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Un viaggio in Irlanda

di Savino Del Giudice
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Pubblicato il 20/02/2012 12:34:41

UN VIAGGIO IN IRLANDA

 

                                                  

 

CAPITOLO 1

 

 

Il calore…

Quel calore soffuso e prolungato che in quei momenti di estrema solitudine, mi confortava e dava un’inesorabile speranza la quale avrei voluto assaporare per tutta la mia vita. Il lungo ed estenuante trascorrere all’interno di quella cella ormai era diventato mio malgrado, l’unico appiglio che mi rimase riguardo la speranza di un domani migliore, ma alquanto incerto e inaspettato. Non avrei mai creduto di cadere così in basso nonostante tutte quelle piccole vicissitudini della mia esistenza che mi fecero riflettere sul fatto che un giorno o l’altro, mi sarei trovato in quella assurda vicenda. Io…uomo d’affari al culmine delle mie conclusive soddisfazioni e di innumerevoli accadimenti che portarono la mia vita ad un punto che non mi sarei mai aspettato, umiliato e deriso da tutto ciò che costruii con tanto fervore e accanimento…con la disperazione che aumentava di giorno in giorno e con il capo chino seduto su un letto il quale mi sembrò ormai il mio unico confidente, mi strinsi i capelli con tanta rabbia in corpo da non riuscire a comprenderne il motivo.

La vita oltre la mia comprensione trascorreva inesorabile senza che me ne rendessi conto e in quel momento, ebbi il timore di cadere nel baratro della frustrazione quando in quell’istante, non udii altro che l’insistente gocciolare dell’acqua sul pavimento.

Erano giorni, mesi forse…anni che condividevo qualsiasi cosa trascorreva all’interno di quelle quattro mura con chi mi stava intorno; l’abitudine ormai fece il posto alla costante consapevolezza di permanere ed affrontare il mio peggiore incubo ancora per non so quanto tempo.

Intravidi sfrigolare tra le pareti l’ombra della fiamma danzare in un sinuoso movimento incostante come se quell’apparizione fosse il mio unico amico, quasi a consolarmi e rassicurarmi sulle mie paure e sui miei risentimenti.

Le umide ed ingiallite pareti si stagliavano davanti a me come un muro invalicabile, una barriera in cemento che tratteneva tutti i miei desideri e tutte le mie speranze di una continuità di vita che si sovrapponeva all’angoscia di una razionalità cui non avrei mai voluto condividere con nessun’altro.

«Adesso che cosa faccio?» Pensai.

Come una cantilena estenuante quella frase continuava a rimbombare nella mia testa ogni volta che aprivo gli occhi, quasi per scongiurare i miei pensieri ormai distorti dal lungo permanere in quella gabbia, ripensai a tutti miei anni trascorsi cercando in qualche modo assurdo di rimediare ai miei errori ma senza un vano scopo, un minimo barlume di ripensamento poiché non avevo nulla da biasimare per quello che non feci, per le accuse mosse a mio carico. Il mio sguardo vagò costantemente per tutto il perimetro della cella, ero solo con me stesso e con i miei demoni che facevano di tutto per farmi perdere quella minima speranza che il mio cuore e tutta la mia anima ambivano ormai da tempo.

L’unico letto a castello appoggiato sulla parete nord era accora avvolto dalle coperte disfatte del giorno prima, inesorabilmente con quell’odore acre di chi non può usufruire delle comodità di un giaciglio caldo e confortevole che spetterebbe di diritto ad ogni essere umano. Il materasso cigolante e instabile che mi fece rimpiangere la casa di un tempo, dove il sorriso era ancora disegnato sfavillante sul mio viso. Ma scrollai insistentemente il capo per non pensare, per non far riaffiorare i ricordi che avrebbero potuto portarmi all’esasperazione di una via di fuga che forse, non sarebbe mai avvenuta. Alzai lo sguardo davanti a me come un automa in cerca di un qualsiasi appiglio razionale, poggiai distrattamente il braccio sul lavabo viscido, ingiallito del tempo e dall’igiene che ormai ebbe trovato altre dimore. Non mi resi conto dell’ora che si fece, ormai ogni giorno per me era uguale a tutti gli altri, appurai solo che tutte quelle anime perse che ormai erano diventati i miei compagni si stavano risvegliando da un sonno agitato e incostante.

«James, ci sono visite!» La voce di una guardia giurata, perché secondo il mio punto di vista si trattava ormai di suoni tanto abituato a non udire più un discorso concreto tra tutti gli uomini che mi stavano vicino, irruppe nella cella come un sussurro che mi scivolò addosso, quasi a non dar pero alle attenzioni rivolte a me da quei fantasmi che gradivano la mia presenza. La gola riarsa dall’umidità di quella notte, gli occhi ancora annebbiati a causa dell’inesorabile intorpidimento del sonno mi fecero per un attimo rinsavire dai miei pensieri.

«Arrivo!» fu l’unico suono incorporeo che produssero le mie corde vocali. Osservai per un attimo le sbarre gelide e arrugginite della gabbia scrollando la testa per rendermi conto finalmente che avrei potuto ottenere qualche minuto di libertà grazie a colui mi venne a trovare; sarcasticamente pensai che mi sarebbe piaciuto che quelle occasioni si fossero ripetute più repentinamente non tanto dal fatto delle persone che sporadicamente volevano assicurarsi che stessi bene, ma quanto alla soddisfazione di oltrepassare le sbarre. Erano ormai quattro mesi che mi ritrovai lì dentro ricordandomi solo il fragoroso battere della porta principale del carcere chiudersi alle mie spalle, essendo sempre stato un uomo razionale e con la testa sulle spalle, mi misi l’anima in pace rendendomi conto che non vi era nessuna scappatoia plausibile. Mi alzai faticosamente con i muscoli delle gambe indolenziti, il mio soggiorno mi fece dimagrire di ben trenta chili e ormai ero diventato pelle e ossa; i pasti che quotidianamente, alla stessa ora consumavo con estrema riluttanza erano la cosa più abominevole che mi fosse mai capitata ed era forse anche per quello, che in quel momento istintivamente mi premetti il busto constatando che non avevo più il fisico di un tempo. Le sbarre erano gelide…arrugginite lungo tutto il loro contorno e avvicinatomi con l’unico pensiero che dopo pochi istanti avrei potuto varcarle, le mie mani le strinsero come a rendermi conto che razza di posto era quello.

«Dai muoviti, non abbiamo tanto tempo.» Il fragoroso cigolio della porta mi fece rizzare i peli dopo che la guardia carceraria si prodigò a tirare fuori dalla cinta un mazzo di ferrose chiavi. Il rumore meccanismo e inusuale della serratura era così cupo, così ovattato che percepii persino gli scatti del chiavistello, il mio udito si era talmente sviluppato a quegli innumerevoli suoni repentini, che ormai non ne feci più caso e con un’arcigna…quasi beffarda e soffusa risatina sollevai lo sguardo per osservare minuziosamente l’uomo che mi si prostrava davanti.

Il suo atteggiamento nei miei confronti era uguale a tutti gli altri, non fece eccezione nonostante le voci sul mio conto. All’interno della comunità già si era venuto a conoscenza dell’errore giudiziario che mi era capitato ma purtroppo, la burocrazia e la sordità di certi elementi non poterono aiutarmi in nessun modo. Una sfavillante divisa lustra e curata in ogni minimo particolare; di un verde tendente al grigio, stirata a puntino e con il suo cappello luccicante il quale ne andava fiero; e come aver letto nei miei pensieri, gli apparve in viso un sorriso sarcastico, egocentrico; si stava prendendo gioco di me, di tutti quelli che non appartenevano al suo mondo perfetto e di assoluta regolarità. Attendeva con impazienza mentre lo fissavo da capo a piedi cercando di capire dal suo sguardo se avrei potuto in qualche modo conoscere l’identità della persona che mi era venuta a visitare.

«Arrivo, mi sciacquo la faccia e sono subito da te!» gli pregai fissandolo, attendendo una sua risposta permissiva che avrebbe potuto farmi credere non fosse l’uomo scontroso e strafottente il quale pensavo fosse. Un cenno accondiscendente del suo capo mi fece per un attimo dilatare le pupille ormai abituate all’imperterrito quadro che mi si presentava davanti come un’incredula apparizione. Mi avviai verso il lavabo e lo abbracciai facendo scorrere l’acqua ghiacciata, chinai la testa e mi accinsi ad allungare le mani sotto di quel frivolo d’acqua. Ci volle qualche secondo per far si che il mio corpo si abituasse alla temperatura ma quell’inebriante sensazione di freschezza, era l’unico sollievo che assaporavo ogni volta che aprivo gli occhi. L’asciugamano logoro alla mia destra mi osservava come a farmi capire che era l’unico modo per asciugarmi il viso, voltai lo sguardo verso il letto a castello e presi la coperta sapendo che quel tessuto era l’unico pulito in tutta la cella, mi scrocchiai istintivamente le nocche e la schiena quasi a rendermi conto che era il momento di uscire e mi avvicinai alla guardia che ormai mi stava dando le spalle. La porta si chiuse dietro le mie spalle con un tremendo frastuono, per quale motivo l’uomo che stava precedendo il mio cammino non mi informò ancora di nulla? Che cosa significava quel lugubre silenzio? La vista si concentrò su tutto il perimetro della prigione; ero al secondo piano… (anello, come lo chiamavano lì) ed effettivamente il penitenziario era un immenso circondario a forma di anello che si delineava quasi a dismisura; una dopo l’altra le celle mi scorrevano davanti agli occhi come frammenti di una vita dissolta, facendomi rendere conto che quella ormai era diventata la mia famiglia, una comunità assai ristretta la quale condividere ogni momento della giornata…qualunque sogno, ogni sentimento che l’anima di ogni uomo all’interno di quelle mura, avrebbero potuto desiderare. Il pavimento di ferro che si stagliava lungo tutto il perimetro del piano rumoreggiò fragoroso sotto i miei passi con quel suono metallico che accentuò il brusio e le voci dei molti carcerati che mi passavano davanti; ogni cella che incrociai aveva la sensazione di un nuovo incontro, di uno sperato ed eventuale approccio con il mondo al di fuori della mia stanza. Come demoni che fuoriescono dall’ombra alla ricerca di uno spiraglio di luce, visi contorti dalla tristezza si appoggiavano incuriositi dalle sbarre per vedere quelle rare novità che accadevano di rado. Uno sguardo, un minimo accenno di sorriso il quale avrebbe potuto generare una reazione da parte dei carcerati che mi passavano davanti agli occhi. Chi giocava a carte, molti che si prodigavano a riassettare con scrupolosa dovizia l’interno delle proprie celle come se quel ristretto spazio fosse l’unico barlume di vita che a loro era concesso e con mille pensieri che mi turbinavano in testa, continuai imperterrito a seguire giù per le scale la guardia che mi precedeva in quello spazio assai ristretto. Il piano dove alloggiavo cominciò a dileguarsi alla mia vista lasciando il posto ad un corridoio che serpeggiava lungo tutto l’ingresso del carcere. Cancelli di ferro ovunque, guardie carcerarie che meticolosamente troneggiavano in ogni direzione osservando ogni minimo movimento; trascorrendo la loro inesorabile permanenza in quel luogo erano cambiati, le vicissitudini che ogni giorno apparivano ai loro occhi, avevano fatto sì che il loro carattere diventasse duro e intrattabile. Erano diventati come degli automi agli ordini del loro superiore, rinchiusi in un mondo il quale sarebbe sopravvissuto il più forte e loro dovevano essere più forti e spietati di chiunque altro in quelle condizioni. Lungo il mio cammino ogni porta venne aperta con istintiva solerzia per poi richiudersi alle spalle, scrupolosi e ligi al loro dovere. Quell’odore, l’odore di chiuso che ogni volta raggrinziva i miei sensi che con mio immenso rammarico dovevo attendere ogni volta l’ora di libertà per lasciarmelo alle spalle, i rumori soffusi e indistinti del brulicare di vita che mi scivolavano addosso quasi a voler poi nascondersi alle orecchie dei presenti.

«Il tuo avvocato ti aspetta!» disse noncurante la guardia davanti a me mentre udivo i suoi passi rallentare; non si era degnato neanche di voltarsi e guardarmi in faccia tanto abituato a non dar confidenza a nessuno.

L’ultima volta che il mio avvocato mi venne a trovare fu un mese prima; ogni volta che si prodigava ad alzarsi dalla sua sedia era per venire ad informarmi di qualsiasi novità che sarebbe potuta venire a galla. Ci fermammo davanti alla porta dove i carcerati avevano la possibilità di colloquiare con i loro parenti, amici, persone che avevano un minimo barlume di umanità affinché il loro altruismo potesse regalare una vana via di fuga dai pensieri di ogni giorno, qualche minuto della loro esistenza in compagnia delle persone care offrendo un sorriso piuttosto che un pizzico di speranza che avrebbe potuto rinsavire i nostri desideri. In quel momento non ero eccitato, non pensai alla minima cosa tranne che la curiosità si sentire ed ascoltare quello che il mio avvocato avesse da dirmi, una qualunque informazione che avrebbe potuto mettere in ginocchio il pensiero della mia prolungata permanenza all’interno di quell’insopportabile penitenziario. Senza dire una parola spalancò la porta davanti e all’improvviso mi investì una luce quasi accecante, normale per chi trascorreva la vita esterna ma di gran lunga estenuante per chi permaneva in quelle quattro mura. Immobilizzato con gli occhi che si dovettero abituare alla luminosità di quella stanza, per un attimo socchiusi gli occhi per intravedere cosa mi si sarebbe prospettato.

«Avanti, hai dieci minuti!» apostrofò la guardia dandomi un leggero colpo con il suo manganello dietro la schiena, segno che la sua pazienza non era delle migliori rispetto a quella dei suoi colleghi. Come un topo intrappolato in gabbia…questa era la sensazione che provai quando ricevetti quell’inusuale affronto. Varcai la stanza lentamente con il pensiero che forse, a causa il mio estremo pessimismo non si sarebbe risolto nulla di concreto…che mi sarei alzato dal mio letto solo per essere informato del lento ed inesorabile progredire della burocrazia la quale per le persone che nella società non riuscivano a farsi strada, era lenta ed agonizzante. I nostri sguardi si incrociarono, un falso ma disinvolto sorriso trapelò dal suo viso per quanto riuscii ad intravedere. Un uomo piuttosto impettito e con il solo obbiettivo di frugare nella mente dei propri clienti ed approfittare di essi. Oggetti inanimati, sotto il suo punto di vista…le persone non erano altro che oggetti quasi insignificanti le quali avrebbero potuto far raggiungere il suo scopo di avidità ed egocentrismo ma in fin dei conti, in un momento di razionalità pensai che in effetti era il suo mestiere e non lo biasimavo se anche lui si rendeva conto che era solo una pedina nelle mani della burocrazia che tendeva i fili su tutti noi.

Alla mia destra vi era una guardia che in piedi e quasi immobile scrutava con cagionevole scrupolosità tutto quello che succedeva all’interno della stanza che in quel momento, era piena di gente che attendeva di essere accolta per qualche minuto dai loro parenti o conoscenti; il suo viso impassibile e inespressivo, come se avesse eretto una barriera invalicabile contro ogni prepotenza e avversità che circondava gran parte della sua vita. A volte pensavo cosa mai si sarebbe potuto celare nella mente di quegli uomini così scrupolosi e diligenti. Davanti a me si eresse la vetrata impenetrabile che divideva il mondo civilizzato dallo spauracchio che si trovava oltre i loro pensieri e in qualche modo convinti nell’assoluta sicurezza e speranza, di non finire al posto nostro. Non era un carcere di massima sicurezza quindi, non vi era bisogno di comunicare attraverso quelle assurde cornette, d’altronde, essendoci guardie appostate per qualunque nefasta evenienza non c’era bisogno di apportare quella sicurezza così drastica. Il mio sguardo vagava sui presenti; i miei compagni di penitenziario che colloquiavano con i loro parenti, i loro volti impressi nello sconforto e nel dolore come se tutto per loro fosse perduto e ogni tanto si poteva scorgere nei loro occhi, un barlume di speranza ogni volta che appuravano una qualche ed evasiva lieta notizia. Le luci soffuse delle lampade al neon resero quel luogo piuttosto sconcertante e mentre mi avviavo alla mia postazione, il mio avvocato sollevò lo sguardo con un’improvvisa reazione gioviale nei miei confronti. Ma sapevo che la burocrazia non fece eccezioni e per quanto fossi a conoscenza dei fatti, ero convinto che sarei stato lì ancora per un po’ di tempo; le accuse a mio carico erano improrogabili, senza un minimo di prova che avrebbe potuto inchiodare i miei accusatori non vi era via di uscita.

«Salve James!» Fu l’unico suono indistinto che produsse. Era quasi se avesse timore di me, delle mie reazioni nei suoi confronti qualunque potesse essere l’esito della nostra chiacchierata. La sua espressione che fino ad un minuto fa era alquanto impassibile, si trasformò in riluttanza.

«Allora, sono appena tornato dal tribunale e il giudice ha deciso che l’udienza sarà rinviata a due mesi.» mi informò di soppiatto senza giri di parole. Sapeva che non mi piaceva girare intorno ai discorsi e preferì dirmi le cose subito come stavano. L’uomo davanti a me si accorse di come in quel momento avrei potuto reagire; notò che il mio volto inespressivo si stava colorando di rosso segno che da un momento all’altro sarei potuto inveire contro di lui. Cercai in qualche modo di calmarmi dato che il personale di guardia alle mie spalle non ci avrebbe messo tanto tempo a sbattermi di nuovo in cella dopo che avrei potuto creare un minimo scompiglio tra i presenti.

«Mi vuoi fare intendere che dovrò stare ancora due mesi qui dentro?» La mia risposta era scontata, si profuse dalle mie labbra ormai come una certezza che avrei scommesso si sarebbe potuta avverare. Non credevo che quell’avvocato, il difensore che mi consigliarono e garantirono, fosse così superficiale e secondo il mio punto di vista quasi menefreghista.

«Adesso stai calmo!» cambiò subito espressione, dura…aggressiva.

«Le accuse a tuo carico sono pesanti, James non hai rubato una mela!» aggiunse sarcasticamente. Cercai di pensare, di farmi venire in mente cosa avrei potuto aver tralasciato, una qualunque cosa che avrebbe potuto farmi scagionare. Ma più la mia mente era occupata a pensare e più mi pervase quella sensazione di offuscamento che intorpidì tutti i miei sensi.

«La Coronwhealt Industries ti ha accusato di furto aggravato e di occultamento di informazione riservate. Questo tu già lo sai, e sarà difficile provare la tua innocenza solo sul fatto di alcune tue congetture. Sei a conoscenza dei loro loschi affari, ti sei intrufolato illegalmente nel loro database. Sei solo tu a conoscenza dato che le informazioni che hai assimilato sono ormai perdute…cancellate. Hanno distrutto tutti i file, tutti i documenti cartacei e hanno fatto in modo di far tacere le poche persone a conoscenza dei loro movimenti.

«Allora tu che cosa consigli di fare?» chiesi nella mia assoluta disperazione. Abbassai il capo per stringermelo tra le mani; due mesi, ancora due mesi in quell’inferno! Come stralci di diapositive in quel momento mi passò davanti tutto il mio periodo di permanenza all’interno del penitenziario, cercando con ogni mezzo possibile di frammentare ogni minimo particolare per scovare la più insignificante prova che avrebbe potuto dare una svolta a quella assurda vicenda. Ritornai con la mente al passato, da quanto appresi la notizia del loro illecito traffico, mettendo a punto ogni particolare che disgraziatamente avrei potuto tralasciare.

«Devi metterti l’anima in pace. Adesso l’unica cosa che puoi fare è restare calmo e lasciare che proseguano le indagini.» cercò di rassicurarmi.

«La polizia e la guardia di finanza sta mettendo a setaccio tutta l’azienda in cerca di ogni prova possibile. La cosa che eventualmente possiamo fare, è assumere un investigatore privato ma non so fino a che punto sarà utile.» aggiunse scrollando il capo in senso di diniego.

Fino a trentasette anni la mia vita era sempre stata dedita al lavoro ed alla famiglia; trascorsi la mia infanzia come tutti gli adolescenti non curandomi di cosa mi sarebbe potuto capitare in un futuro prossimo se fossi uscire dalle righe. Ogni giorno cercai improrogabilmente di occuparmi riguardo quello che Coronwhealt Industries aveva in serbo per me; responsabile della sicurezza amministrativa dell’azienda…ero sempre e in ogni momento scrupolosamente devoto alla mia mansione. Ormai la mia carriera stava progredendo inesorabilmente dopo lunghi anni di estenuante lavoro, la gavetta di otto anni mi fece capire che le mie prerogative erano diventate ben altre; la famiglia, il mio futuro e tutte quelle considerazioni che ogni giorno vennero a galla, grazie al mio carattere puntiglioso e razionale. Ma qualcosa non mi quadrava…

I dirigenti dell’azienda con il progredire degli anni divennero avidi e assetati di tutti quegli ideali insensati i quali ambiscono tutti gli uomini d’affari. Un bel giorno, in quello stesso anno mi diedero una promozione: il presidente della Coronwhealt Industries…noto colosso il quale si occupava di consulenza finanziaria aveva bisogno di un assistente e quel ruolo, era capitato a me. Mi sentii al culmine della soddisfazione, tra i numerosi dipendenti assunti non avrei mai creduto che avessi potuto godere di quell’opportunità e ovviamente, non mi tirai indietro. Accettai di buon grado l’offerta che mi era stata proposta e cominciai a vedere il mondo sotto un altro aspetto.

Ero lì, seduto su uno sgabello di ferro ghiacciato che stavo osservando il mio difensore continuare a parlare, a fare in modo che non perdessi le staffe. Ormai ottemperato a pensare alle mie passate vicissitudini, la sua voce mi apparve un confuso suono ovattato che mi scivolò addosso.

I giorni, i mesi trascorsero con estrema enfasi al pensiero del mio nuovo incarico, mi occupai prevalentemente di tenere sott’occhio i movimenti finanziari dell’azienda riportando direttamente al presidente ogni minima cosa che lo potesse riguardare. Mi ricordai che un giorno mi trattenni oltre l’orario di lavoro per terminare di supervisionare i conti di un nostro autorevole cliente visto che il mio superiore, intendeva indagare più a fondo sulla sua situazione finanziaria. Sotto questo aspetto era piuttosto scrupoloso e non guardava in faccia a nessuno pur di perdere la stima dei suoi clienti.

Assorto e concentrato sui movimenti dell’azienda e confrontandoli sugli aspetti amministrativi qualcosa non mi quadrava, non tornavano i conti. Mi resi conto che L’azienda ebbe sottratto un’ingente quantità di denaro ad una società fittizia cui era appoggiata da più di dieci anni. A mio avviso la razionalità prese il sopravvento; il mio ruolo e di gran lunga il mio carattere non consistevano ad indagare sugli affari dell’azienda anche perché mi resi conto, che se le mie congetture fossero state vere mi sarei messo in grossi guai. Cercai in tutti i modi di convincermi che tutto era falso, magari fosse stato un mio sbaglio o una mia distrazione. Ma riguardando attentamente tutto una seconda volta non ebbi dubbi…stava accadendo quello che in un primo momento avevo arguito. Non seppi chi ne era coinvolto o se i miei superiori erano a conoscenza di una tale situazione ma restando con i piedi per terra e ragionando sulla moltitudine di conseguenze che avrebbero potuto evolversi una volta trapelata la notizia, cercai di non seguire il mio istinto e di tenere la bocca chiusa. Pensai che forse fossero stati i miei superiori a trafugare quegli enormi conti dalle tasche dei risparmiatori ragion per cui, dovevo tenere tutto a tacere. Quella sera non vi era nessuno in ufficio tranne che le mie congetture e il mio senso del dovere riguardo al ruolo che mi avevano concesso di intraprendere. Osservai scrupolosamente la tastiera sotto i miei occhi conscio del fatto, che me ne dovevo andare al più presto con il timore che in quel momento mi avrebbe sorpreso qualcuno frugare tra i documenti. Certo, non vi era nulla di sbagliato visto che tutto quello che stavo facendo era in assoluta regola ma ormai dovevo diffidare di chiunque, guardarmi alle spalle con estremo riservo visto che forse, ero l’unico a conoscenza di quei fatti.

«Io sono innocente e tu lo sai.» Sbottai scattando in piedi e battendo le mani sull’acciaio del banco proprio ad un metro dall’uomo che in quel momento stava facendo di tutto per farmi uscire, almeno in libertà vigilata fino a che non si sarebbe concluso il processo.

«Ehi!» la voce di una guardia irritata alle mie spalle mi intimò di stare tranquillo, a non perdere le staffe per non finire senza alcun ripensamento all’interno delle mie quattro mura. L’avvocato con un cenno della mano, fece capire al militare che tutto era sotto controllo quando con un’espressione di disappunto fece due passi indietro per rimettersi al suo posto.

«Devi cercare di stare calmo, sto facendo tutto il possibile. I loro avvocati come ben sai sono di gran lunga più tenaci e non mi stupirebbe se siano anche ben pagati. D’altronde come ben sai, ti stai mettendo contro un colosso e solo delle prove tangibili possono scioglierti da questa accusa.»

 



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