Eccolo danzare,
col suo corpo goffo, inatteso,
che sa di esserlo e non teme
la rigidità che incolla al mondo...
Eccolo!
Felice triste furioso
il mio saltimbanco sul davanzale,
che dice parole alla luna
sotto un fiume che è veleno
non puro, certo, ma velato
da quell'alterigia che schizza
tra l'odore delle stelle e il dolore
che non ha pace e s'arrampica
alla rabbia e dilusice in ironia.
Lui, le sue assi, il suo davanzale,
lui accanto a radici divelte debordate
feroci da quel vaso striminzito,
misero fino alla nausea,
fino al disgusto della colpa
che rattoppa giorni sul verdetto
dell'impossibile,
che offrì briciole avare alle allodole
e mise in fuga i pettirossi e ruppe
le stelle marine lasciate dai bambini.
Cosa cerchi da me, saltimbanco?
Folle la tua acrobazia...
Viltà o coraggio del restare?
Sempre in bilico la risposta
E il tuo passo, scagliato tra
paure e certezze, improvvise,
come la stella che s'arrende e
cede un bagliore,
un attimo fulmineo già derubato
dal dictat certo dalle notti a venire.
Non so se mi piaci, saltimbanco,
e anche quando mi porgi un fiore
non so mai se è una margherita d'acqua
come quella di carnevale
e la tua danza è piuttosto un girare intorno
nella stagione sconfinata dai troppi confini,
dalle troppo rese, dagli istanti a rattoppo
dell'ape sul miele,
dalle ironie ghiacciate
che fecero di pietra il cuore e fragili
le tue ossa mascherate da una carne inaffidabile
quella
che ostenti nelle tue esibizioni...
E poi quel ridere, dio mio, quel ridere
m'arrovella gli intestini, perchè fu
la mia rigidità a farti l'aste su cui
ti esibisci,
tra il resto delle formiche che affolla
le strade ignare,
stordite, inconsapevoli, tenute insieme
da cernire di morali che ronzano come
vecchi circuiti arrugginiti sul requiem
delle ore senza tempo, dei giorni fluidi
e opachi senza Natali da celebrare.
Saltimbanco,
solo la tua lacrima è vera
e fu così che un giorno mi ingannasti,
mi illudesti
che potessi restare.
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