Pubblicato il 08/04/2008
Ci estraiamo a stento dallo scantinato imbrattati di lavoro, fatica e parole, tante parole. Fuori ci aspetta la pioggia che sembra un fastidioso inconveniente ma, in realtà, è lì proprio per noi. Pochi passi sino all’auto e già le gocce, rade e pesanti, mi danno l’impressione di essere più pulita dentro. Cosa andremo a cercare oggi? Non lo sappiamo bene, l’importante è che non siano parole. Ci ritroviamo nell’antico tempio dove il silenzio è amplificato da un lieve sottofondo di musica sacra. Saba, un nome sparito, lontano. Una casa perfetta per l’uomo e per Dio, per l’arte e la storia, per il finito e l’infinito. Già la bellezza scende a consolare l’amarezza del brutto che mi possiede. Usciamo e, inseguendo un ricordo e un’assonanza, cerchiamo un altro tempio. Le porte serrate ci sbarrano il passo ma, accanto, un umile uscio di tavole di legno accende la domanda. Cosa celerà l’umile passaggio? Lasciamo la terra dei secoli e dei millenni passati e, golosi e invadenti, varchiamo i confini della città che non è nostra malgrado noi qui siamo nati. Stordita mi chiedo se sono in un sogno o se ho dimenticato di essere una malata terminale sotto l’effetto della morfina. Decine di gatti, di tutti i colori e gli umori. Vorremmo toccarli: a me, poi, non basta guardare. Devo possedere col tatto tutto ciò che mi attrae. L’amico al mio fianco non sa quante volte avrei voluto ad occhi chiusi, come se mai avessi posseduto il dono della vista, seguirne il profilo, assaporare con i polpastrelli le morbidezze e le asperità del volto, per essere certa che esiste. È questo il pensiero che si riaffaccia quando il vecchio ci caccia lontano dai mici perché non si disperda l’unico universo d’amore che possiede. Lo faccio per lui che mi rinnova nel cuore un profondo dolore ma soffro per non aver potuto affondare le mani in tutto quel folto pelo, per non aver lasciato che le raspose lingue mi lambissero piedi e caviglie, per non aver placato in un abbraccio animale la mia sete di tenerezza. Intorno il volto del degrado e della demenza senile: una foto di mia madre. Lasciamo la terra dei vecchi, dei gatti e dei balordi. Non basta e, senza saperlo, varchiamo la soglia dell’Eden. La giungla, l’oriente, il giardino dei ciechi, il bosco e l’orto del cuoco o della fattucchiera ci accolgono ospitali. La pioggia ne esalta gli odori, dalla terra sale un primordiale sentore di patria: il giardino è mistico e carnale. Siamo, forse, Adamo ed Eva? Eppure non ci vergogniamo di essere nudi, consci dell’assenza di peccato che accompagna il visitatore in questo magico luogo. Anzi, ci sentiamo fieri della nostra incivile nudità ‘che l’occidente vestito in doppiopetto blu sa solo ingoiare e distruggere il Paradiso Terrestre. E il Dio che ha creato ed abita il Giardino è come mi immagino Dio: accoglie tutti, ti ingoia ed aggancia con il suo sguardo seducente, difende il suo Eden dalle brame del Serpente e dei suoi adepti. La Bibbia la scrivono gli uomini che hanno visto Dio. E noi cosa vedremo? La luce più pura e pulita, compiuta in ogni sua indistinguibile particella che svela l’eterno custodito da Roma. Questa inconcepibile luce è l’armatura che mi offre in dono l’amico mentre mi lascia andare verso il mio destino: mi prega di indossarla perché almeno si rimarginino le ferite prima che altri fendenti squarcino la carne. Ed io, per una volte umile, ubbidisco: mi vesto di luce perfetta e sopravvivo all’insulto dell’abitudine.
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