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di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 24/02/2012 13:28:55

NELLO STESSO POZZO

 

 

Il nodoso bastone gli cadde ancora una vota dalle mani. Come sempre! E Giuggiù rovinò per terra.

Giuggiù stavolta non bestemmiò, non imprecò contro nessuno dei familiari, ne tanto meno questi vennero a raccoglierlo poiché quel giorno nessuno lo sentì.

Restò immobile, seduto ai bordi del letto, sempre devastato dal suo copro e lo sguardo fisso su quell’arnese di legno – l’amico inseparabile -  dice lui.

Ricordo che gli venne regalato da Giulio, amico d’infanzia: << Giuggiù questo è meglio di un cane da guardia credimi >>, disse Giulio quando venne a trovarlo,  tienilo sempre con te…>>.

Giuggiù quel giorno se ne stava tutto ripiegato su una sedia a rotelle regalatagli da Biagio Conte, missionario della città. Stava assicurato su quell’arnese da cuscini che gli cerchiavano i fianchi, appena ciondolante in avanti e gli occhi cerulei sempre lucidi. Alzò appena la testa e lo sguardo si posò sugli occhi dell’amico farfugliando parole sconnesse; quasi un groviglio in gola, ma si intuiva che era un grazie a quel gesto e poi disse: << io la conosco? >>.  

 

 

  quasi un groviglio in gola, ma si intuiva che era un grazie a quel gesto e poi disse: << io la conosco?  >> .

  Quel bastone nodoso… a volte Giuggiù lo vedeva volteggiare, da solo, in mezzo alla stanza. Si allontanava prendendo forma propria, conquistando quasi una vita sua. Lui se ne infischiava che Giuggiù stava  in bilico tra la poltrona e il baratro della mente, lui stava lì, felice di quella condizione ritrovata, di essere libero di poter fare quello che voleva; finalmente aveva acquisito il “ libero arbitrio “ e tanto si sentiva vivo più s’impossessava della sua energia smarrita. Un gioco crudele, quello suo. Ogni tentativo da parte di Giuggiù di afferrarlo andava a vuoto. Del resto come poteva; se provava a fare un passo in avanti sicuramente sarebbe caduto brutalmente per terra e quel giorno a casa non c’era anima viva che potesse accorrere alle sue urla, al suo farfugliare parole malferme, ai suoi lamenti che sicuramente alla fine sarebbero sfociate in un pianto a dirotto.

  Giuggiù iniziò ad inveire contro “quell’amico traditore”, ma non conosceva il suo nome, non sapeva come chiamarlo, del resto non lo aveva mai fatto; era solo un amico come ne aveva avuti tanti. Lui, il bastone, ad un tratto smise di oscillare nel vuoto dicendo: << adesso arrivo bestia ! non ti sopporto più! Lasciami in pace! >> .

  Giuggiù con furia afferrò il bastone, lo strinse forte al suo petto e pianse… ma di un pianto convulso. L’unica cosa a cui teneva veramente era solo quel maledetto bastone. La sua mente non partoriva solo che pagine bianche, ma in un lato oscuro, nascosto, dove nessuno poteva arrivare, c’era quel bastone: il padre, il figlio, la moglie, gli amici, tutta una vita, tutto ciò che gli rimaneva ancora di umano.

  Il bastone a terra e Giuggiù sempre con lo sguardo perso nel vuoto.

  Il figlio entrò nella stanza e l’odore penetrante delle medicine lo investì come la morte che giunge all’improvviso. Giuggiù non si accorse della presenza di Marcello né dei suoi occhi che lo fissavano; stava lì con la testa traballante e il braccio sinistro teso verso quel bastone, immobile, quasi senza respiro  e con una piccola smorfia sul labbro violaceo.

  Il tempo s’era fermato in quell’istante di eterna attesa, ma quante volte il tempo era giunto al capolinea per Giuggiù?! Ogni giorno era un morire e un rinascere, ogni giorno in quella stanza di morte si corrodeva una vita che era stata, ogni giorno l’Alzheimer gli rubava la mente.

  Che angoscia c’era in quello sguardo, quanta inquietudine, quanta disperazione per quel genitore che qualche anno prima era stata un’altra persona, adesso era solo uno sconosciuto.

 

 

 

 

 

Giuggiù

 

  Giulio affettuosamente lo chiamava così, anche se il  suo vero nome era Franco.

  Giulio gli diede questo vezzo quand’erano giovani, quando vivevano a Licata, quando correvano ai rifugi per difendersi dalle bombe, quando la notte non si dormiva e ti svegliavi con il cuore in gola sperando che la tua casa quel giorno non sarebbe caduta sotto i bombardamenti, quando si moriva di fame, quando gli alleati davano corso all’operazione Husky per liberare il paese dalla “ follia “ di quella Germania.

  Giuggiù ricordava sempre quel periodo infausto… nei minimi particolari, persino l’ora esatta di qualche avvenimento e si vantava del fatto che la sua famiglia nonostante tutto non versava in una situazione così disperata. Il padre, Giuseppe, era Procuratore Capo all’ufficio del registro di Licata; studi in medicina non completati, padre e marito amorevole e se vogliamo anche presente, insomma un “buon partito” come si diceva a quei tempi. La madre, Angela, un portamento da nobildonna d’inizio secolo con addosso sempre una collana di madreperla qualunque sia il vestito che indossava. Angela badava alla casa ove non mancava mai il pane e l’olio e Giuggiù a quel tempo aveva solo quindici anni.

  Alcune foto in bianco e nero lo ritraggono in costume da bagno sulla spiaggia di Licata assieme all’amico del cuore. Corre contento, l’amico dietro, il mare davanti… sembra quasi che inciampi su qualcosa.

  Chissà com’era il mare a quei tempi…chissà se Giuggiù si è più rivisto in quella foto, in quel mare, su quelle dune bianche ancora poco inquinate, chissà cosa avrebbe detto oggi se solo guardando la sua immagine… se solo si riconoscesse.

Un’altra ancora lo ritrae sempre nella stessa spiaggia con in mano una cesta di ricci << io andavo a pescare ricci senza usare la maschera! >>, diceva orgoglioso al figlio quando questi si mise in testa di praticare la pesca in apnea, << stavo sott’acqua per parecchio tempo senza respirare… >>. Poi la guerra finalmente finì e Giuggiù stava ancora a Licata con Giulio e venne anche il periodo del latifondo… la conquista di un pezzetto di terra… ma Giuggiù non aveva bisogno certo di lottare in mezzo ai contadini con al collo un fazzoletto rosso, il padre non gli faceva mancare nulla a quell’unico figlio; Giuggiù non moriva di fame. Ma quei fazzoletti rossi indossati dai contadini lo affascinavano, lo incuriosivano a tal punto che se ne fece una ragione. La visone profetica di Marx, che aveva annunciato ai lavoratori la loro missione nella società lo coinvolse interamente. Giuggiù conservava sempre nel portafogli una foto che lo ritraeva ancora molto giovane davanti la porta d’ingresso della sezione del Partito Comunista di Licata con il pugno della mano destra chiuso e rivolto verso il cielo. Così fu che Giuggiù abbracciò la fede comunista così come si abbraccia una madre dopo avere pianto.

 

 

La lotta con il bastone

 

  Giuggiù finalmente s’impadronì del bastone.

  Con uno scatto tese il braccio avanti e afferrò quell’arnese. Si sentiva vittorioso, aveva raggiunto il suo scopo, aveva vinto la sua personale battaglia. Era tutta la sua vita quel bastone. Da tempo non riusciva più a reggersi sulle sue gambe; non stava più dritto, non camminava, ma quel bastone dovev stare sempre al suo fianco: << il mio amico… dov’è il mio amico? Datemi il mio amico, fatelo venire qui… ho bisogno di lui, mi sento solo…>>.

  Ma Giuggiù cadde per terra, come sempre.

  Teneva il bastone stretto nella mano e le gambe che si muovevano come se stesse camminando, lì, per terra, accanto al letto disfatto, disteso su di un fianco e le gambe che si divincolavano, si mischiavano tra loro tracciando dei passi nel vuoto, << Papà! Papà! Dove sei? Papà aiutami, aiutatemiiii…>>, era il suo incedere giornaliero quando si sentiva in difficoltà, quando si sentiva solo, quando non comprendeva perché il mondo gli franava addosso.

  Quanti ricordi nella testa del figlio che in quel momento stava dritto davanti la porta a guardare quello che era diventato suo padre, stava lì impotente al disfacimento di quell’anima.

 

 

La Stanza di Giuggiù

 

  La stanza di Giuggiù era molto grande.

  I raggi del sole di quella primavera penetravano dalle finestre lasciando una cometa di luce che arrivava dritta dritta sopra il letto, incuneandosi sin dentro il cervello di Giuggiù che, svegliatosi di scatto, si girava verso la colonna di luce con gli occhi sgranati, spaventato per quello che stava accadendo.

  Giuggiù parlava con la luce che con violenza gli trapassava l’anima; penetrava dentro il suo mondo come un falco in picchiata verso la sua preda.

  Giuggù gli chiedeva delle cose… delle cose sue e nessuno al mondo avrebbe mai potuto ascoltare quel dialogo, solo lui e la luce. Giuggiù mormorava qualcosa guardando quel fascio di luce e agitando le mani in aria disegnava delle cose, delle linee immaginarie, dei movimenti lenti e allo stesso tempo frenetici, adesso una presa, adesso un abbraccio, adesso un cacciare via, adesso un abbandonarsi a se stesso.       Giuggiù veniva ingoiato letteralmente da quella nuvola bianca trasportato in un binario che stride, su un treno veloce, verso un orizzonte senza confini, prima che l’ultimo sussulto lo avvolga e non lo riporti più a casa.

  Un divano tre posti era posizionato accanto al letto in modo che Giuggiù, sempre con l’aiuto di qualcuno, si potesse riposare stando seduto e di fronte una mensola  fatta fare apposta dal figlio, conteneva tutte le medicine che ogni giorno prendeva: aceticolina, noradrenalina, donepezil, memantina, etc. Medicine inutili, l'alzheimer è una malattia  incurabile, un processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule celebrali rendendo a poco a poco l'individuo che ne è affetto incapace di svolgere una vita normale. Maledetta “ Beta-amiloide “!

  Marcello, unico figlio maschio, lo accolse nella sua casa dopo una breve parentesi in una casa di riposo della città. Marcello era sposato già da un paio di anni e aveva tre maschi e un quarto in arrivo. La sua vita sino a quel momento scorreva abbastanza normale; una classica famiglia italiana del sud. La casa, il lavoro, le bollette, l'affitto, la scuola, le comunioni...

  Giuggiù una sera di primavera decise di convocare il figlio a casa prorpia per dirgli che era sicuro di finire i suoi giorni in una casa di riposo. Aveva riflettuto molto su quella decisione, era stanco di quella casa enorme piena di spazi vuoti da riempire e la sua memoria non glielo consentiva più. << vedo mamma sai?! - diceva al figlio – ma dov'è? Ma che stai dicendo? - rispondeva infastidito il figlio – che stai dicendo? La mamma è morta da molti anni! Cosa vedi? Ma si impazzito?! >>.

  la mente di Giuggiù produceva veramente l'immagine della moglie deceduta molti anni prima per una di quelle solite malattie. La vedeva quando tentava di leggere l'ennesimo libro accucciato sulla sua poltrona, quando la settimana enigmistica gli cadeva dalle mani e lui chiudeva gli occhi ma non dormiva, la vedeva quando rispondeva al telefono ma dall'altra parte non c'era nessuno, quando fuori non riusciva a trovare la strada per rientrare a casa, quando pioveva e si sedeva in balcone su una piccola sedia e guardava giù dal sesto piano e pensava di farla finita.

  La degenza in quella struttura durò solo un mese.

  A quel tempo Giuggiù sapeva ancora chi era, cosa era stato, gli ingorghi della memoria erano ancora sporadiche e si rendeva conto che quella sua decisione di andare in quella casa era sbagliata sin dall'inizio. Le giornate passavano molto lente e le aspettative iniziali fornitegli dalla direttrice di quella struttura per anziani erano svanite nel nulla. Pensava di trascorrere le sue giornate all'insegna dello svago, del divertimento e qualche volta anche poter ballare. Giuggiù adorava ballare e chi balla non muore mai, diceva sempre lui.

Giuggiù ignorava completamente cos’era una casa di riposo per anziani, non aveva mai pensato a questa cosa, pensava che gli anziani fossero i padroni della storia, la storia della nostra vita, e per tali motivi dovevano essere rispettati e venerati ma non poteva immaginare la sofferenza umana che vi alloggia.

Occupava le sue giornate a passeggiare lungo il corridoio e l’atrio che guardava l’ingresso della struttura ove passava intere ore seduto a guardare fuori nella speranza che qualcuno lo venisse a riprendere, lo portasse via da quella prigione. Ogni giorno Marcello lo andava a trovare, una volta di mattina, un’altra di pomeriggio e lo trovava sempre lì, seduto su una panchina rovinata dal tempo ove tante storie di vecchi avevano contribuito a deformare.

Giuggiù guardava fuori e i suoi occhi cerulei si illuminavano quando riconosceva l’auto del figlio: << finalmente mio figlio, speriamo che adesso mi faccia uscire, che mi porti via…>>, diceva ad un “ compagno di prigionia”. Ma era solo “ il colloquio” giornaliero, tanto per rimanere in tema di restrizione. Marcello stava con lui e gli altri vecchietti seduto in quell’atrio a condividere quella senilità deformata e pensava che se un giorno la sua vita dovesse prendere quella piega, forse era meglio morire prima, ma loro, i vecchietti non lo sapevano; essi vivevano quella condizione senza rendersene conto, era giusto così, quella era oramai la loro vita, il loro destino, dovevano solo aspettare l’epilogo finale.

Era un via vai di corpi che si trascinavano lentamente, con gli occhi sgranati e malinconici e pantaloni e gonne intrise di piscio, sagome che si spingevano a fatica verso quel corridoio che dava fuori, in direzione della luce mattutina, verso un respiro di vita. Vacillavano abbandonati col respiro pesante, alcuni mormoravano qualcosa di indefinito, altri parlavano tra loro ma non si capivano. Sembrava che tutto il peso del mondo fosse su quelle gracili spalle, confusi ed esiliati, con la testa piegata su un lato e forse anche digiuni d’amore.

Giuggiù un giorno volle andare via. Pensò che stare ancora lì dentro avrebbe fatto peggiorare le cose. Non stava bene in mezzo a quei vecchi malati di malinconia e propose al figlio di andare ad abitare con lui: << non do fastidio, mi metto in un angolo della casa, mi prepari un letto… non do fastidio e poi io mangio anche poco…>> disse Giuggiù mente stava seduto sul bordo del letto con gli occhi lucidi, << non posso papà come stai a casa mia e poi Leti aspetta un altro figlio, come faccio a pensare a te?...>>, rispose Marcello.

Giuggiù accennò ad un pianto, un pianto muto e con le mani agitate cercava un fazzoletto nella tasca dei pantaloni che non trovava e a Marcello venne un nodo alla gola e asciugò con le sue mani quella tristezza dal volto del padre dicendo:  << va bene papà, dammi il tempo di organizzarmi e tra una settimana ti porto via da quest’inferno…>>. In un attimo padre e figlio si erano ritrovati, in quell’istante tutta la loro vita scivolava leggera nelle loro memorie, tutti i vuoti di un passato venivano riempiti da parole mai pronunciate, in quel preciso momento Marcello decise di prendersi cura del padre.

 

 

Giuggiù e la pioggia

 

Il cielo nero si impossessava delle finestre di quella grande camera, cumuli di nubi che sembravano in preghiera e Giuggiù trascorreva l’intera giornata in quella grande stanza, solo qualche intervallo per pranzo o per cena, ma il suo mondo era tutto lì, racchiuso in quelle quattro mura.

Giuggiù amava la pioggia, quasi le rassomigliava, cadeva giù stremata come un’ultima disperazione dal cielo. Il suo ticchettare a volte lieve altre violento sul vetrocamera lo conquistava, lo rapiva, il suo umore lunatico si trasformava in contentezza, il tintinnio  sui tetti delle macchine, sugli ombrelli, qualche moto che scivola, un uomo che si bagna completamente prima di salire in auto, queste immagini di vita lo rallegravano. Alle volte stava incollato alla finestra per delle ore, senza mai dire una parola, si isolava completamente e sprofondava in quel mondo bagnato intriso di odori di terra fresca e lacrime di cielo. Giuggiù stava con la faccia incollata sul vetro ad osservare la pioggia che colpiva il davanzale formando dei rigagnoli sul vetro che cadevano giù e lui, col capo piegato li seguiva sino al suo scomparire. Forse Giuggiù parlava con la pioggia o forse pensava che era l’unica cosa sua che ancora non era tramontata nella sua testa, forse qualche bagliore sui pochi neuroni rimasti lo riportavano indietro nel tempo quando la mattina intorno alle sei usciva di casa per andare a lavorare.

Giuggiù stava almeno un’ora davanti lo specchio, la toilette era quasi un rito, una cerimonia a cui non poteva rinunciare, la divisa scura sempre in ordine e quei pantaloni che non avevano mai pace, un po’ su, un po’ giù, era la sua ossessione, pensava di avere la pancia, come lo era stato anni prima, ma non era così, era il suo chiodo fisso! Poi magari, per strada, mentre aspettava di prendere il tram, pioveva, e allora tutta quella preparazione mattutina da vecchia diva andava a farsi benedire ma a lui andava bene anche così.

Marcello entrò nella stanza del padre. Era l’ora del pranzo. Il figlio decise di non affidare le cure del padre a nessuno, non cercò nessuna badante come gli era stato consigliato, si mise in ferie e stabilì che doveva essere lui l’infermiere, il padre, il figlio, la moglie e quant’altro poteva essere, come nella migliore novella Pirandellina, Marcello assunse le fattezze del caso.

La pastina in bianco con poco olio e poco sale ma tanto formaggio – era goloso di formaggio – fumava in quel piatto concavo e a Marcello, maldestro com’era, ne cadde un po’ sul polso della mano sinistra: << cazzo com’è calda! >> esclamò Marcello.

Ma l’odore era troppo forte, l’esalazione di quel grana gli riempiva le narici, non riuscì a resistere alla tentazione di leccarsi il polso… e lo fece, compì quel gesto quasi di nascosto, in modo furtivo e mentre assaporava il gusto di quella fragranza si accorse che gli occhi del padre lo guardavano, aveva lo sguardo indagatore come dire:  << ma che fai? E a me?! >>.

Marcello guardando il padre sorrise mentre una linguina gli colava da un lato della bocca e Giuggiù, anche lui, accennò ad un sorriso, la bocca un po’ di lato, non aveva la dentiera, ormai non la portava più, ma capì quel gesto e con la mano sinistra toccò il braccio del figlio girandosi da un lato come per nascondere quell’attimo di beatitudine.

Forse in quel momento Giuggiù capì che quella figura che gli stava accanto con il piatto fumante era suo figlio e Marcello capì che suo padre lo riconobbe anche se solo per un istante.

 

 

Quel giorno l'ambulanza

 

Quel giorno venne l’ambulanza.

A sirene spiegate si fece strada tra il marasma di macchine per quelle vie di prima mattina ove le auto sembravano persone  in fila da ore in un ufficio postale, a pagare l’ultima bolletta della loro vita.      Giunse in pochi minuti al nosocomio della città e Marcello che seguì il padre a bordo della sua moto giunse come un fulmine all’interno di quella sala piena di pietà e freddezza d’animo.

Era un continuo vociare, un incessante vai e vieni di camici bianchi e barelle, una costante richiesta d’aiuto… un non fare o semplicemente aspettare…

<< papà stai tranquillo adesso ci chiamano…>> disse Marcello, una bugia per rassicurare il padre che da un’ora stava disteso in quella pessima lettiga.

Ma il cognome risuonò in quella sala solo dopo parecchie ore. Giuggù non era un codice rosso ne un codice giallo, Giuggiù non aveva codici era solo un malato di Alzheimer e per tanto non era un caso urgente.

Il neurologo che l’aveva in cura un giorno molto triste gli disse: << non dia più medicine a suo padre, denaro inutile, ormai si trova in una fase avanzata, lasci perdere…>>.  Ma Marcello non buttò mai le medicine, li teneva tutti in fila sul mobile di fronte al letto; chissà poi per quale motivo.

Li rassettava ogni giorno anche se non ce n’era bisogno, un ordine maniacale che non era nella sua natura; le medicine da un lato, i guanti di lattice da un’altra, l’alcol da un’altra parte, i pannoloni nello scaffale  a sinistra, i pigiami a destra, la sacca raccogli urine sempre a vista e sempre sotto controllo, ogni giorno sempre la stessa cosa, sempre lo stesso ossessivo controllo che tutto fosse sempre in ordine. Ma Marcello da troppo tempo non dormiva più. Il sonno notturno era fatto a tappe, ad intervalli, ed ogni volta sempre la stessa voce a destarlo di soprassalto: << papà! Papà! Dove sei?...>>. Giuggiù peggiorava di giorno in giorno e il crepuscolo di ogni giornata era come un tunnel che era costretto a dover percorrere, ogni giorno, sempre lo stesso! Quando scendeva la sera e Giuggiù digeriva la sua poca cena – ormai mangiava così poco – si addormentava, alle volte anche sulla sedia, lì, a capo tavola, perché per Marcello quello era sempre suo padre anche se non lo riconosceva più, era sempre suo padre anche in quel dolore che di giorno in giorno si faceva sempre più grande, sempre più insopportabile. Marcello non possedeva matite colorate, non poteva ridisegnare la figura di quel padre, tra loro c’era solo un gran silenzio fatto solo di urla.

Marcello al nosocomio chiese l’intervento di un psichiatra, dopo che i medici gli avevano detto che il padre non aveva nulla, era solo una crisi causata dalla malattia, e per tanto poteva andare a casa con i suoi piedi, ma Giuggiù non camminava più. Marcello era sfinito, la sua famiglia era abbastanza provata, voleva solo un po’ di tempo per riordinare la sua vita e quella dei suoi familiari, avere ancora un paio di giorni di normalità, chiedeva solo un ricovero di un paio di giorni. Il medico, lo psichiatra diede un diniego totale a tale richiesta.

 

 

 

Giuggiù quel giorno ebbe sete

 

<< voglio un po’ d’acqua fresca… fresca…>> imprecava Giuggiù dal suo letto alle sette di mattina.

Marcello il giorno prima decise di ritornare al lavoro, erano mesi ormai che non andava più. Chiese un lungo periodo di ferie e giorni festivi da recuperare.

Gli mancava il contatto con l’esterno, con la quotidianità, aveva sete del suo lavoro. Quel giorno pensò di amare più di ogni altra cosa il suo lavoro, una porta verso la luce, un ritorno alla vita.

Giuggiù quel giorno aveva una strana sete, gridava che voleva bere, così Marcello, che quel giorno doveva andare al lavoro nel pomeriggio, gli portò un bicchiere colmo di acqua fresca: << tieni papà ma bevi piano non ti ingozzare >> disse il figlio.

Marcello infilò la mano destra sotto la nuca del padre sollevando quella piccola testa bianca all’altezza del bicchiere e Giuggiù bevve tutto d’un fiato, senza smettere un attimo. Quando finì fece un lungo sospiro e disse semplicemente: << grazie >>.

Era strano quel giorno Giuggiù. Seguiva il figlio che si aggirava in quella stanza a rimettere tutte le cose del padre al loro posto, la moglie in cucina stava allattando l’ultimo arrivato e gli altri figli scorazzavano da una stanza all’altra. Marcello guardava il padre mentre questi stava con gli occhi socchiusi, ma non dormiva come faceva di solito, anche lui lo guardava, così, con gli occhi abbassati come se spiasse il figlio o come se volesse tenere con se quelle ultime immagini.

L’ora del pranzo era giunta e Marcello come faceva da mesi, si presentò con il piatto di minestrina al pomodoro che a Giuggiù piaceva molto. Sollevò il padre dalla schiena mettendo dietro diversi cuscini, mise attorno alla gola un lungo bavaglio e sedendosi sul bracciolo del letto inziò quel rito che durava ormai da troppi mesi: << dai papà apri la bocca che non è molto calda… senti che profumo…>>, Marcello gli diceva sempre le stesse cose, ogni giorno e Giuggiù a forza apriva la bocca e obbediva.

Ma Giuggiù quel giorno non volle mangiare, a mala pena mandò giù un cucchiaio di pastina, poi disse: << basta … non ne voglio più…>>. Marcello pregò il padre di continuare a mangiare: << ma che fai? Non hai più fame? - disse Marcello - dai apri la bocca, devi mangiare in qualche modo!non puoi stare digiuno...>>.

Marcello non capì cosa stava succedendo in quel momento, in quel preciso istante, a quell’ora… erano le 13.25 circa di quel 14 giugno di un anno qualsiasi, in una stanza qualsiasi, in un mondo qualsiasi.

Un brivido scosse la schiena di Marcello quando vide il padre chiudere la bocca e girarsi di scatto verso il figlio e gli occhi cerulei come cristalli pieni di parole mai dette che lo fissavano, e in un attimo nella mente di Marcello iniziarono a scorrere immagini di una vita, di treni di primo mattino, di occhi incantati, di nubi, di strade di amori e di odi, di vite che si spezzano e di sogni che svaniscono.

Ad un tratto una folata di vento freddo invase la stanza anche se fuori un sole quasi estivo penetrava a forza tra le tende scostate, una luce che si incuneava dentro a quel letto di morte e Marcello che fissava il padre, quel padre che non urlava più, quel padre che non riconosceva il figlio, quel padre che aveva sconvolto gli ultimi mesi della sua esistenza e forse l’intera sua vita.

Il buio improvvisamente avvolse Marcello e si trovò la moglie stretta al suo corpo: << Marcello hai fatto tutto quello che potevi… sei stato accanto a tuo padre nel momento migliore…>> diceva la moglie cercando di consolare il marito. Ma Marcello in quel momento si sentì come svuotato dentro come se avesse perso l’anima come se un ghiaccio perforò il suo cuore e pianse.

Pianse accanto la finestra di quella stanza dando le spalle al padre in assoluta solitudine. Pianse guardando la strada, le auto che passavano, pianse guardando il cielo azzurro, pianse davanti a quel sole di inizio estate, pianse sul quel profumo intenso di ginepri, pianse senza respiro.

 

A volte mi vedo sulla spiaggia, a mezzanotte o giù di lì, e non c’è nessuno, neanche la luna a farmi compagnia, solo il frastuono del mare. A volte mi sembra di vedere delle forme buie e umane che sdraiate sulla sabbia scrivono parole a me incomprensibili; vorrei che giungessero a loro che adesso non sono più, vorrei che sentissero il mio dolore, vorrei che rispondessero al richiamo della mia coscienza, vorrei che un giorno un fugace arcobaleno scavi tra i miei ricordi incustoditi…

 


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