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Un milione di occhi

Poesia

Pietro Secchi
LietoColle

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 28/03/2014 12:00:00

 

Figura cara e preziosa quella di Pietro Secchi, per onestà soprattutto e presenza di scrittura senza infingimenti, nuda e cruda nel possesso forte di una semina iscritta senza sconti tra le pieghe più dolenti e inquiete di un moderno che procede tra negazione e abissi di cancellazione. Abisso che infatti è il discrimine, in azzeramento, su cui si muove questo breve ma agile libricino ed in cui nella stretta necessità del ricominciamento e della veglia è la virtù onnicomprensiva ma soprattutto onnisciente dello sguardo a farsi sentinella e guida nella marcia di riavvicinamento ad una terra oramai al limite per presenza e saccheggio umano. Poeta vero, oltre che intellettuale fine nel seno di indagini che si accompagnano da sempre allo studio filosofico, sa bene infatti che la tessitura e la forza della parola poetica è nel potere unificante dell’immagine, nella riduzione delle distanze in cui nomi e cose si riconoscono ogni volta nuovi e rifondanti nella parabola di mondi che finalmente si osservano e si dicono tra riconoscimenti e pronunce di diversità. Nel “potere eterno della visione” allora è tutta la fede e la pazienza di un’impronta salda nel fiorire “come i doni aperti che attendono” in cui è possibile accorgersi di un divenire che con costanza, rigore e amore (come l’esercito di formiche ne “Eppure sono gli occhi di pece”) continua l’opera di una natura che sa in se stessa muoversi e perpetuarsi a dispetto nostro. Nella determinazione del dettato però la singolarità del procedere è dato in Secchi dai coinvolgimenti e dalle risonanze dei sensi tutti nelle aperture e rivelazioni piene della visione cosicché, a proposito di marcia e in particolare nei primi testi, è soprattutto da un presentimento di suoni, di voci l’annuncio e l’immagine (sovente in questa poesia accompagnate da presenze animali) del rovesciamento salvifico a fronte di un terrifico presente di rovina (come in “Chi ha detto che è finita?” nell’avvicinamento invisibile di un milione di occhi pronti nell’aggressione degli spazi a “celebrare la grandezza del cuore dell’uomo”). Marcia ed occhi di giusti, di “colombe mimetiche”, nella profezia e nel silenzio di una nuova era a rompere quell’assuefazione di morte entro cui, tra le maglie di un sistema economico al collasso e occlusioni di libertà fittizie, il mondo rinchiude se stesso. Giacché nella ferma convinzione che la ri-creazione del pensiero passi da una classicità di direzione e forma che viene da lontano (“Atene risorge dove muore New York” ci dice in una sarcastica invettiva), all’inedia di generazioni che vagano coatte e senza testa nel vuoto di un sé idolatrico, Secchi ci consegna nella fatica di nudi“operai/della terra che non ha bisogno di eroi”, di uomini soli e storpi ( in una immagine quasi evangelica che parte dagli ultimi seppure nel registro di un Paraclito le cui pagine sembrano oggi “vecchie e desuete” ) il silente, appunto, e inarrestabile avanzare della falange “dell’umanità risorta”. Ritorno ed alleanza primigenia con la terra stessa, dunque, che il poeta veglia e canta nel compito di profezia e di dolore che gli è proprio, nella visione rivolta a quell’altrove di creazione che di lì nel divenire reclama e lo reclama nella metamorfosi di costruzione di un tempo ovunque nuovo nel movimento e nell’annuncio degli insiemi (in un riferimento non a caso a quel Majakovskij a cui nel sottotitolo va l’omaggio). La necessità “di nomi veri,/ che risuonano solo nel coraggio/ della spina nel costato” , sorge allora dalla considerazione sempre parziale e in superficie che ha di sé, anche nella commozione, un’epoca senza prossimità e vera incarnazione come la nostra in cui la stessa parola risulta sovente ferma ad una pudore che per falsa sacralità non dice. Dizione a cui invece questo testo invita con urgenza partendo dalla scansione, in partecipata e percepita fatica dell’umanità sofferente (secondo la ricordata formula di Berkeley, “Esse est percipi”, che tutto l’essere di un oggetto consiste di fatto nell’essere percepito) sui cui sacrifici si regge il peso del mondo e “che brillano ancora/ costruendo l’universo più vero”. Il riconoscimento, iscritto come detto nel miracolo dell’iride, e tutto in quel vedere per comprendere in cui si chiude il testo, avviene così nell’orizzonte di uno stupore e di uno scoprire che si inoltra fino ai limiti della conoscenza, perché “il futuro è già qui”, proprio nella stretta di mortalità che ci definisce e costringe nella pazienza umile del seme. Ed è in questa erezione di “templi greci/sul mercato del petrolio” (seppure a tratti sotto il peso di un eccesso di retorica) il lascito ed il bene vero di una scrittura incisiva.

 


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