D’un corpo dannato, involucro solo visibile
a chi guarda la chioma intricata
ché un pettine è un segugio che annusa astrazioni,
tanto è lontano dal fiato che gonfia ampolle di vetro…
(L’aria che vaga nel ventre non sa
del suo mutare in forme più obese
finché non scoppia in gocciole
o scintille a dire del gelo e del caldo)
D’un corpo senza memoria,
l’anima sgombra, di canna, ignara,
ché il faro ai minuscoli piedi puntato
ha di lucciole il lampo ed il genio di lampada.
Altro è il racconto d'ossa incrinate
di fibre dolenti del sangue che affiora
su pallide gambe ormai stanche,
deposte in un angolo, ali spezzate
D’un corpo che lascia la riva e naufraga
dentro sponde inesistenti, orizzonti di nebbia,
prima d’un sole che illude le zattere
che restano a galla l’attimo della sventura.
E si fa remo alla fine e si fa palo ad issare
stracci bandiere strappate agli abissi
come alla muraglia di fanoni
di balene arrese al sonno
D’un corpo così indefinito
ho memoria, di parola in parola,
di chi m’ha teso la mano, sfiorato una guancia,
di chi prendendomi il braccio
m’ha obbligato a sentire un vento di burrasca
che ancora mi percuote, ora gentile
in un giorno qualunque.
Ed è maggio.
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