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L’occhio degli alberi

Poesia

Eugenio Nastasi
EdiLet

Recensione di Maria Grazia Maiorino
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Pubblicato il 02/08/2013 12:00:00

 

Spiegherò il mio enigma sulla cetra

 

 

Il viaggio del poeta inizia con una leopardiana evocazione notturna, con un “profilo di luna” che si poserà non su deserti d’Oriente ma su frammenti di un mondo conosciuto ed esplorato a lungo – lumi camini prati sorgenti argini rocce laghi e montagne – eppure misterioso, intricato, e solo a tratti traducibile. La natura, quando entra in ogni nostra fibra non è più né proiezione né rispecchiamento: essa rimanda a un altrove di tempo e di spazio, a una ciclicità che ci sovrasta, a cataclismi e fragilità che quasi spontaneamente si trasformano in simboli, di fronte ai quali le parole più che definire suggeriscono, alludono, scavano, sfuggono. “c’è sempre un po’ d’inverno / nel chiudere una frase / il messaggio indietreggia / in un bosco interiore”. Il testo che ci accoglie sulla soglia del libro ce ne offre la prima chiave di lettura: preannuncia l’oscurità, la mancanza, la ricerca continua e l’inquietudine che spinge sempre più in là. I versi rimandano a capovolgimenti ed enigmi che mi hanno ricordato certe poesie del poeta svedese, recentemente insignito del premio Nobel, Tomas Transtromer, come I ricordi mi vedono : “… Devo uscire nel verde gremito / di ricordi e mi seguono con lo sguardo / Non si vedono, si fondono totalmente / con lo sfondo, camaleonti perfetti /…” E in Nastasi leggiamo, quasi in un negativo della scena: “il giorno si fa povero il passato addensa / mani che non tocchiamo come se / grandi dubbi ci prendessero alle spalle / e ogni notte / perché la notte beve ai nostri occhi / ci attraversa senza vederci…”

 

Ecco allora la scelta o il venire incontro provvidenziale di un faro, di una stella mai spenta, che salvi nella fatica dei continui sconfinamenti, ed è “l’occhio degli alberi”, titolo e vero leit motiv dell’intera raccolta. “per non piegarmi ad altra liturgia / seguo l’occhio degli alberi / che guarda fisso il cielo”. Ma io lo vedo allargarsi anche dentro i cerchi dei tronchi, cuore che batte, invisibile, un tempo interno. E vedo l’occhio degli alberi che a sua volta guarda colui che cammina, perché è impossibile che non avvenga uno scambio, una trasmutazione. Desiderare, pregare, attraverso altri impulsi, altri segni, altre mete e appartenenze, come “… il cespuglio di eleagno, / col suo giallo pietoso verso terra / o “un prato diventa celeste / e tinge le mani di trifoglio”. Sono risposte a una sete d’infinito, istanti dipinti, tatuaggi d’erbe per dire le attese colmate, le latitudini ineffabili dello spirito raggiunte in un attimo senza ombre.

 

I luoghi del silenzio dove il poeta ha il privilegio di un eremitaggio aperto e in movimento sono il correlativo oggettivo del bosco interiore, ma non solo; essi diventano infatti gradini e gradini della sua scala di Giacobbe intorno alla quale  gli alberi volteggiano simili agli angeli. Egli stesso si dice profeta e ricorrenti sono parole come liturgia, cattedrale, confessare, templi, cilicio, perdono, anima, pellegrinaggio arca, infinito, preghiera, sigillo, pietra scartata, fede, ecc.; lessico e immagini indicano non solo un sentimento religioso verso tutte le creature, -  il desiderio di sentirsi “cosa tra le cose” - ma vanno oltre attingendo pregnanza e forza alla sorgente del linguaggio biblico, dove elementi della natura sono spesso usati  per lanciare i messaggi più importanti attraverso metafore di potente bellezza, soprattutto nei libri sapienziali e profetici. Ad esempio: “Le montagne portino pace al popolo / e le colline giustizia” (Salmo 72,3); ”Non griderà né alzerà il tono, / non farà udire in piazza la sua voce, /… non verrà meno e non si abbatterà / finché non avrà stabilito il diritto sulla terra / e per la sua dottrina saranno in attesa le isole” (Isaia,42,2-4). “Essi si chiameranno querce di giustizia / piantagione del Signore per manifestare la sua gloria” (Isaia,61,3).

Come non sentir echeggiare queste e molte altre visioni di mistici poeti nei versi di Nastasi, soprattutto nei testi dove l’inquietudine si placa e qualcosa di impensato si accende; anche se il titolo potrebbe apparire sottotono grande è lo stupore di chi incontra i versi di una delle poesie più belle, e non fa meraviglia, tutta da citare, io mi limito alla parte finale: “e la piccola gemma vibra / a una prova ulteriore di tormenta / a costo di sporgersi oltre il mondo / ogni seme che spunta insieme a un altro / immagina una foresta in cammino”. Leggo qui una lode, una preghiera, uno slancio di comunione con il mondo, che ritrovo nel canto più disteso e limpido dell’ultima parte, quel finalino di coda in cui laghi vette alberi sono poeticamente conquistati ad uno ad uno e si stagliano, davanti ai nostri occhi, istoriati come nei sogni, con icastica plasticità: il lettore sogna insieme al poeta, vede per la prima volta, al ritmo e alla musica di una”aperta favola”, come è accaduto a me quando ho letto sul lago Cecita: “ I monti della Sila s’incatenano lontano, / l’acqua tracima in un mistero di mare. / Questo è il mio primo lago conosciuto / e questo è il ponte che ancora attraverso, / non muta specchio l’immagine / che ancora guardo con occhi assetati.”

Questa è la prima poesia che ho letto, ed è stato come riconoscere una voce. Quanto profondamente fraterna lo avrei scoperto nel tempo, continuando a interrogare l’enigma spiegato sulla cetra di Eugenio Nastasi.

 


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