razzi e sproni

Argomento: Poesia

di Manuel Paolino
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Pubblicato il 15/11/2016 15:42:30

 

Saggi, razzi e sproni

 

 

Fino alla teoria dei tre simulacri

 

Poesie fatte di versicoli, prive di rime, prive di punteggiatura, composte da parole, scolpite, levigate, semplici, attirate verso il basso come dalla gravità. Perché umane. Poesie fatte di suoni ed armonie, di metafore ardite; e ancora d’amore, di sogni, d’elementi e di consapevole sofferenza. Liriche che riflettono su se stesse e sul proprio essere, dentro ad un intenso universo poetico fantastico e segreto, visionario e romantico. Un mondo d’Altrove da cui misteriosamente – anche per il poeta stesso – trae origine l’ispirazione: dimensione artistica in cui realtà e sogno, poeta e poesia, si plasmano confondendosi in un’unica sensibile esistenza.

 

Una delle cose che penso di aver capito fin qui è che se la poesia diviene un potere dell’uomo/poeta, capace di carpire lo spirito della Musa dai luoghi, dalle storie, dalle cose nello spazio attorno, è perché costui, scelto da quell’ignoto dove le stesse parole vengono forgiate, liberate, e verso il quale sempre sarà istintivamente sospinto, è passato per un addestramento fatto di innumerevoli possessioni, subitanee, inattese, alle volte attese. Il poeta si trasforma non soltanto in un essere umano con un dono, ma in un uomo speciale che utilizza un dono a seconda della propria volontà, in sintonia con la Musa. In questo senso sì, allora, egli può essere paragonato ad un veggente

 

Un dialogo può essere un monologo fra due cori quasi identici; un racconto caraibico; una scena tra le fibre di un sogno che non si slegano fino all’ultima panoramica; uno scambio fugace di battute fra due amici, semplice e profondo. Nella poesia non si vede spesso, eppure questo stile non sarà certamente sfuggito a molti lettori. La poesia è un dialogo, un dialogo con chi legge, alle volte oscuro, autoreferenziale, diretto verso lo stesso poeta, del poeta. Ma esisterà sempre un lettore in ascolto, oggi, o fra cent’anni. Tuttavia ci sono casi in cui la poesia per necessità si sente sensibile alla pressione esercitata dell’emersione di una forma espressiva più pura, sorella della prosa, ma non gemella. Ecco allora nascere delle liriche assolutamente uniche, dove il dialogo che si svolge all’interno dei versi esibisce spesso s’una passerella i confini del sogno, di una scena, di una sceneggiatura che s’anima all’infinito nella mente e nella vita del poeta, e che acquisisce invece un respiro autentico negli occhi dello spettatore.

Vediamo cinque esempi tratti da miei lavori, in uno dei quali la voce del poeta diviene cantilena extradiegetica, per poi mutare in un lamento femminile. Mediante un raccordo la protagonista compare ravvicinata alla visione del lettore, in primo piano, e con il suo monologo scandito[1]; la voce del poeta può diventare anche quella di un narratore invisibile, realista, che introduce e sospinge liricamente dei puri dialoghi in forma di versi, tra le pennellate di un dipinto in movimento[2]; oppure può comparire come una personale testimonianza onirica[3]; o scorrere nei riflessi di una filastrocca infantile e notturna[4]; infine, il poeta tramuta ancora la sua voce in scrittura volta alla descrizione d’un incontro e di una separazione amichevoli. E di un’unione stilistica[5].

 

Vorrei cominciare con voi lettori un breve viaggio, accompagnati da alcune mie poesie, per provare a tirare delle somme una volta individuata la direzione e forse la meta di questo cammino.

Mi è capitato in passato di scrivere liriche soffermandomi sulla definizione di poesia e di poeta, tradotta con una ricerca sospinta dai versi figli dell’ispirazione; il dettato spirituale, che pone sull’attenti ogni poeta, o almeno così dovrebbe. Devo precisare tuttavia, a questo proposito, che il mio percorso poetico si è diviso in due fasi, la prima delle quali legata a questo concetto di poesia che cade dal cielo, la seconda inerente ad una poesia nelle mani del poeta, dove mediante quei luoghi sepolti che usai simbolicamente per affermare la riscoperta di una nascita – prima sommersi e in seguito fatti riaffiorare grazie al consapevole dono del poeta – mi ritrovai di fronte ad un nuovo corso.

Restando per il momento dentro la prima fase, ecco comparire attraverso dei versicoli scarni, nudi, attirati chiaramente verso il basso dalla gravità – come delle pietre gettate in aria – i primordiali effetti della musa, concessa al mio sguardo in alcune penombre con pochi vestiti a ricoprirle il corpo[6]; anche il personale ruolo del poeta, nella genesi della mia visione inizia a definirsi[7].

Abbandonati i versi lapidari ed entrato a stretto contatto con molti poeti quali Poe e Baudelaire, alla mia ossessione per la purezza poetica individuata nella poesia pura – quella che comincia proprio da questi e si evolve fino ai poeti maledetti del simbolismo francese, si contorce nell’oscurità mallarmeana e nell’ermetismo italiano (ma si manifesta davvero trasparente ne L’allegria di Ungaretti), fino ad approdare ai poeti cubani e a quelli dominicani della poesia sorprendida, passando per la Generazione del ’27 spagnola – si associa di pari passo un’indagine più approfondita, mediante quella veggenza, che assimilo e rielaboro con una definizione, cioè ricerca in direzione della Luce.

Definisco il mio viaggio come ermetico, fatto di iniziazioni, dove il protagonista è Ateop, o Leunam (personaggi di alcuni miei momenti poetici), insomma il poeta. Un viaggio avviato in un tempo lontano: quando da critico cinematografico analizzavo il blues, i suoi testi, e i film che il blues aveva ispirato. Il canto dei neri ha saputo diventare vera poesia (o forse lo era già), con la poesia negrista antilliana, per esempio.

Ma sto divagando. Cosa centrano insieme la voce di un uomo di colore, la veggenza rimbaudiana, ed Ermete Trismegisto? Forse c’è di mezzo Dio, Padre o Madre che sia. Da dove nasce questo desiderio di confrontarsi con il divino? Forse dal volere inconscio del poeta di avvicinarsi, senza far rumore, a lui, allontanandosi al medesimo tempo[8].

Ma per quanto provi a farlo, per quanto cerchi di avvicinarsi a Dio, il poeta non potrà che manifestare un amore e allo stesso tempo una ribellione nei confronti di qualcuno che sente d’amare, senza però volere rinunciare a un solo briciolo della propria umanità; perchè se Ermete nel Corpus hermeticum afferma, come pure molte religioni, che l’uomo è Dio e tale deve coscientemente essere per dimorare un giorno al suo fianco, il poeta, da parte sua, sostiene invece che è Dio a dover essere uomo[9]. La risposta di Ermete non tarderà ad arrivare; si concluderà con un’ultima domanda, che sarebbe sconvolgente ai fini della ricerca del poeta se non fosse che essa risuona alle sue orecchie come una eco sempre più dispersa[10].

Ma il viaggio del poeta puro non è finito, ed anche se egli s’agita nella sua purezza umana, è piccolo di fronte a Dio, è un suo servo; come Dio, immenso, è servo del poeta; ancora di più perché questo non rinuncia ai suoi vizi e ad amare l’infinito limite dell’aldilà, ricevendone i segni, sottoforma di versi macchiati dall’umano spirito, e per questo sempre vergini. Poiché ci sono passati e sogni che non si lasciano cambiare. 

Allora il poeta prega per esorcizzare la sua dannazione, per esorcizzare le sfaccettature di un Dio che ci è stato tramandato da mani spesso impure e per sollevare ulteriori domande che hanno a che fare con gli atavici rapporti tra Eros e Thanatos, e che più di ogni altra cosa egli teme, lo innervosiscono, invoca per la malvagità, seppur cosciente dell’amore di Dio[11]. Domande che vede risolversi nelle sue visioni oniriche con un’indecifrabile luce irradiante negli squarci della vita[12].

 

Ci sono le statue di Ermete Trismegisto, quelle divine, perché contenenti il divino, simulacri di un essere celestiale, poderoso e a differenza degli umani, immortale. Le statue parlano, per il vate egiziano, sono portatrici di verità mistiche, teologiche e filosofiche.

Ma non solo le statue degli dei, illuminate da un fascio accecante al centro di templi suggestivi, anche gli oggetti divengono talismani, simulacri di una poderosità che si espande con altrettanta forza nella mano di chi li custodisce. 

L’alchimia tanto palesata parlando dell’ermetismo, della sua evoluzione attraverso i secoli ed i luoghi, parte proprio da qui, dalle parole del Corpus hermeticum, che altro non è se non un testo teologico, il quale espone una teoria religiosa molto vicina a quella che sarà la dottrina cristiana, nella sua visione anche più estrema, verticale e intransigente. 

Tuttavia le statue di cui accenna Ermete sono pure la chiara testimonianza di una realtà storica, quella ellenistica, quella di tantissimi popoli che facevano del culto verso i propri dei una ragione di vita. E di morte.

I numi erano reali, clementi o terribili, parlavano o tacevano ogni giorno. Si manifestavano mediante gli eventi della natura e degli uomini, in tutti i luoghi del Medio Oriente, fino alle lande più selvagge e superstiziose dell’Europa, e con essi le persone interagivano continuamente, offrendo vita e sangue.

Per un poeta come me, appassionato di storia antica e poesia, tutto ciò è estremamente affascinante e senza dubbio più complesso di quanto abbia esposto finora, ma niente di nuovo. Se non per un piccolo particolare. I simulacri divini non si riducono alle pietre sinuose o agli oggetti alchemici, o al talismano di Diomede, pastore di eroi; esistono altri due simulacri.

Il poeta è un simulacro di carne che s’immola ad una forma più alta di espressione del pensiero e di verità attraverso una sottomissione ad un sistema arcano, e ad una predisposizione capace di ampliarsi con gli anni, fino al controllo sistematico ma non totale di questo potere, che s’interpone tra il poeta ed il terzo simulacro con un vero e proprio luminoso dettato.   

Se quel fascio di luce che spezzava l’oscurità dei templi degli achei si riversava sulle statue divine, di riflesso esso dilaga anche sui poeti, e da questi acquista ulteriore forza fino al suo espandersi sul componimento poetico, il quale assume al suo termine la sembianza d’una nuova statua; ininterotta, perché a differenza della pietra destinata inesorabilmente a divenire sabbia in qualche meandro del tempo, la parola non muore, ma si tramanda. In questo senso sì, allora, la parola ermetica acquista quella profondità abissale che si sviluppa su moltitudini di livelli interpretativi.

Ecco quindi che il terzo simulacro non è fatto di pietra, né di carne, ma di versi. Tre veicoli del divino, tre indizi d’una rotta spirituale.    

 

Conosco Ungaretti come un allievo un Maestro, da 25 anni, e l’ho visto in tante diverse situazioni di vita, (...) ma tante volte, in casa, o in tram, (...) o in viaggio, m’è parsodi sentire che qualcosa all’improvviso l’afferrava, entrava dentro di lui: come dicevano gli antichi, veramente lo ‘possedeva’.

(Piccioni L., Studi su Ungaretti. Una perpetua poesia maggiore, in Ungaretti G., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2011, p. XVIII)

 

Il principio supremo non dovrà accogliere all'interno del suo compito il supremo paradosso? Essere un principio che non lasci mai assolutamente in pace, che sempre ci attragga e poi ci rigetti, e sempre di nuovo torni ad esser incomprensibile, persino quando lo si è già compreso? Che ecciti incessantemente la nostra attività, senza mai esaurirla, senza mai abituarla? Secondo antichi racconti mistici, Dio è qualcosa di simile per gli spiriti.

(Novalis)

 

Colui che sogna ad occhi aperti sa di molte cose che sfuggono a quanti sognano solo dormendo. Nelle sue nebbiose visioni, egli afferra sprazzi dell’eternità e trema, al risveglio, di vedere che per un momento si è trovato sull’orlo del grande segreto. Così, a lembi, apprende qualcosa della sapienza del bene, e un po’ più della conoscenza del male. Pur senza timone né bussola, penetra nell’oceano sterminato della ‘luce ineffabile’ come gli avventurieri del geografo nubiano, che ‘aggressi sunt mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi’. 

(Da Eleonora, I racconti del terrore, Edgar Allan Poe)

 

Sono nato nel 1909 a Salerno: ricordo tutto dei miei primi anni... Posso dire che sono diventato scrittore o più propriamente poeta per avere sempre sentito dietro di me, dalla nascita, altre stanze, altri luoghi, altre stagioni in cui ero vissuto.

(Alfonso Gatto, da La vita e le opere, in Alfonso Gatto, Poesie 1929-1969, a cura di Luigi Baldacci, Mondadori, 1972, p. 13)

 

Ma la sete era mia, questo conta. Quel libro non era una fonte d’imitazione, ma una sorgente d’invenzioni per chi aveva da trovare in sè qualcosa.*

*(Parlando con Ferdinando Camon, Gatto aveva detto di aver bevuto ‘a piena gola’ all’Allegria di Ungaretti; da La poesia di Gatto, in Alfonso Gatto, Poesie 1929-1969, cit., p. 23)

 

Qualsiasi sia il modo (...) di risolvere i termini del problema poetico (...) risulta ora ozioso, per non dire impossibile, intervenire in un ambito così misterioso, dove solo ci è dato di supporre, ma mai di comprovare. (...) // Perché, infatti, possiamo conoscere la poesia solo attraverso l’uomo; unicamente lui, pare, è un buon conduttore della poesia, che finisce dove l’uomo finisce, sebbene, a differenza dell’uomo, non muoia. In questo senso, il risultato o residuo poetico, tentativo di qualcuno che ha creduto nella poesia, è fatalmente romantico

(Luis Cernuda, dall’articolo su Paul Eluard – «Litoral», 1929 –, in Poesia española. Antologia 1915-1931, a cura di G. Diego, Madrid, Visor, 2002, p. 424)

 

L’immaginazione è il primo gradino e la base di tutta la poesia... Il poeta con essa costruisce una torre contro gli elementi e contro il mistero. È irreprensibile, ordina e viene ascoltato. Però gli sfuggono quasi sempre gli uccelli migliori e le luci più splendenti. (...)

Ma il poeta che vuole liberarsi dal campo immaginativo, non vivere esclusivamente dell’immagine che producono gli oggetti reali, smette di sognare e smette di volere. Non vuole più, ama. Passa dall’immaginazione, che è un fatto dell’anima, all’ispirazione, che è uno stato dell’anima. Passa dall’analisi alla fede. (...)

Così come l’immaginazione poetica ha una logica umana, l’ispirazione poetica ha una logica poetica. Non serve la tecnica acquisita, non c’è nessun postulato estetico su cui operare; e così come l’immaginazione è una scoperta, l’ispirazione è un dono, un ineffabile regalo.

(Federico Garcia Lorca, da Imaginacion, inspiracion, evasion – 1928 –, in Obras, VI. Prosa, 1, a cura di M. Garcia-Posada, Madrid, Akal, 1994, pp. 279-283)

 

Pur eliminando gli elementi considerati ‘impuri’ perchè troppo pregni di realtà e ricercando la purezza nel totale svincolarsi da quest’ultima, Diego difende e sostiene una realtà più umana: quella veramente pura realtà interiore che è l’emozione. È questa una variante enorme all’affermazione di Huidobro: ‘el vigor verdadero reside en la cabeza’ (il vero vigore risiede nella testa).

(Miledda D'Arrigo, Gerardo Diego. Clausura e volo, Ugo Guanda Editore, 1970, p. XVIII)

 

(...) In ogni componimento poetico c’è stata la Poesia, però non c’è più. Sentiamo il calore recente della sua assenza e l’impronta tiepida della sua carne nuda.

Credere in ciò che non vediamo, dicono che sia la Fede. Creare ciò che non vedremo mai, questo è la Poesia.

(Gerardo Diego, Poesia española. Antologia 1915-1931, cit., pp. 264-265)

 

 

Delle considerazioni sul creazionismo

 

Credo che ogni poeta affronti un particolare percorso poetico che inevitabilmente termini per essere un cammino di scoperta interiore ed esteriore. Il primo caso concerne le riflessioni che la composizione, nel suo carattere ispiratore, scaturisce nel poeta. Già qui mi sembra di entrare in un campo personale, soggettivo, e non me la sento pertanto di stabilire affermazioni valide per tutti gli autori.

Un interprete della Musa, tale definisco in questo frangente chi si ritrova misteriosamente e subito nella situazione di dover imbattersi nelle sue primitive esperienze con la poesia, non può essere uno scrittore che di fronte ad una pagina bianca sostenga ‘adesso scrivo versi’. Qualcosa di arcano, totalmente indipendente dalla sua volontà, lo sospinge. Cosi ho iniziato io. La scoperta esteriore invece avviene con le letture, che devono essere incessanti, e che permettono di dare forma letteraria, personale e fisiologica a quel percorso iniziato da un punto ben preciso e capace quindi di svilupparsi attraverso continui salti temporali, seguendo un indistruttibile filo comune. Nel mio caso la poesia pura, concetto che si riferisce ad un’estetica esistita ma anche a qualcos’altro che prende forma sotto gli occhi di chi, come il sottoscritto, ricerca, affronta un viaggio espresso da passioni recondite quasi senza scelta e senza spiegazione, e si riversa infine nell’opera attraverso un filtro.

Il poeta è un essere animato, sospinto da misteriose passioni, oscuri talenti, che conosce le tappe del proprio cammino ma che non ha idea di cosa aspettarsi dal viaggio. Il mio, mi ha condotto all’ermetismo, e alla libertà dei versi sciolti da qualsiasi metrica che non sia quella che si trova subordinata all’indipendenza degli stessi, all’assoluta slegatura del componimento da una qualsiasi realtà che non sia quella del poeta prima, e in una fase più evoluta quella soltanto della stessa poesia, esistente in quanto viva, scatenatrice di bellezza, corpo e forma ormai distaccatasi non solo dalla realtà esterna ma anche dal suo stesso creatore. Ed ecco il mio approdo al creazionismo di Huidobro e di Diego. A quel sublime ‘da taschino’, surreale e fantasioso, che fa dell’armonia poetica di numerosi elementi, di numerosi piani, la sua grandiosa essenza. Il paradiso perduto, l’ignoto, si trovano ora nella stessa poesia, sopra e sotto le sue braci estetizzanti.

La poesia non ricerca più il divino ma diventa essa stessa il proprio culto, non per un rifiuto, ma per necessaria deviazione. Se il poeta era un simulacro di carne capace di compiere un’evoluzione attiva, fino a controllare il proprio dono, ora gli effetti dello stesso hanno dato vita ad un nuovo soggetto animato, mobile, quindi autonomo, un altro da sé in quanto in sé. Più che un ridimensionamento filosofico direi, una consapevolezza. O un’ulteriore porta, se non la chiave maestra, verso altre realtà, codici interpretativi, conoscenze.

 

Si rimproverano i poeti di esagerare e si considera il loro linguaggio improprio e immaginifico quasi solo per giustificarli, addirittura ci si accontenta (...) di attribuire alla loro fantasia quella natura sorprendente che vede e sente qualcosa che altri non vedono e non sentono e che, in un’amabile follia, fa e disfa il mondo reale come le aggrada; ma a me sembra che i poeti siano ben lontani dall’esagerare abbastanza, che essi percepiscano solo oscuramente l’incanto di quella lingua e giochino con la fantasia come un bambino con la bacchetta magica del padre. Essi non sanno quali forze siano loro sottomesse, quali mondi debbano loro obbedienza.

(Novalis)

 

Abbiamo accettato, senza troppa riflessione, il fatto che non può esistere altra realtà che quella che ci circonda, e non abbiamo pensato che anche noi possiamo creare la realtà del nostro mondo, di un mondo che attende la sua propria fauna e la sua propria flora. Flora e fauna che solo il poeta può creare, grazie a quel dono speciale che la stessa madre Natura diede solo a lui.

Non serviam. Non devo essere tuo schiavo, madre Natura; sarò il tuo signore.

(Vincente Huidobro, da un articolo letto all'Ateneo di Santiago intitolato Non serviam, 1914)

 

Immagine multipla. Non spiega nulla; è intraducibile in prosa. È la Poesia, nel senso più puro della parola. È anche, ed esattamente, la Musica, che è sostanzialmente l’arte delle immagini multiple; ogni valore dissuasivo, scolastico, filosofico, aneddotico, le è essenzialmente estraneo. La musica non vuole dire nulla. (...) Ognuno dà la sua lettera interiore alla Musica e questa lettera imprecisa varia a seconda del nostro stato emozionale. Ebbene: con le parole possiamo fare qualcosa di molto simile alla Musica, per mezzo delle immagini multiple.

(Gerardo Diego, in Posibilidades creacionistas – 1919 –, in Obras completas. Prosa, a cura di J. L. Bernal, Madrid, Alfaguara, 2000, vol. 1, p.170)

 

Vi dirò ciò che intendo per poema creato. È un poema in cui ogni parte costitutiva e tutto l’insieme presentano un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da ogni altra realtà che non sia se stesso, poiché prende posto nel mondo come fenomeno particolare, a parte e diverso dagli altri fenomeni. Fa reale ciò che non esiste, cioè si fa egli stesso realtà. Creare un poema prendendo dal vivo i suoi motivi e trasformandoli per dar loro una vita nuova e indipendente... Nulla di aneddotico né descrittivo. Se accettate le rappresentazioni che un uomo fa della natura, ciò prova che non amate né la natura né l’arte. Inventare è far sì che cose parallele nello spazio si trovino nel tempo e viceversa presentando così nel loro insieme un fatto nuovo (...). Il poeta non deve essere più uno strumento della natura ma far della natura il suo strumento...

(Da Manifestes di V. Huidobro, 1925)

 

(...) Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: ‘L’uccello fa il nido nell’arcobaleno’, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime, quel sublime del quale i testi ci presentano esempi tanto poco convincenti. E non si tratta del sublime eccitante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non vuole opprimere o schiacciare il lettore: un sublime da taschino. La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati; non stiracchia alcun elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa quegli elementi sono integralmente inventati, senza preoccuparsi assolutamente della loro realtà o veridicità precedenti l’atto della realizzazione.

(Vincente Huidobro, Manifesti, 1925)

 

È l’idea che deve creare il ritmo e non il ritmo l’idea, come in quasi tutti i poeti antichi. (...) Le leggi della metrica tradizionale combattono la spontaneità e il movimento della natura, che il poeta deve seguire attraverso l’esempio costruttivo della sua architettura.

(Vincente Huidobro, dalla Prefazione del poema Adan)

 

(...) Le vere poesie sono incendi. La poesia si diffonde ovunque, illuminando ciò che consuma con brividi di piacere o di agonia.

(Vincente Huidobro, dalla Prefazione di Altazor, 1931)

 

Fin dal principio della mia avventura poetica mi resi conto ch’essa aveva a che fare con delle peculiari esplorazioni. Lo spingersi dentro altre vite, incontri casuali, diveniva spesso il preludio di quel meccanismo automatico ed esoterico. Fantasmi del passato, squarci estremi e fugacissimi di me stesso.

La creatività pende da molteplici rami, come questo, e come quelli del gioco creazionista e surrealista, ludico ma non meno sospeso nel profondo siderale, anzi, e chiaramente aggrappato a quel corpo e quell’anima che ribollono, a tratti esplodono, nella quotidianità dell’essere del poeta.

Da qui l’esigenza di una considerazione evidente che riguarda Fernando Pessoa, il quale per necessità vitale di creare fu costretto a moltiplicarsi, a farsi altri da sè, caratteri unici, personaggi di esistenze irreali, eppure vere. Non è più la poesia che si dissocia dal poeta, ma è il poeta che si distacca dal poeta stesso, per dare inizio ad un cammino nuovo, a respiri differenti, a intenti estranei. Una schizofrenia artistica rivolta verso l’interno, e al medesimo istante un’esternazione creativa epica ed intensa.

 

  

Il tesoro della Antille:

realismo negrista, jitanjáfora, e poesia pura

 

Non ho mai apprezzato un realismo troppo netto nella poesia, piuttosto l'ho sempre considerato una componente all'interno di quadri linguistici, espressivi ed estetici più ampi, sfumati, ermetici e simbolici. Ho sempre creduto che sia la parola a creare una realtà e non viceversa, e che questo sia il binario luminoso della vera arte poetica.

Ne sono ancora convinto, tuttavia esistono dei casi dove il realismo, vestiti i panni di una genuina primitività, diviene materia poetica di inestimabile forza, giustificazione essa stessa di un'esibizione di verità necessaria, essenziale. Se il neopopularismo lorchiano assumeva connotati realistici, popolari, storici e folcloristici, esso rimaneva ad ogni modo costantemente permeato da un ancestrale e misterioso surrealismo, che contraddistingue il fascino del poeta spagnolo. Questo genere di componimenti si legano con il canto, le filastrocche, le tradizioni, la favola.

Nicolas Guillen porta nella poesia negrista cubana questi insegnamenti, ma sprigiona in essi un realismo profondo, nudo, solitario, non condito da nulla se non dalla veridicità del lessico, la parlata popolare cubana, che quindi da linguaggio orale diviene lingua scritta, e poetica.

Sono i neri oppressi a cantare; le parole con le loro consonanti atte a ricreare il ritmo dei tamburi, percuotono incessantemente, e la storia emerge come una sinfonia tribale dalle spaccature di una civiltà bianca malata.

Credo che tutto questo non sia solo una valida giustificazione per amare il realismo di Guillen, il poeta mulatto, ma anche motivo di scoperta di una ammirabile vetta raggiunta.

 

(...) Serve sottolineare che in questa congiunzione radica il segreto del poeta: quello della natura, cioè, la terra in cui affonda le sue radici e nella quale si stabilisce la sua forza elementare, il suo impulso tellurico, e quello della cultura che si è andato progressivamente formando e consolidando a partire da queste radici, intreccio incessante e drammatico di tutti i sogni e le ansie e i canti (...)

(Angel Augier, a proposito di Nicolas Guillen)

 

La poesia cubana si diresse verso due vie fondamentali diverse fra loro: la poesia sociale, che vide con la poesia negrista il fiorire della sua massima espressione, e la poesia pura, della quale il maggiore rappresentante fu senza dubbio Mariano Brull.

Il simbolismo francese, la Generazione del ’27, l’avanguardismo ispanoamericano, furono le strade principali su cui la poesia pura fece il proprio ingresso nell’isola delle Antille. Ma ciò che rende Mariano Brull un autore di grandissimo interesse è il suo essere la punta di un iceberg, un apice ricettivo capace di accogliere tutto quello che, da Poe e Beaudelaire, fino a Verlaine, Mallarmé e Valéry, a Jimenez ed i suoi discepoli, e poi Huidobro, era stato pensato, teorizzato, discusso, scritto e diffuso. La poesia pura non è soltanto una nuova estetica letteraria, originale, spiazzante, distruttiva, è una forma di pensiero poetico che, come un discorso tramandato da bocca a bocca, da generazione in generazione su scala mondiale, è infine approdato agli angoli più caldi dell’oceano; essa consiste in un’eredità sacra, rivelatrice, frutto delle più grandi menti del passato; un cammino eternamente e auspicalmente percorribile.

Un movimento poetico dell’arte per l’arte, dove la poesia, per sua natura indecifrabile, rimanda ad un occulto infinito, ad un’altra realtà inconoscibile con pienezza da parte dell’uomo, del poeta, ciononostante capace di stregarlo. Una poesia che maschera dietro l’apparente semplicità dello stile un’acuta ricercatezza formale, che esalta la musicalità del linguaggio, come dichiara Verlaine nella sua Art poetique; o che sottolinea l’importanza di crearne uno nuovo, autonomo, basato sul suggerimento musicale dato da un’idea, racchiusa nella parola stessa, astrazione di una realtà concreta atta a produrre un effetto nel componimento e delle sensazioni nel lettore (Mallarmé). O ancora, come teorizza Valéry, una poesia espressa nel suo stato puro, primordiale, nella quale l’effetto puro si realizza mediante un processo selettivo-depuratore finalizzato ad eliminare tutti gli elementi prosaici, superflui; con Huidobro infine il rigore poetico, l’ansia d’infinito, e il tentativo di creare mondi autonomi, si condensano nel suo creazionismo, dove: ‘La primera condición del poeta es crear, la segunda crear, y la tercera crear’.[13]

Il linguaggio della poesia pura, e con esso il pensiero che racchiude, vengono portati all’estremo con la jitanjáfora. Nata come conseguenza di un gioco infantile tra Brull e le sue figlie, l’omonima lirica[14] rappresenta il culmine di una poesia che non solo adotta con frequenza i più diversi neologismi, ma che approda ad un intero componimento costituto da parole completamente inventate, intraducibili, che tuttavia presuppongono una creazione non fatta a tavolino: esse risalgono da sole fino alla superficie della coscienza.

Fu Alfonso Reyes ad adottare questo nome per uno stile che vuole essere non soltanto la naturale conseguenza di tutta la poetica brulliana, ma anche indice di un pensiero puro ormai sviluppatosi al quadrato.

L’impossibilità per il poeta di percepire nettamente l’ineffabile, si trasforma in un’assenza semantica, per Brull, dai risvolti nichilisti, nella quale è proprio la tensione che sorge nel gioco verbale ad esprimere l’inquietudine: l’assenza e l’apparenza, il vicino e il lontano, divengono la rappresentazione di uno sforzo per comprendere l’ignoto. Ma ingabbiato in una prigione metafisica, il poeta vede il proprio mondo poetico cadere in pezzi; decide, quasi fosse un rimedio estremo, di trovare rifugio in una nuova, impenetrabile, gabbia.

Indipendentemente da questa visione, la poesia pura continua a rappresentare per il poeta che vi si immerga un luogo immacolato; un paradiso perduto dentro al quale esercitare la propria incessante ricerca; e provare, dunque, ad appagare la propria sete di scoperta.

 

Come segni, esse sono condannate alla prosa; ma, dal loro essere semplici segni, la magia del poeta le trasforma in talismano.

(Henri Brémond, 1930)

 

Questa idea dell'artista creatore, dell'artista-dio, mi fu suggerita da un vecchio poeta indigeno dell'America del Sud (aimará) che afferma: ‘il poeta è un dio; non cantare la pioggia, poeta, fai piovere’.

(Vincente Huidobro, La creazione pura)

 

Determinati miti ricorrono, ruotano attorno ad un’ossessione: l’onnipotenza dell’immaginazione, la forza miracolosa della poesia. Il prodigio del canto di Orfeo, il poeta per antonomasia della tradizione platonica, consiste nel provocare lo stupore e l’immobilità delle creature che lo ascoltano. Così, il motivo del canto appare connesso nella poesia gongorina alla capacità di placare, fino a fermare, il più sfuggente degli elementi, l’acqua. Dono semidivino del poeta è controllare l’inafferrabile, arrestare ciò che è fugace, fermare ma pure formare il flusso delle cose.

(Norbert von Prellwitz, dalla Nota introduttiva di Luis de Gongora, Le Solitudini e altre poesie)

 

 

Il poeta-soldato

 

Un’ulteriore riflessione. Se davvero il poeta affronta un sentiero fatto per gradi, nel quale dalla scoperta del proprio dono giunge ad un punto in cui ne diventa l’involucro, per poi una volta liberatosi conquistare l’autonomia e la capacità di agire nello spazio e nel tempo, allo stesso modo potremo fare tale similitudine con il passaggio dal mondo ermetico, surreale e creazionista – da quel paesaggio visionario che scaturisce e termina nel poeta o muta in qualcosa di indipendente – all’approccio realista.

Così come il poeta soltanto dopo numerose possessioni (l’addestramento) si trova in grado di trasportare la propria veggenza su un piano che egli controlla o cerca di gestire insieme al pensiero e in stretta collaborazione con l'ispirazione, alla medesima maniera solamente in seguito ad avere penetrato innumerevoli livelli di coscienza, di visioni, intimi mondi e esperimenti, può allora approdare con la più adeguata armatura alla realtà; ed inoltrarsi, ora sì, con questi nuovi occhi, nel territorio del realismo.

Adesso il poeta può descrivere con le sue mani quello che lo circonda: come il guerriero o il marinaio che ritornano a casa dopo molti anni di traversate e guerre, ora scopre improvvisamente le capacità e l'attitudine giusta per coltivare la propria terra, fino al prossimo arruolamento.

 

Io sono il servo d'Ares signore della guerra

e conosco l'amabile dono delle Muse.

(Archiloco, fr. 1 T.)

 

(...) L'io del poeta è presentato mediante un'antitesi: da un lato Enialio, epiteto di Ares, il dio della guerra (...), dall'altro la dolcezza del dono delle Muse, di cui Archiloco si definisce non servo, ma conoscitore, precisando in tal modo la sua originale posizione nei confronti della poesia: di fronte a essa egli non è passivo strumento dell'ispirazione divina, ma demiurgo in possesso degli strumenti per plasmare la sua materia poetica.

(G. Broccia, Tradizione ed esegesi, Studi su Archiloco e sulla lirica greca arcaica, Brescia 1969, pp. 75-80)

 

La mia passione per il mondo ellenico, e per ciò che ruota intorno ad esso, costituisce anche il punto di arrivo di una poesia che in tutti questi anni, in cui sento di poter affermare di aver conosciuto, come disse Archiloco, ‘l'amabile dono delle Muse’, si è mossa fino ad approdare ad una specie di realismo mitologico.

Il poeta di Paro, colonizzatore di Taso, nel suo cammino non solo ebbe il privilegio di incontrare la lira: egli fu anche un soldato, e da soldato, forse mercenario, perì in battaglia.

Nel primo verso del suo distico citato poc’anzi egli afferma: ‘Io sono il servo d’Ares’, o ‘lo scudiero di Enialio’, epiteto di Ares, a seconda di come si preferisca tradurre il frammento.

Archiloco rappresenta al meglio l’idea del poeta-soldato, tanto da definirsi servo della guerra, scudiero di un dio massacratore.

Di fatto lo era; allo stesso modo si potrebbero invertire i paradigmi. Ecco che il senso si amplia notevolmente come nella risoluzione di un enigma arcano: scudiero delle Muse e conoscitore di Enialio.

Perché no, quindi, immaginarsi Ares armato di panoplia splendente con al posto dell'ascia una lira?

Questa è la mia interpretazione di Archiloco, un poeta che fa della poesia la sua vita, la sua missione, la sua arma, il suo dovere, la sua responsabilità, la sua bilancia, proprio come se fosse un soldato, e un poeta. Muovendosi nel territorio del realismo, lasciando da parte il linguaggio epico omerico, egli sfrutta il suo dono per raccontare ciò che lo circonda, quello che questo provoca in lui, e reagisce come la freccia scoccata con violenza da un arco alle provocazione e alle suggestioni della realtà.

È a questo punto che mi ha portato il mio percorso poetico, alla definizione del poeta-soldato attraverso il movimento nelle estetiche e nelle scelte, o forse incontri, che lo hanno contraddistinto.

Ogni mio particolare comporre ha sempre suscitato in me delle riflessioni; ogni mio cambiamento stilistico, un nuovo apprendimento e un tassello ulteriore per definire il cerchio del mio viaggio, per la costruzione di una definizione di poesia, che si estende quasi fuori dalla teoria per conferire ad essa un’immagine e un corpo.

In un mio componimento passato Ermete ammoniva il poeta chiedendogli: ‘Non credi sia vano il tuo agire?’.

Lo è. Forse. Eppure come Archiloco io sono spinto ad agire, e ad agire ancora, insieme a una lira dalle sembianze di una spada, o viceversa.

 

Manuel Paolino

 

 

 

 


[1] Vedi Il pianto della naiade.

[2] Vedi La compagnia dell’Ovest.

[3] Vedi Il Campo di Martin.

[4] Vedi Come Gordon Pym.

[5] Vedi Due figli.

[6] Vedi I Versi e In fiamme.

[7] Vedi Poeta.

[8] Vedi Gnosi e Edgar.

[9] Vedi Ragione e Intelletto.

[10] Vedi Risposta di Ermete al poeta.

[11] Vedi La preghiera dell’Angelo.

[12] Vedi Gusto e Il balcone.

[13] Da una celebre conferenza tenuta a Buenos Aires nel 1916.

14 Filiflama alabe cundre / ala olalúnea alífera / alveola jitanjáfora / liris salumba salífera// Olivia oleo olorife / alalai cánfora sandra /  milingítara girófora / zumbra ulalindre calandra.

 

 

 


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