Pubblicato il 02/09/2014 12:36:40
Meister Eckhart: dal silenzio alla parola Ungaretti - S. Giovanni di Colonia - Buddha La generazione della Parola, del Verbo, nell'anima è uno dei tratti più noti e importanti del pensiero di Eckhart, ed è interessante sottolineare il suo rapporto col silenzio. Se prendiamo, ad esempio, il sermone tedesco 30, che prende spunto dal versetto paolino 2 Tm 4,2, vediamo che Eckhart traduce il latino praedica verbum con «pronuncia, esprimi, produci, genera la Parola!»[1] . Qui, come molte altre volte nei suoi sermoni, il testo scritturistico viene dolcemente piegato al fine di permettere al Maestro di esprimere la propria dottrina. La generazione della Parola avviene nel silenzio e a partire dal silenzio: «Dormi di fronte a tutte le cose; il che significa che non devi sapere niente né sul tempo, ne sulle creature, né sulle immagini» [2] . Sia pure brevemente, anche qui Eckhart ripete la sua dottrina del distacco/silenzio rispetto a tutte le creature, la temporalità, le immagini[3] , come condizione primaria della generazione della Parola. Si noti che «immagini» significa rappresentazioni, contenuti, pensieri: il Maestro sta qui insegnando, dunque, una rimozione totale del «sapere» dell'uomo, che è colto nella sua dipendenza spazio temporale, dunque nel suo condizionamento, nella sua non libertà, nella sua non assolutezza, nella sua irrilevanza. Tale «sapere», legato al tempo e alle creature, si esprime infatti attraverso il riferimento alla dimensione mondana, storica, temporale appunto. Esso va tutto quanto rimosso: l'anima deve essere in profondo silenzio, anzi, «dormire» di fronte ad esso. Non ha qui spazio alcuno il sociale, lo storico, che è tutto determinato. Le rappresentazioni religiose biblico-cristiane, le «storie della salvezza», gli interventi di Dio nella storia, i «perché» che giustificano questo o quell'evento sono rimossi come irrilevanti, o, peggio, falsi e dannosi. Nel pensiero di Eckhart questo «sapere», infatti, non solo è determinato - psicologicamente, culturalmente, socialmente-, legato a un fine personale e dipendente da un «perché», ma, in quanto si pone come assoluto, vero, autoritativo, rappresenta anche una bestemmia. Essa è radicata in quella insincerità che tralascia di guardare in fondo all'io, di cercare le sottili ragioni della sua affermatività, della sua volontà di essere e di potere, ragioni che passano anche nel contenuto religioso[4] . Le affermazioni eckhartiane hanno un significato etico in stretto rapporto con la sua dottrina spirituale. Anche il sermone in esame indica tre punti: 1) «cogli Dio in tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose; 2) ama Dio sopra ogni cosa, e il tuo prossimo come te stesso. Se preferisci che cento marchi siano tuoi piuttosto che di un altro, non sei nel giusto. Se ami una persona più di un'altra, sei nel torto, e lo stesso se ami tua madre o tuo padre o te stesso più di un altro uomo. E se trovi preferibile la beatitudine in te stesso piuttosto che in un altro, non sei nel giusto. . . 3) ama Dio ugualmente in tutte le cose. Ad un uomo che ama Dio sarebbe altrettanto facile abbandonare l'intero mondo, quanto un uovo. . . » [5] . Insegnamento etico e dottrina spirituale sono lo stesso: si tratta di distaccarsi dall'io. Abbandonare se stesso è più difficile e più importante che abbandonare l'intero mondo[6] , ma è nel distacco da se stesso - dall'io come centro di volizioni, di rappresentazioni, di «immagini» - che allo strepito dei contenuti subentra la pace dell'unitas spiritus, che Dio scende nell'anima. Proprio come, per legge di natura, il vuoto trova subito quel che lo riempie, così Dio non può fare a meno di scendere ed abitare nell'anima silenziosa, che ha fatto il vuoto in se stessa[7] . Queste affermazioni, centrali e ben note in Eckhart, ci permettono di chiarire un punto molto dibattuto[8] , e di particolare attualità: quello dei rapporti tra il Maestro domenicano e il buddismo. Le affinità sono indiscutibilmente profonde. Lo sciogliersi degli schemi mentali grazie alla indifferenza a conseguimenti personali, l'esperienza buddista del vuoto, l'esperienza del liberarsi del pensiero dal condizionamento tramite il riconoscimento del nulla, della vacuità di ogni oggetto del pensiero stesso, è presente anche in Eckhart. Anche in lui questa è la necessaria purificazione dal determinismo, dal condizionamento universale. È la rimozione di tutti i contenuti, ivi comprese le «verità» religiose e la dipendenza da questa o quella rappresentazione del divino. Però in Eckhart ciò non diviene «verità», non si pone come ulteriore contenuto vero - che sarebbe a sua volta frutto di un tipo di vita, dipendente dal condizionamento degli eventi e dal fluire delle immagini. «L'uomo inferiore sfugge sempre a se stesso»: la scoperta della insignificanza dei contenuti, la scoperta di quel nulla che è al fondo dell'anima, ha senso solo come liberazione, e dunque come gioia infinita in un distacco sempre rinnovantesi - non come ulteriore determinazione su «come le cose stanno». Ecco perché Eckhart insiste sul «sapere nulla»[9] : formula certamente paradossale, ma significativa. Le formulazioni teologiche, metafisiche, della esperienza intellettuale e spirituale sopra indicata sono spesso fuorvianti, perché si prestano ad indicare un passaggio ontologico che è proprio quel che si vuole evitare. Infatti l'ontologico è, per così dire, il luogo in cui si condensa e si irrigidisce una esperienza, «una» Lebensform - cui corrisponde, deterministicamente, «una» Denkform -. Tradotto dal linguaggio metafisico in quello psicologico (attenzione: non nello spirituale, perché lo spirituale è irriducibile al metafisico; la signoria dello spirito sta su un piano superiore a quello del determinismo psichico, comepneùma è superiore a psychế)[10] , il metafisico esprime proprio quella che si vuole fissare come assolutezza di una esperienza, di un pensiero: assolutezza che è ben motivata, ma solo all'interno di quel pensiero, di quella esperienza, e cozza in modo irrimediabile contro altri pensieri e esperienze. La affermazione del puro nulla, come la troviamo nel buddismo, si inserisce tutta in questo tentativo di assolutezza ontologica e, in quanto tale, testimonia ancora una dipendenza, un legame, una volontà (l'uomo distaccato, invece, «nulla vuole»), che è poi quella di difendere un tipo di vita — poniamo del monaco asceta. Si comprende allora che il comando di «amare Dio sopra ogni cosa» non è affatto in contraddizione con la negazione di ogni immagine divina, di ogni determinazione relativa al divino quasi che, senza immagine, non vi fosse fede. Al contrario: l'immagine e la determinazione dipendono da una forma di vita e stanno per essa; rimangono dunque nell'ambito del condizionato, là dove il divino serve alla temporalità e alle creature, che rappresentano il vero fine. Il riferimento a Dio «senza immagini» (la Gottheit, non il Gott determinato nei modi) è la fede razionale, aprirsi sempre nuovo e più ricco alla vera trascendenza. La dissoluzione dei contenuti, il distacco, non danno il possesso di una realtà ontologica, ma la lasciano essere proprio nel suo vero essere trascendenza. L'Altro non c'è in quanto «conosciuto» che significa poi utilizzato, posseduto a fini diversi da lui medesimo, e, dunque, bestemmiato[11] , ma c'è una profonda gioia, che esprime, in modo estatico, il supremo valore. Rimane comunque assolutamente fondamentale il fatto che il distacco è un rivolgersi a Dio con tutto il cuore, ma non a Dio determinato nei modi, perché così starebbe per un legame. Solo il rivolgersi a Dio al di sopra dei modi permette davvero di fare il vuoto, ovvero è veramente distacco, e non ricerca di una condizione. È singolare che Eckhart ripeta, certamente senza averla mai letta, la formula neoplatonica: l'intelletto è il tempio di Dio[12] . Questo tempio deve essere assolutamente vuoto, perché Dio vi abiti, ma nondimeno v'è Dio. Se c'è difficoltà nello spiegare il concetto di Dio qui usato, portandolo necessa
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