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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Un prezioso e inquietante stereogramma

Argomento: Letteratura

Articolo di Paul Auster 

Proposta di Fabrizio Oddi »

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Pubblicato il 19/07/2020 11:30:39

Un prezioso e inquietante stereogramma

 

La musica del caso di Paul Auster

 

“Per me la più piccola parola è circondata da acri ed acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia.”

 

(Paul Auster, Leviatano)

 

“Tutti sappiamo che la vita dipende da avvenimenti inaspettati. Può finire da un momento all'altro e non sai cosa succederà tra un attimo. A volte succedono cose bellissime, altre volte terribili [...]

Noi umani abbiamo desideri, volontà, formuliamo pensieri sul futuro. Quello che è interessante, però, nella vita, è il fatto che siamo tutti capaci di fare dei piani per il domani, ma poi arriva l'inaspettato e interferisce coi nostri progetti. E, nonostante le nostre capacità decisionali, eccoci a dover fare i conti con l'imprevisto [...].

 

(Intervista a Paul Auster di Maria Serena Palieri, Lessico dell'imprevisto, ne “l’Unità”, 25 luglio 2004)

 

Paul Auster

 

consacrato tra i più promettenti autori contemporanei dalla sua celeberrima Trilogia dedicata alla città di New York (City of glass, 1985; Ghosts, 1986, e The locked room, 1987), romanziere, poeta (Disappearances. Selected Poems, 1988; Ground Work. Selected Poems and Essays, 1970-1979; Affrontare la musica - Collected Poems - 2004), saggista (L'invenzione della solitudine, 1982; Esperimento di verità, 1992; L'arte della fame del 1992; Il taccuino rosso, 1993-1995, Sbarcare il lunario del 1997, Una menzogna quasi vera del 1998, Ho pensato che mio padre fosse Dio del 2001, Le trame della scrittura 2005, Diario d'inverno 2012; Qui e ora. Lettere 2008-2011, 2013; Notizie dall'interno 2013), sceneggiatore e regista (Smoke, regia di Wayne Wang del 1995; Blue in the Face, regia di Wayne Wang e Paul Auster del 1995; Lulu on the Bridge, del 1998; The inner life of Martin Frostdel 2007), attore (in The Music of Chance, regia di Philip Haas del 1993) e produttore cinematografico, sposato con due scrittrici, prima Lydia Davis e poi Siri Hustvedt, rappresenta a buon diritto uno dei nomi più prestigiosi della letteratura statunitense contemporanea e mondiale.

 

Acquisendo uno spazio importante grazie a pubblico e critica, Auster raccoglie prestigiosi riconoscimenti letterari, cinematografici e onorificenze, e la sua attività letteraria è anche confluita nell’impegno civile e politico.

 

La sua scrittura, che si può ricondurre nell’ambito di quel movimento letterario (trasversale a filosofia, arti, architettura, critica ...) del postmodernismo, fa emergere, grazie alla sua incisività e assenza di remore e alla sua abilissima capacità introspettiva ed esploratrice, l’identità umana, le angosce esistenziali, le nevrosi, i fallimenti e le solitudini dell'uomo contemporaneo, senza né aspettative né speranze, in un mondo incomprensibile, ove tutto appare spesso condotto dal caso, dal destino, dalle coincidenze, incoerenze e contraddizioni (come per l’appunto nel suo romanzo, La musica del caso, come vedremo più avanti), e dove si intrecciano romanzo poliziesco ed esistenzialismo, psicoanalisi e post-strutturalismo (influenza di Jacques Lacan), trascendentalismo (influenze da Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson).

 

La sua molteplice e variegata attività letteraria e anche cinematografica, risente tra gli altri autori, di modelli quali Franz Kafka, Samuel Beckett, Edgar Allan Poe, Herman Melville, Miguel de Cervantes, Kurt Vonnegut, Albert Camus, ma anche della letteratura italiana, come apprendiamo, ad esempio, da un’intervista rilasciata a Pordenone nel 2009 (rinvenibile su YouTube), ove lo scopriamo grande appassionato e competente della nostra letteratura.

 

Durante tale evento, pur ammettendo di lasciar fuori vari di nomi, ma facendo del suo meglio per ricordarne il più possibile, Auster nomina tra gli italiani grandissimi poeti (Petrarca, Dante, Cavalcanti, Leopardi, Ungaretti e Montale) e romanzieri (Svevo, Calvino, Umberto, Eco – soprattutto per i suoi saggi -, Carlo Emilio Gadda, Tabucchi), menzionando anche Tommaso Landolfi (in particolare con il suo La moglie di Gogol).

 

Scrittore, poeta, traduttore, saggista e glottoteta italiano,Tommaso Landolfi infatti ha uno spazio, raffinato e tutto suo nella letteratura novecentesca, anche se non è molto conosciuto a livello di lettori, ed è stato anche trascurato da una parte della critica letteraria (ma non da Umberto Eco, Wolfgang Iser, Hans-Georg Gadamer, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Carlo Bo, Pietro Citati, Walter Pedullà, Antonio Prete, Harold Bloom, Susan Sontag, per fare alcuni nomi): ciò sia a motivo del suo distacco rispetto alle tendenze letterarie italiane e della sua critica di stampo aristocratico e conservatore (e non impegnata) rispetto alla moderna società dei consumi, come pure per la notevole ricercatezza (e abilità nella manipolazione, con lo suo stile per certi versi sperimentale e barocco) della lingua e della sua poetica riconducibile in certo qual modo nell’ambito del surrealismo. Emblematico l’oggetto della sua laurea (nel 1932) in lingua e letteratura russa presso l'Università di Firenze, con una tesi sulla grande poetessa russa Anna Achmatova.

 

Opere di Paul Auster, quali la richiamata Trilogia di New York (1987), Moon Palace (1989), La musica del caso (1990), Leviatano (1992) Mr. Vertigo (1994) Il libro delle illusioni (2002), Follie di Brooklyn (2005), Viaggi nello scriptorium (2007), Invisibile (2009) Sunset Park (2010), possono sicuramente annoverarsi tra i capolavori letterari.

 

La musica del caso

 

“Per un anno intero non fece altro che guidare, viaggiando avanti e indietro per l'America nell'attesa che i soldi finissero. Non aveva pensato che sarebbe continuato così a lungo, ma una cosa ne portò con sé un'altra, e al momento in cui Nashe si rese conto di ciò che gli stava accadendo, non aveva più la possibilità di desiderare che finisse. Il terzo giorno del tredicesimo mese incontrò il ragazzo che si faceva chiamare Jackpot. Fu uno di quegli incontri casuali, imprevisti, che sembrano nascere dall'aria sottile – un ramoscello spezzato dal vento che improvvisamente atterra ai tuoi piedi. Fosse capitato in qualunque altro momento, Nashe probabilmente non avrebbe aperto bocca. Ma poiché si era già arreso, poiché credeva che non ci fosse più niente da perdere, considerò l'estraneo come una sorta di sospensione della pena, come un'ultima possibilità di fare qualcosa per sé prima che fosse troppo tardi. E proprio per questo non ebbe esitazioni. Senza il minimo tremito di paura, Nashe chiuse gli occhi e saltò.”

 

(La musica del caso, Incipit).

 

Veniamo all’oggetto dell’odierna analisi, vale a dire al romanzo The Music of Chance (del 1990), pubblicato in Italia con il titolo La musica del caso dalle case editrici Guanda (1990) ed Einaudi (2009).

 

Del romanzo è stata fatta una trasposizione cinematografica, presentata al Festival di Cannes del 1993, con la regia di Philip Haas, e nella quale Paul Auster figura addirittura come attore, nei panni di un autista (con un ottimo cast: James Spander, Mandy Patinkin e Joel Grey).

 

Un breve accenno alla trama prima di passare all’analisi.

 

Incontri, eventi, dovuti al caso, alla fortuna, al gioco o al destino?

 

Un incontro importante quello tra Jim Nashe, vigile del fuoco, e il giocatore di poker Jack Pozzi, detto “Jackpot”.

 

Il primo, Nashe, lasciato dalla moglie anche per le sue gravi ambasce economiche, deve separarsi anche dalla piccola figlia di due anni, lasciandola alla sorella che vive altrove. Ma Nashe ha un’improvvisa fortuna, ereditando una cospicua somma per la dipartita del padre, che non vedeva da anni: Jim allora predispone un fondo fiduciario a beneficio della figliola e con la sua Saab 900, appena acquistata, intraprende, senza avere una destinazione definita, un lungo viaggio lungo le strade americane.

 

Jack Pozzi, nel qual si imbatte durante una sosta del suo interminabile viaggio Nashe, propone a quest’ultimo di tentare il colpo grosso in un promettente torneo di poker in Pennsylvania.

 

Ecco dunque un altro incontro, quello con i due milionari (grazie ad un’ingente vincita ad una lotteria) Flower e Stone: personaggi del tutto particolari, che nella loro tenuta vivono isolati dal mondo, con passatempi che appaiono veramente bizzarri: la collezione di oggetti storici di Stone e il plastico della “Città del Mondo” di Stone, ove tutto appare avvenire contemporaneamente.

 

In una situazione irreale, durante il gioco Pozzi e Nashe che cosa arriveranno a mettere in palio? E che cosa rappresenta il muro che i due milionari hanno in animo di costruire con le pietre di un antico castello irlandese, risalente al XV secolo, acquistato dai due e fatto demolire in blocchi e trasportare nella tenuta?

Il gioco allora, in modo del tutto surreale, può trasformarsi, quale metafora della vita, in altro?

 

Un prezioso e inquietante stereogramma

 

Dall’architettura generale del romanzo – da ritenersi bellissimo – di Paul Auster, scaturiscono una o più chiavi d’interpretazione.

 

Il libro ha infatti dietro di sé un quadro, un disegno, un impianto costruito dall’autore come la tela di un ragno (Cerami).

 

Si potrebbe usare anche il termine “stereogramma”.

 

Ma mentre, letteralmente, con il vocabolo in questione si intende un’illusione ottica fatta di particolari immagini piane che inducono chi le guarda a vedere, al loro interno, una figura tridimensionale, per il romanzo La musica del caso il lettore deve riuscire a far emergere, con un’attenta lettura, proprio l’immagine tridimensionale che è sottesa all’immagine piana delle parole che via via sta leggendo.

 

Compito di un lettore attento è svelarlo nelle sue maglie sottili e nei suoi intrecci per gustare a fondo l’abilità e perizia dell’autore nel dosare tutti gli elementi (personaggi, luoghi, vicende) come per capire l’opera più in profondità, il suo messaggio. Tutto questo c’è sia nell’opera letteraria come in quella cinematografica, teatrale, radiofonica.

 

L’incipit del libro di Paul Auster, richiamato in precedenza, sembra porre la fine all’inizio, ma in realtà Auster non anticipa la fine: delinea tutti gli elementi in base ai quali inevitabilmente scaturirà l’epilogo della vicenda (p. 1 e segg. del I cap.).

 

Si predispone, più precisamente, un quadro d’insieme di ineluttabilità (a quanto appare), tracciato fin dall’inizio: anche se le vicende di Jim Nashe che l’autore ci porta a seguire ci fanno dimenticare, fino all’epilogo dell’ultimo capitolo (p. 3).

 

Il nostro autore, Paul Auster, quale voce che parla sceglie (anziché la prima) la 3a persona, introducendo in tal modo un io impersonale, neutro, che riferisce vicende accadute ad altri. Ritengo molto interessante riportare quanto osservato in merito dal compianto Vincenzo Cerami in Consigli a un giovane scrittore (Torino, Einaudi, 1996, pp. 38-40), cui si rinvia.

 

“Dietro una bella storia c’è sempre un sapientissimo lavoro di costruzione e per un narratore conoscere bene i «ferri del mestiere» è condizione non sufficiente ma senz’altro necessaria” (p. 66: idem, Cerami)

 

Sotto tale profilo appaiono significativi i temi musicali (che ben può apprezzare, scorrendo le opere musicali richiamate nel romanzo, un esperto di musica classica): le “Barricate misteriose” di Couperin (che tornano due volte: p. 12 e p. 174), “Jitterburg Walte” di Fats Waller, “Jerusalem” sulle parole di William Blake, “Il quaderno di Anna Magdalena Bach”, “Il clavicembalo ben temperato”, “Le nozze di Figaro”, la Quinta Sinfonia di Beethoven (che scaturisce dal campanello della villa di Flower e Stone); e gli autori citati: Bach, Couperin, Mozart, Beethoven, Schubert, Bartòk, Satie e Verdi.

 

Come pure importanti sono le letture menzionate (Il nostro comune amico di Charles Dickens, le Confessioni di Rousseau con l’aneddoto dei sassi contro gli alberi, le opere di Shakespeare). Notevole in particolare la citazione tratta da L’urlo e il furore di William Faulkner: dopo che “per varie settimane” non aveva letto “quasi nulla”: “finché un giorno, in preda al disgusto, rischia tutto quello che ha voltando una sola carta”.

 

LE FIGURE PATERNE:

 

Nelle figure paterne del padre di Jim Nashe, di Jack Pozzi e dello stesso Nashe che, pur suo malgrado, deve affidare la figlia alle cure della sorella, possiamo riscontrare delle similitudini.

 

Tutti e tre abbandonano infatti i propri figli all’età di 2 anni.

 

Lo stesso Paul Auster ha un rapporto problematico con il proprio padre, che traspare, dalla sua prima opera autobiografica del 1979, L’invenzione della solitudine, incentrato sulla morte del padre e sul rapporto problematico con il genitore, che era sempre vissuto con lui.

 

A causa dell’abbandono di Thérèse, Nashe non “poteva prendersi cura di una bambina di due anni” (p. 4), per cui era stato costretto a portare la figlia Juliette dalla sorella Fiona in Minnesota. A causa di ciò Nashe “perderà” l’affetto della figlia. Non dà retta alla sorella Donna: “non essere avventato, aspetta un po’, non tagliare i ponti dietro a te” (p. 7).

 

L’elemento viene subito ripreso con il parallelo con il padre di Nashe che l’aveva lasciato (come in sostanza fa Nashe con la figlia perché non sa “prendersi cura” di lei) nella medesima età.

 

La figura materna, femminile, invece è molto più sfumata e negativa (la moglie di Nashe, Thérèse, abbandona la figlia a 2 anni, ma senza voltarsi indietro), e vi fa da contrappeso la figura della sorella Donna, cui vanno le lodi.

 

SIMBOLOGIE:

 

IL MURO: La Prigione - Il Gioco - Le Barricate Misteriose di Couperin

 

LA PRIGIONE del modellino, del “mondo in miniatura” di Stone con la sua aura orribile può ricollegarsi al MURO da costruire ogni giorno un po’ più alto.
La prigione è anche la vita di continuo viaggiare che Nashe ha scelto dopo l’eredità. “Stava giungendo gradualmente a rendersi conto che era prigioniero” (p. 20).

 

“Non sapevo che fossimo in prigione -disse Nashe- Pensavo che fossimo stati assunti per fare un lavoro. - È così -disse Murks- Ma loro non vogliono che ve ne scappiate senza pagare” (p. 116).

 

Il muro - da costruire sulle spoglie del castello del quindicesimo secolo dell’Irlanda occidentale - è importante per Flower e Stone: “non c’è niente di più misterioso o di più bello di un muro. Già me lo vedo: laggiù nel prato, che si erge come un’immane barriera contro il tempo. Sarà un monumento a se stesso, signori, una sinfonia di pietre risorte, e ogni giorno canterà il lamento funebre per il passato che ci portiamo dentro.” (p. 84)

 

Così anche per Nashe.

 

“Quando iniziò la quarta fila, il muro cominciò a cambiare ai suoi occhi. Adesso era più alto di un uomo, più alto anche di un uomo alto come lui, e il fatto che non potesse più guardare oltre, che gli bloccasse la vista dall’altra parte, gli dava l’impressione che fosse accaduto qualcosa di importante. D’un tratto, le pietre si erano trasformate in un muro, e nonostante la fatica che gli era costato non poteva fare a meno di ammirarlo […] Non si era mai considerato un uomo destinato a grandi cose. Per tutta la vita aveva dato per scontato di essere uno come gli altri. Adesso, a poco a poco, cominciava a sospettare di essersi sbagliato” (pp. 193-194). È il muro “la vera storia” (p. 206) della vita di Nashe?

 

Il muro può dunque assurgere a metafora, positiva o negativa, della propria vita, oltre che a una sorta di riparazione per riparare ai propri sbagli mediante la sua costruzione; per vivere i propri giorni che sovente sembrano (apparentemente uguali e talora senza scopo), ma nei quali vi è sempre un segreto da scoprire.

 

 

IL GIOCO

 

Un riferimento al “muro” è anche nel gioco.

 

Afferma infatti Pozzi (ma Pozzi può vincere nel gioco?).

 

“La cosa fondamentale era restare imperscrutabili, costruire un muro attorno a sé e non lasciare entrare nessuno” (p. 63).

 

Così nella nostra vita. Ci vengono addebitati costi che pensavamo di non avere (così a Nashe e Pozzi quando invece sembrava che avessero terminato il loro contratto); i nostri compagni e amici spariscono (come Pozzi per Nashe), ma dobbiamo continuare (a costruire il muro), anche quando potremmo sottrarci a questa prigione (come la prigione del “mondo di Stone”).

 

Il gioco è visto in modo negativo. Oltre a Jack Pozzi, detto Jackpot “colpo grosso”, anche Nashe indulge nel gioco. Prima nel casinò (p. 15) e poi nel gioco delle corse (pp. 20-21). Non è vero quanto afferma Jack Pozzi che nel gioco non ci sia “niente che non si può controllare”, che si può fare ciò “che si vuole”, essere “padrone” di sé stesso (p. 33).

 

Auster, prima per bocca di Nashe: “Niente lavoro? Nessun sostegno se le cose si mettono male?” (p. 33), e poi per bocca di Calvin Murks, esprime il suo parere negativo in merito.

 

Perché Pozzi - come Nashe - deve alla fine fare un lavoro come un “prigioniero”? “Perché tu giochi a carte e io no” (p. 138).

 

Nashe ha un sogno premonitore che contiene gli elementi della futura situazione nella quale si troverà sia lui che Pozzi (con i relativi esiti negativi): “A un certo punto della notte sognò una foresta dove il vento passava fra gli alberi producendo un suono di carte rimescolate” (p. 54).

 

LE BARRICATE MISTEROSE DI COUPERIN

 

“Le Barricate misteriose. Gli era impossibile suonare quest’ultimo pezzo senza pensare al muro” (p. 174).

 

LA NUMEROLOGIA

 

Non può non notarsi, facendo attenzione, la ricorrenza dei due numeri tre e tredici.

 

Nashe muore nel giorno in cui è nato: “il giorno del suo compleanno, che cadeva il tredici dicembre” (p. 195). È lo stesso giorno in cui assolve il debito contratto con Flower e Stone. Si accorge “nella terza settimana di novembre” (p. 195) che “avrebbe riscattato la sua libertà il giorno in cui compiva trentaquattro anni” “alle [ore] tre” del pomeriggio” (p. 196).

 

E il romanzo comincia nel suo incipit “Per un anno intero non fece altro che guidare: il terzo giorno del tredicesimo mese” (p. 3).

 

Inoltre all’Hotel Plaza Nashe “senza dir nulla a Pozzi […] depositò tredicimila dollari nella cassaforte dell’albergo.” (pp. 40-41).

 

Il pianoforte verticale Baldwin, di cui Nashe deve disfarsi gliel’aveva “comprato sua madre per il tredicesimo compleanno, e di questo le era sempre stato riconoscente sapendo la fatica che aveva fatto per trovare il denaro.” (p. 12).

 

Inoltre, sotto questo profilo numerologico, appare rilevante la circostanza che i capitoli del romanzo La musica del caso siano 9, vale a dire un multiplo di 3, e più precisamente 3 al quadrato.

 

Disegno voluto o ricorrenze “casuali”, magari però “istintive”?.

 

I CORVI

 

Gli “unici uccelli rimasti nel bosco” insieme a “passeri, cardinali rossi, cinciallegre, ghiandaie” sono “i corvi.

 

Soprattutto loro, pensava Nashe. Ogni tanto, piombavano a capofitto sul prato, emettendo le loro strane grida strozzate, e lui interrompeva quello che stava facendo per vederli passare sopra la sua testa. Amava la repentinità del loro arrivo e della loro partenza, il modo in cui apparivano e sparivano, come se non ci fosse alcun motivo.” (p. 194).

 

Mentre guida la SAUB 900 per ritornare nella tenuta di Flower e Stone, dopo essere andato a bere da OlliÈs, con Murks e Floyd seduti, insieme alla “neve” che “turbinava sul parabrezza davanti a lui” Nashe vede “nella sua mente” i corvi in picchiata sul prato che con le loro grida misteriose mandavano richiami mentre li osservava passare sopra di sé” (p. 206).

 

Altri elementi simbolici sono:

 

- la Villa di Flower e Stone (p. 64); la stanza, dove Flower e Stone accolgono Nashe e Pozzi (come un “set cinematografico”, p. 67); lo spazio aperto dove c’è “la Città del Mondo” di Stone e le cinque stanze (2 per la biblioteca!) in una della quale c’è la “Raccolta di oggetti” di Flower; la cena (il “banchetto infantile”);

 

e naturalmente i due particolarissimi passatempi dei due ricconi:

 

- “LA CITTÀ DEL MONDO” di Willie Stone: “una visione artistica dell’umanità”, “autobiografia” e “utopia” “un luogo dove s’incontrano, contemporaneamente, il passato e il futuro, dove alla fine il bene trionfa sul male” (p. 78);

 

e all’interno i suoi elementi:

 

Il Tribunale, La Biblioteca, La Banca, La Prigione. Willie li chiama i Quattro Regni della Solidarietà, e ciascuno ha un ruolo vitale nel mantenere l’armonia della città.” (ibidem).

 

- “IL MUSEO DEL MONDO” o “COLLEZIONE DI OGGETTI” di Flower cui Nashe ripensa continuamente, anche verso l’epilogo della storia: “i fazzoletti, gli occhiali, gli anelli, le montagne di assurdi reperti”. All’inizio gli era invece apparsa come “un monumento alla banalità”, “tutto così casuale [!], così mal costruito, così totalmente insensato [!]” (p.81).

 

Ambedue gli elementi, “la villa di Flower e Stone” e “la città del mondo”, hanno uno sviluppo, un’evoluzione.

 

Da notare l’etimologia dei cognomi dei due ricconi: Flower -fiore- e Stone -pietra. Inoltre, “la cosa strana è che tutti e due hanno lo stesso nome di battesimo, William.” (p. 32).

 

Sono le due facce di una stessa medaglia? Due aspetti complementari? “il talento artistico” e “l’antiquario” (80). Anche se “Flower si fa chiamare Bill, e Stone Willie”.

 

Le definizioni date all’inizio “Gianni e Pinotto”, “Stanlio e Ollio”, “la strana coppia”, non convincono Nashe (p. 85), che però si fa ingannare dalla cena infantile. Avrebbe dovuto osservare con più attenzione la cameriera Louise e il suo comportamento. È tutto serio, anche se artificiale: si sta consumando una tragedia e Nashe e Pozzi non se ne accorgono. I due ricconi si “erano preparati”, prendendo lezioni da “Sid Zeno”, mentre Nashe e Pozzi sono disperati e, inevitabilmente, perdenti.

 

Come accennato sia per “la Città del Mondo” di Stone sia per “il Museo del Mondo” o “Collezione di oggetti” di Flower, che sono da ritenersi intimamente collegate, ci sono degli sviluppi.

 

La prima reca “un’area deserta” (p. 79). Il lavoro cui dovrà dedicarsi Stone nei prossimi anni: “- La casa dove ci troviamo in questo modello -disse- La casa, e poi i torrenti, i prati, i boschi. Là sulla destra [...] sto pensando di mettere un plastico separato di questa stanza. Dovrei esserci anch’io, e questo significa che dovrei star lì a costruire un’altra Città del Mondo.” (p. 70), “un modello del modello”. Ma all’interno del modello e del modello del modello c’è anche “il muro”, pur se Stone non vi fa cenno.

 

“-Ma se facesse un modello del modello - disse Nashe- allora teoricamente dovrebbe fare un modello ancora più piccolo di quel modello. Un modello del modello del modello. Si potrebbe andare avanti all’infinito” (p. 79: ricorda in tal senso il fantasmagorico Borges).

 

Ma anche per Flower e per il suo “Museo del Mondo” c’è un nuovo “grandioso” progetto.

 

“-Ho iniziato ad ampliare i miei interessi in nuove direzioni, -disse Flower. -Le cose che vedete qui potrebbero essere definite frammenti, memorie minime, granelli di polvere, che si sono infilati nelle crepe.” (p. 82).

 

“Adesso ho iniziato un nuovo progetto che alla fine farà sembrare tutto ciò un gioco da bambini” (p. 82): è il progetto che i due amici hanno deciso insieme, il “muro o meglio ‘un monumento in forma di muro’ “ (p. 84). Si tratta dei resti del castello dell’Irlanda occidentale del quindicesimo secolo, di proprietà di Lord Patrick Muldoon “distrutto da Oliver Cromwell. Una rovina storica di rilevanza primaria”.

 

“Il nostro uomo di fiducia assumerà i muratori [!] e sorveglierà le operazioni giorno per giorno [!...] Calvin Murks (p. 84).

 

Flower - e Stone - stanno forse già parlando di loro? Il tutto è già preventivato?
A nulla servirà il rubare dal plastico, come forma di esorcismo, i due ometti raffiguranti i due ricconi.

 

Perché Nashe l’ha fatto? e quali saranno le conseguenze? Sembra nessuna. Ma siamo proprio sicuri. Non ci sarà una “vendetta” finale? Pozzi infatti lo redarguisce (pp. 133-136): “il danno è stato fatto”.

 

IL DENARO/I SOLDI

 

Il motore di tutto sembra il denaro: nel viaggio di ricerca di Nashe (quasi 200.000 $), nel gioco - Pozzi (5.000 $ dati dal padre per il diploma), nel potere - vincita alla lotteria dei due vecchi amici ricconi.

 

“Il denaro era la causa della sua libertà, ma ogni volta che lo usava per comprarsi un’altra porzione di quella libertà, si privava allo stesso tempo di una porzione uguale” (p. 19)

 

“Il denaro rappresentava qualcosa di così straordinario, di così monumentale nelle sue conseguenze, che travolse tutto il resto” (p. 5).

 

“Il denaro gli permetteva di viaggiare, ma era anche il motore della sconfitta: lo riconduceva inesorabilmente al luogo da dove era partito.” (p. 19).

 

Ma il denaro dà potere solo sulle cose (retta di cui Nashe era debitore per la madre gravemente ammalata; nuova macchina -la Saub 900 a due porte-; la vacanza; l’Hotel Plaza a New York), non involge gli elementi fondamentali della vita (non gli restituisce l’amore: la moglie Thérèse non tornerà; la figlia Juliette si allontanerà da lui).

 

C’è un giudizio di disvalore sul denaro, l’uomo deve lavorare guadagnarsi il pane con “il sudore della fronte” (rif. all’episodio della Genesi del paradiso terrestre e del peccato originale: v. infra).

 

Il denaro è uno strumento che può perderci: l’eredità di Nashe e i risultati rovinosi del tentativo di riaverlo giocando il tutto per tutto con pozzi. E ritorna anche in altri romanzi di Auster, come in Invisible (i soldi per consentire il lancio di una nuova rivista).

 

IL CASO

 

In realtà il “motore” vero della storia è IL CASO, connesso con IL RITARDO:

L’avvocato arriva tardi - dopo sei mesi; l’eredità arriva tardi per trattenere l’amore di Thérèse; Nashe aspetta troppo e arriva tardi per conservare l’affetto della figlia Juliette, Nashe fa tardi la sua richiesta a Fiona di sposarlo, sempre Nashe fa tardi a tornare al gioco che ferve tra Pozzi e i due ricconi; i lavori per il maltempo ritardano.

 

La CORSA, il VIAGGIO, la VELOCITÀ

 

La corsa è una sensazione che molti -io stesso- abbiamo provato nel guidare una macchina (specie la notte) sentirsi assolutamente di avere il controllo in quel fluido moto quasi automatico, magari al suono della nostra musica preferita.

 

Certo senza complicazioni: “strade note”, “aree aperte e disabitate”, “evitare il brutto tempo”.

 

“Ma anche nelle migliori condizioni, Nashe sapeva che nessuna strada era del tutto priva di rischi. C’erano costanti pericoli da cui guardarsi, e in qualunque momento poteva succedere qualunque cosa. Buche e sterzate, lo scoppio improvviso di una gomma, automobilisti ubriachi, la minima distrazione - ognuna di queste cose poteva ucciderti in un secondo”. (p. 14). È un altro indizio lasciato dall’autore e ricorda il memorabile Turista per caso di Anne Tyler (e la sua bellissima trasposizione cinematografica omonima del 1988 con la regia del grande Lawrence Kasdan, e attori del calibro di William Hurt  - Macon Leary -, Kathleen Turner - Sarah Leary - e Geena Davis  -Muriel Pritchett).

 

È un viaggio in senso proprio?

 

“Nashe non aveva nessun piano definito. Tutt’al più l’idea era lasciarsi andare alla deriva per un po’, viaggiare da un posto all’altro e vedere cosa succedeva. Pensava di stancarsi in un paio di mesi, e a quel punto si sarebbe seduto a riflettere sul da farsi. Ma i due mesi passarono e lui non era ancora pronto a smettere. A poco a poco, si era innamorato della sua nuova vita libera e irresponsabile, e una volta che questo accadde, non c’era più ragione di smettere” (p. 12-13)

 

“Era una prospettiva vertiginosa: immaginare tutta quella libertà, capire quanto poco importava la sua scelta, qualunque fosse. Poteva andare ovunque volesse, poteva fare qualunque cosa si sentisse di fare, e non c’era nemmeno una persona al mondo che ci avrebbe badato. Finché nn fosse tornato, avrebbe potuto essere invisibile” (p. 8).

 

“Si sentiva come un uomo che avesse infine trovato il coraggio di ficcarsi una pallottola in testa -ma in questo caso la pallottola non significava morte ma vita, era l’esplosione che provoca la nascita di nuovi mondi.” (pp. 11-12).

 

Ma Nashe capisce subito che è anche l’inizio della sua fine, uno “strano piccolo virus […] si era infilato nel suo sistema [… causando] un crollo mentale” (p. 9).

 

“Dopo quella seconda notte, Nashe si rese conto che aveva perso il controllo di se stesso, che era caduto nella stretta di qualche forza sconcertante e invincibile. Era come un animale impazzito, che sbandava alla cieca da un chissà dove all’altro, ma nonostante prendesse mille volte la risoluzione di fermarsi, non riusciva a decidere di farlo. Ogni mattina andava a dormire dicendosi che ne aveva avuto abbastanza, che era ora di finirla, e ogni pomeriggio si svegliava con lo stesso desiderio, con lo stesso bisogno irresistibile di strisciare di nuovo in macchina. “ (p. 8).

 

“Lottava per riottenere la stabilità di prima, ma la sua mente continuava a ritornare alla strada, all’entusiasmo che aveva provato quelle due settimane, e poco alla volta cominciò ad abbandonare ogni resistenza. Non voleva lasciare il lavoro, ma così non aveva tempo per guidare e cos’altro doveva fare?” (p. 9).

 

La vita non ha più senso senza un viaggio continuo, senza pensieri.


Nashe va dovunque ma sta sempre fermo. È indifferente il dove si vada.

 

“Sapeva che non era che un pretesto [“stabilire l’itinerario”, “scegliere la destinazione”, “programmare attentamente il percorso”], che i posti non avevano nessun significato in se stessi” (p. 14):

 

IL VIAGGIO (come altri elementi esaminati in precedenza) si fa Metafora della vita.

 

E nel viaggio non è importante dove si va come nella vita.

 

LA CORSA

 

“Rivoleva quella solitudine, quella corsa notturna attraverso il vuoto, quel rimbombo della strada sulla pelle” (p. 8).

 

ALTRI ELEMENTI sono la musica e la lettura.

 

“Occasionalmente si gettava ad acquistar senza risparmio libri e cassette” (p. 19).

 

LA MUSICA

 

“suonare […] aveva sempre su di lui un effetto calmante, come se la musica lo aiutasse a vedere il mondo con maggiore chiarezza, a comprendere il suo posto nell’invisibile ordine delle cose” (p. 12).

 

“Questo aveva sempre su di lui un effetto calmante, come se la musica lo aiutasse a vedere il mondo con maggiore chiarezza, a comprendere il suo posto nell’invisibile ordine delle cose.” (p. 12).

 

Così Nashe suona a Natale, durante la sua visita a Juliette, canta durante la “visita” di Tiffany alla roulotte ed è fondamentale anche in altri punti del romanzo.


È talmente importante che quando la musica “cesserà” bruscamente (la radio spenta da la musica nell’ultimo capitolo) ci sarà il silenzio e la morte.

 

LA LETTURA

 

“Prendeva una stanza in un motel da qualche parte, cenava, e poi torva in camera a leggere per due o tre ore” (p. 14).

 

Incontra di nuovo per caso Fiona in una libreria per il suo amore per la lettura.


In una circostanza “stanco di guidare [...] prese una stanza [...] e passò nove giorni filati a leggere libri in una sedia a sdraio accanto alla piscina.” (pp. 14-15).

 

All’Hotel Plaza dopoché Pozzi era andato a letto alle “dieci e mezza spense la televisione e si infilò a letto con un’edizione economica delle “Confessioni” di Rousseau, che aveva iniziato a Saratoga” (p. 53). C’è il brano del lancio dei sassi nella foresta e del sogno (dove c’è la foresta e il suono di carte rimescolate - p. 54).

E l’amore? È più in sottofondo.

 

Oltre a Tiffany (Dolores) -l’ultima figura femminile-, dopo Thérèse, la divorziata in Florida, l’insegnante che voleva fargli conoscere Donna, la giovane cameriera di Reno, c’è Fiona Wells, giornalista: “a nessuna aveva fatto una promessa” (pp. 17-18). Nel paragone con Thérèse quest’ultima è vista in modo più positivo, mentre della prima viene evidenziata solo la bellezza e in modo abbastanza “crudo” (cfr. commenti del capitano dei pompieri, p. 10, e di Pozzi, pp. 60-61).

 

Le “imperfezioni” di Fiona lo portavano a credere che i loro incontri fossero qualcosa di più del semplice sesso, qualcosa di più del semplice accoppiamento di due corpi” (p. 18). Purtroppo “proprio quando tutto si stava mettendo in ordine [!]” (p. 64), Fiona preferisce l’ex fidanzato, ritornato nel frattempo: “È solo che non posso contare su di te.”, dice a Nashe piangendo.

 

C’è invece l’empatia (la pietas) con la sofferenza, con il nostro prossimo.


Si crea un rapporto, un legame tra Nashe e Pozzi fin dal primo incontro.

 

Peraltro l’immagine di Jack Pozzi ferito che Jim Nashe vede può ritenersi figura dell’immagine di morte del compagno, che viene riportato sul prato vicino alla rulotte in fin di vita, perché aveva tentato la fuga.

 

Il sentimento di comprensione e fratellanza è un sentimento importante per l’autore. È un rapporto nel contempo di immedesimazione (simili vicende con il padre) e di senso di protezione (per l’appunto da padre, qual è Nashe).

 

L’empatia si crea (ma forse è più un sentimento di riconoscenza verso il carceriere) anche con Murks: “si disprezzava perché permetteva che i suoi sentimenti nei confronti di Murks si ammorbidissero, perché ricordava con tanta gratitudine la gentilezza del sorvegliante verso di lui” (p. 175). In verità, probabilmente più che di empatia, potrebbe affermarsi che si è creato tra prigioniero e carceriere quel fenomeno psicologico della c.d. “sindrome di Stoccolma”: un po’ come nel film di Liliana Cavani “Portiere di notte”.

 

Pozzi e Nashe pur simili e “perdenti” sono diversi.

 

Murks afferma infatti: “Alcuni hanno quello che ci vuole, altri no.” (p. 131).


E poi c’è il drammatico dettaglio della prigione, che Nashe scorge quando, assentandosi dalla partita con i ricconi, analizza con più calma i dettagli della “Città del mondo” di Stone.

 

“In un angolo del campo sportivo, i prigionieri parlavano in piccoli gruppi, giocavano a pallacanestro, leggevano libri” (p. 93)

 

Nashe può essere collocato in questo primo gruppo di prigionieri, perché si applica “felice ai suoi compiti”, come “unica soluzione del guaio in cui si era messo” (p. 106 (ma quale guaio? La sua vita ormai senza scopo forse). “Era quasi un sollievo aver perduto la possibilità di decidere, sapeva che finalmente la sua corsa si era fermata. Il muro non sarebbe stato tanto un castigo, quanto una cura [!] , un modo per tornare sulla terra [!] (p. 107).

 

Ma purtroppo c’è dell’altro.

 

Infatti, “con un brivido di orrore, scorse un prigioniero bendato in piedi contro il muro [!] giusto dietro di loro, sul punto di essere giustiziato da un plotone d’esecuzione [...;] che delitto aveva commesso quest’uomo, e perché veniva punito in questo modo atroce?” (pp. 93-94).

 

Forse quel prigioniero non si era integrato, non aveva accettato la sua “punizione”, e aveva tentato di fuggire: Jack Pozzi potrebbe venire inquadrato in tale “gruppo”. Reagisce con violenza alla proposta di pagare il debito costruendo il muro e dice a Nashe qual è la realtà della situazione: “-Divertirci? Per te alzare pietre è divertente? A me sembrano dei fottuti lavori forzati [!]” (p. 107).

 

Per tale mancata integrazione e per la sua fuga, in effetti, Pozzi verrà “giustiziato”. Il perché Pozzi viene riportato sul prato vicino alla roulotte potrebbe consistere in un monito per Nashe: come a dire ecco che cosa succede a chi vuole sottrarsi dai suoi obblighi, a chi vuole fuggire.

 

I lavori di Nashe e Pozzi sono casuali.

 

Nashe “Dopo aver lasciato l’università, era passato nei primi anni da un lavoro all’altro -libraio, uomo dei traslochi, barista, tassista - e aveva partecipato per caso [!] all’esame per diventare pompiere”. Pozzi per caso farà il commesso in un grande magazzino.


Lasciano il proprio lavoro rispettivamente per un viaggio senza fine e per il gioco (Nashe già in precedenza si era dato al gioco delle corse e del casinò): gioco che perderà entrambi.

 

In riferimento al gioco forse c’è un giudizio implicito di disvalore rispetto alla condizione dell’uomo.

 

I genitori di Paul Auster erano ebrei di origini polacche.

 

Viene immediato il pensiero a quanto nell’Antico Testamento viene detto nel giardino dell’Eden ad Adamo dopo il peccato originale (Gen 3,17-19 - “Bibbia di Gerusalemme”, EDB, 1995 -XIII ed., trad. CEI):

 

“All’uomo disse: […] maledetto sia il suolo per causa tua. Con sudore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché ritornerai alla terra perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai!”.

 

Tra l’altro nella medesima circostanza nei confronti di Eva (Gen 3,16)


“Alla donna disse: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”.


È invece il lavoro un elemento positivo. Figure positive in tal senso sono invece il comandante dei pompieri (p. 10) e Ray Schweiller, il cognato (p. 6), che è anche un buon padre.

 

Significativo, oltre agli elementi del “prato” e “roulotte”, anche l’episodio del bambino.


“Ancora un altro elemento fu gettato nel maelstrom della sua incertezza” (p. 176). È l’incontro con il ragazzino di 4 anni, nipote di Murks.

 

Ha 4 anni come la figlia Juliette, che gli è stata “strappata via” (anche se è diverso fisicamente: paragone a p. 177 e ss.), la figlia cui non ha fatto neanche gli auguri per il compleanno. Gli dà inoltre la colpa per la scoperta della fuga di Pozzi e la brutta fine del compagno.

 

Ha un impulso omicida fortissimo: tale circostanza dà modo ad Auster di indagare l’animo umano e i suoi reconditi recessi (p. 176).

 

La bellezza collaterale

 

Forse si può azzardare un giudizio che va oltre la mera analisi letteraria, di valore, partendo dal romanzo in esame.

 

C’è ne La musica del caso una visione disincantata e pessimistica della vita, senza fede.

 

La vita appare dominata dal caso ovvero da un dio che non è né buono né cattivo.

Dio non è partecipe delle nostre vicende, delle nostre sofferenze, dei nostri dolori, solo noi possiamo esserlo con i nostri simili (Nashe con Pozzi).

 

Nashe è simbolo dell’uomo. L’uomo in realtà appare governato da eventi nei confronti dei quali può fare poco. Egli non è artefice del proprio destino. Né della sua morte (anche se talvolta pensa di esserlo) come non lo è stato della sua vita e della sua nascita. È il caso che decide la nostra venuta al mondo, la nostra storia con tutte le sue vicende la nostra morte.

 

È forse artefice del suo destino? Così sembra quando prende la direzione sbagliata: ma l’autore subito corregge il tiro: “Fu una decisione improvvisa e non premeditata, ma nel breve tempo che passò fra le due rampe Nashe si rese conto che non c’era differenza, che in fondo le due rampe erano una sola.” (p. 7).

 

Nashe non ha deciso di suicidarsi (poteva essere un altro finale), anche se forse pensa al suicidio: “Immaginava l’immensità di quel campo bianco, e la neve che continuava a cadere fino a ricoprire persino le montagne di pietre, finché ogni cosa sarebbe scomparsa sotto una valanga di candore” (p. 206).

 

Non c’è più tempo e la scelta non è di rallentare ma - ancora una volta – quella della velocità.

 

È il caso a controllarlo con la sua musica: cui lasciarsi andare lentamente (Bach), o velocemente (la macchina) o con tutti gli elementi insieme, come fa Nashe.


Noi siamo fermi, non ci muoviamo, non agiamo in realtà.

 

Si diceva “appare”. Ma è davvero così?

 

Andando ancora più in profondità, spingendosi oltre all’analisi già accurata condotta è questo, da ultimo, il messaggio che Paul Auster intende affidarci o che comunque il suo romanzo ci trasmette nella nostra parte più intima?

 

Quando l’autore infatti dà alle stampe la propria creazione, cessa di esserne l’artefice e, pur dovendosi tenere in debito conto le eventuali indicazioni dello stesso, l’interpretazione del testo passa al lettore, ai lettori: non c’è insomma quella che a livello giuridico si definisce “interpretazione autentica”.

 

Non sembra di scarso rilievo, e anzi rivela la sua utilità, accennare al rapporto di Auster con Dio, con la fede, con la religione.

 

Auster, educato in una famiglia ebraica è ateo.

 

Antonio Spadaro S.I., nell’articolo Conversazioni americane su Dio, pubblicato su “La Civiltà Cattolica” (Quaderno 3740, A. 2006, Vol. II, 15 aprile 2006, pp. 157-168) pone una domanda preliminare:

 

“Qual è la domanda più grande che l’uomo può porre a se stesso e agli altri? La vita, la morte, il loro significato sono temi importanti, universali, materiali fondamentali per domande gravi”.

 

Citando lo scrittore, giornalista e attivista per i diritti umani e professore, nobel per la pace nel 1986, di origine ebraica Elie Wiesel, scampato alla deportazione nei campi di sterminio di Auschwitz, c’è però una domanda più grande, che Spadaro riprende dal saggio di Antonio Monda, Tu credi? Conversazioni su Dio e la Religione (Roma, Fazi, 2006):

 

“Alla fine dei conti l’esistenza di Dio è l’unico problema autentico […] nel quale tutti gli altri problemi sono riassunti e minimizzati” (Antonio Monda, ibidem, pag. 145).

 

«Dietro di me sentii il solito uomo domandare:

 

- Dov'è dunque Dio?

 

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

 

- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...»

 

(Elie Wiesel, La notte – La nuit-, 1950, Firenze, Giuntina, 1980, p. 67)

 

Antonio Monda, nel libro prima citato, raccoglie le conversazioni su Dio e la religione con 18 intellettuali e artisti statunitensi, tra cui 12 scrittori, e, per l’appunto, tra questi il nostro Paul Auster.

 

È pur vero che Auster “parla anche di momenti di passaggio nei quali l’«incantesimo» si è rotto, la fede si è oscurata e sono sorti molto problemi con i gruppi religiosi, con quella che egli definisce la «religione organizzata» (Spadaro, ibidem, p. 162), e “afferma di non credere”, tuttavia “riconosce nella religione «un elemento culturale fondamentale dell’esistenza» (Spadaro, ibidem, p. 160).

 

Sempre Antonio Monda, nel suo articolo del 6 ottobre 2017, apparso sull’inserto “Venerdì” de “La Repubblica”, dal titolo Il cinema di Paul Auser, ateo e pieno di grazia, incentrato in particolare sul grande successo cinematografico (“girato a Brooklyn, non lontano da dove abita lo scrittore, e divenne ancora più di culto del racconto”) Smoke del 1995 (regista lo scrittore insieme a Wayne Wang, con Harvey Keitel, William Hurt, Stockard Channing, Ashley Judd e Forest Whitaker), afferma

 

Se fosse credente, Auster direbbe di essere alla ricerca costante dell’anima: da ateo, quale si definisce, cerca di comprendere il mistero del cuore dell’essere umano [… «Io] vedo nella coincidenza tra la dichiarazione di felicità e l’imminenza della tragedia un mistero beffardo e insondabile»”.

 

Nel medesimo articolo, Sonda sottolinea come, sempre in Smoke, vengono riproposti “tutti i temi della narrativa dello scrittore, a cominciare da una struggente empatia per i personaggi, un atteggiamento mai sconfitto di fronte alle coincidenze che sembrano guidare le vicende umane, e una dignità venata di malinconia con cui i personaggi affrontano la fragilità dell’esistenza […] approccio pieno di calore [… con] una dimensione puramente autobiografica”.  

 

Ritornando ora a La musica del caso, il corpo, la corporeità, il rapporto con “la terra” sono visti in Nashe come un impaccio: c’è l’aspirazione alla leggerezza, anche nei rapporti umani.

 

Sono però importanti l’amicizia, l’empatia con il nostro prossimo, la genitorialità, la passione e l’impegnarsi in qualcosa. Alla fine, la stessa costruzione del muro addirittura, la relazione che Nashe intrattiene con la giornalista di San Francisco.

 

La vita, allora, nonostante ogni situazione, se si legge più in profondità nel romanzo di Paul Auster, oltre le vicende che scorrono nel testo (e che scorrono nella nostra vita), non è solo una roulette russa, un destino calato dall’alto e già deciso, un mero caso, la cui musica ci affascina.

 

“Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.” (Pablo Neruda).

 

Considerati i tre elementi ricorrenti nella vita di ogni persona: Amore, Tempo, Morte,

 

“queste tre astrazioni collegano ogni singolo essere umano sulla terra, ogni cosa che vogliamo, ogni cosa che abbiamo paura di non avere, ogni cosa che alla fine decidiamo di comprare e perché in realtà a conti fatti noi desideriamo l'amore, vorremmo avere più tempo e temiamo la morte.” (Collateral beauty, film del 2016, diretto da David Frankel, con un tripudio di attori, quali Will Smith - Howard Inlet -, Edward Norton - Whit Yardshaw -, Kate Winslet - Claire Wilson -, Michael Peña - Simon Scott -, Keira Knightley - Aimee Moore / “Amore” -, Helen Mirren -  Brigitte / “Morte” -, Jacob Latimore - Raffi / “Tempo”-, Naomie Harris – Madeleine -, Ann Dowd - Sally Price)

 

In ogni situazione, anche e soprattutto drammatica i cui tutti noi ci siamo trovati, ci troviamo e ci ritroveremo a vivere:

 

“La cosa importante da cogliere è la bellezza collaterale” (Collateral beauty).


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