Lei si alzò. E non comprese il motivo di tanta apatia. Da quando le capitava? Da anni, forse. Era una specie di sentore di sconfitta. Una malinconia che le pendava dall'anima come uno straccio bagnato. Suo marito era già al lavoro. "Per fortuna" pensò, ma si pentì. Come poteva fare simili pensieri rivolti a un marito d'oro come lo definiva sua madre? Una persona gentile, servizievole, altruista, piena di premure nei suoi confronti. Un uomo col quale, nonostante tutto, non aveva voluto fare figli. Si pentì anche di quel pensiero. Quel giorno nascevano così, scordinati.
Guardò la sua casa, la sua splendida casa, vasta come i suoi vuoti. Ancora un pensiero discorde. Poi guardò fuori, le griglie che proteggevano le finestre. O le sbarre di una prigione. Da quanto ci stava in quella prigione?
Si domandò se 'lui' osservasse i suoi pensieri. Ne aveva sempre avuto l'impressione. "Prendo dell'acqua". "Oh, non disturbarti, te la porto io". "Esco". "Ti accompagno". "Faccio questo corso di life coaching". "E come mai? Non è meglio che tu segua un corso di cucina?". Onnipresente. Era la parola giusta, Onnipresente anche nell'assenza. Soprattutto. La statuetta della vergine Maria sul mobile, bianca, senza volto, le trasmise una sensazione di gelo e di fissità. Voleva uscire, ma qualcosa la incollava lì, a quel recinto, come se le pareti della casa le fossero cresciute addosso e in esse, si ergesse l'immagine di suo marito che spiava i suoi movimenti, senza comprenderne i moventi.
"Devo uscire di qui. O impazzirò!" si disse.
La città le trasmise un'aria di libertà e di straniamento insieme. Pensò ai detenuti. Alla farsa della libertà, dopo la prigionia. Lei era questo: una prigioniera. Si affacciò in una fontana di pesci rossi, che di tanto emergevano, come sopravvissuti, dalle acque verdastre su cui galleggavano carte e foglie marcite. Questo era stata, disse. Un pesce catturato e messo in una vasca per girarci intorno all'infinito. Lacrime bollenti caddero nella vasca. Non le asciugò, ma lasciò che le bagnassero il viso, sciogliendo l'eyeliner. Si guardò intorno, si vide circondata da gente estranea di cui non si era mai veramente interessata, perchè lei aveva vissuto in una vasca per pesci. Pensò di non tornare più a casa, di perdersi per le strade della città. Se si fosse intrufolata nelle periferie e avesse chiesto rifugio magari a quelli che dormivano in dieci in una stanza, forse l'avrebbero accolta. Ma per lei andava bene anche stare in strada, lasciarsi andare su una panchina, non anelare a niente, nemmeno a quello che era stato il sogno di una vita: vendere e vedere riconosciuti i suoi disegni. Riflettendosi nell'acqua, ripensò anche all'idea di successo. Perchè, poi, bisogna avere successo? Non è già un successo respirare? Non è un successo andare dove si vuole? Questo era per lei, ora, il successo ma, dietro di esso, vedeva le vite di quelle donnne che dormivano accartocciate in giubbotti e coperte alla stazione, per proteggersi dal freddo e da eventuali aggressori. Ma ci sono davvero 'gli aggressori'? C'è davvero tanto motivo di avere paura? Oppure... Pensò a un'altra possibilità: gettarsi dal ponte e sfracellarsi sulla banchina. Immaginò gente attorno a lei, la pozza di sangue attorno alla testa, qualcuno che estraeva dal portafogli la sua carta di dentità, il lenzuolo sulla faccia. I fiori messi poi sul ponte accanto ad altri fiori. Ma ogni prospettiva era un incrocio con strade che la sua mente faticava a imboccare. Ogni prospettiva violava un tabù e la faceva sentire colpevole per 'coloro che rimanevano'. Cioè per coloro che non si erano mai preoccupati della sua felicità. Per gli altri pesci rossi, compagni di vasca, solo completamente inconsapevoli.
Fu allora che vide un violinista dalla pelle scura. Non era un ottimo suonatore, ma aveva l'aria di chi sapeva come cavarsela. Lo invidiò. E forse l'invidia arrivò all'uomo, che le mandò uno suardo tagliente. Fu allora che lei ebbe il coraggio di parlargli, mentre raccoglieva le monete dalla custodia del violino.
"Di dove sei?"
Ma, per tutta risposta, gli arrivò uno sguardo scintillante, ermetico.
" Sei rom?" incalzò.
Lui annuì, poi la invitò a prendere un caffè, optando per quello che suo marito chiamava 'il bar degli ubriaconi'. Lei esitò, poi lo seguì. Il contrasto tra la sua eleganza e quella dell'uomo rom attirarono alcuni sguardi. Per la prima volta, in città, si sentì guardata e questo la divertì.
Sedettero su una panca e lei lei si premurò di pulire il tavolo con una salvietta disinfettante. Lui la fissò con i suoi occhi verdi che le trapassarono l'anima e rise, facendola sentire stupida. Uomini rumorosi, in vesti da lavoro, coi jeans sporchi di cemento, si accalcavano al bancone, facendo battute spontanee con il barista, che rispondeva a tono. Lei si accorse che aveva la gonna macchiata del nero dell'eyeliner. Si guardò nello specchio sulla parete. Il suo viso era rigato dall'eyeliner come quello di una maschera. Cercò la salvietta, ma l'uomo gli porse un tovagliolo.
" Meglio la salvietta" disse lei e cercò un bagno, accorgendosi che non aveva alcuna intenzione di andare nel wc di un simile locale. Allora si pulì lì il viso, guardandosi nello specchio. Ancora l'uomo rise, come intuendo i suoi pensieri.
" Tu puoi essere libera" sentì, improvvisamente.
Si chiese chi avesse parlato: l'uomo stava infatti ordinando un caffè, parlando con il barista.
Si sentì in imbarazzo e desiderò la sua bella casa profumata di incenso e di deodorante alla melagrana. Ma non era un vero desiderio; piuttosto un meccanismo dell'abitudine. Fu mentre ruminava quei pensieri che l'uomo le prese la mano. Le girò il palmo, poi iniziò a percorrere le linee. Stette in un silenzio assoluto, come se fosse morto.
" Tu vuoi la libertà e hai il tempo per realizzarla. Sei generosa, altruista" disse, strisciando la esse.
" E c'è un avo, n particolare, che ti sostiene".
Ancora gli occhi di lei si riempirono di lacrime.
" Tu però lo devi aiutare. Devi iniziare ora a rompere le tue catene."
" Ogni giorno devi fare qualcosa che non hai fatto mai. Per un mese. Come quello che hai fatto oggi. Essere qui, con me, coi tuoi bei vestiti e i gioielli da regina".
" E ora ti darò una formula. Tu la devi recitare ogni giorno, per un mese, 108 volte al mattino e la sera, prima di coricarti".
"Aspetta, voglio farti un'offerta prima" disse lei. E fu felice di liberarsi degli anelli di diamante e rubino, dei bracciali. Sarebbero serviti a quell'uomo e alla sua gente, offesa dalla propaganda sociale che li voleva emarginati e per questo, li classificava come pericolosi, ladri, vagabondi per scelta. Sentì che quel dono era, in realtà, un regalo fatto a se stessa. Donare i suoi gioielli l'avrebbe alleggerita. Si soffermò un istante. Poi tolse anche gli orecchini, due bei quadrati in oro massiccio.
"Sei sicura" chiese, mentre lei gli porgeva il bottino, tra lo sguardo attonito degli uomini del bar, che si erano voltati verso di loro.
"Comincio da adesso" disse lei.
Lui ringraziò e mise i gioielli nelle tasche. Risero insieme. Poi qualcosa le attraversò il cuore e sentii che il leggero imbarazzo che provava in sua presenza era la constatazione che quell'uomo le piaceva.
" So ham. Ecco la formula".
" Quando penetrerà a fondo nella tua coscienza, saprai chi sei. E allora sarai invincibile".
"So ham" ripetè, mentre lui si alzava, pagava e lasciava il bar.
La salutò solo con un 'buona fortuna' e andò via ancheggiando, con le movenze di un danzatore, portandosi dietro la cstodia col violino.
Fu solo in quel momento che si accorse di non avergli chiesto il nome.
Uscì in strada. Mai come allora si accorse di quanto fosse piacevole l'aria tagliente e frizzante dell'inverno, uno spirito che purifica, dissolvendo il caldo artificiale delle illusioni.
" So ham" iniziò a ripetere.
Sentì che un giorno lo avrebbe cercato per chiedergli il nome. E che, quello stesso giorno, avrebbe scoperto anche il suo.
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