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Nascita e morte della poesia immortale

Argomento: Letteratura

Articolo di Giorgio Mannacio 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 11/10/2010 18:01:08

Prefazione

Un’elegante strada di Milano è dedicata a Enrico Panzacchi,modesto versificatore vissuto dal 1840 al 1904. Quanti panzacchi vivono , oggi, che non saranno ricordati post mortem, domani?
( Riflessioni di un anonimo )

I.
Voglio parlare della poesia e dei poeti fuori dagli schemi e senza schematismi. Anche in un periodo di crisi economica il prezzo della carta resta alquanto basso. Per scrivere poesie non occorre una penna preziosa, d’oro e dal nome illustre. Bastano una biro ed una pila di fogli anche riciclati. Alcuni si sono accontentati del margine bianco dei giornali. Un’inezia in confronto ai blocchi di travertino pretesi da alcuni scultori. Ci sono, poi, di fronte alla scultura, alla pittura, all’architettura tutta una serie di virtù pratiche e di conoscenze teoriche delle quali il poeta fa tranquillamente a meno. La poesia è – tra le arti – quella meno costosa e più semplice da realizzare. E’ quasi naturale che sia anche la più diffusa.
L’alfabetismo di massa l’ha resa simile ad un diritto azionabile in giudizio.
Così stanno le cose.

II.
Come nasce il poeta ? Il problema delle origini si pone ogni volta che ci troviamo di fronte all’acquisizione di una situazione di privilegio e di potere. Sono tentato di mettere accanto a tale interrogativo quell’altra, ben più drammatica domanda : come è nato il proprietario terriero? I contadini tedeschi del tempo della Riforma cantavano con amara arguzia:dove erano i nobili quando Adamo zappava la terra ed Eva filava?
Se i poeti ci pensassero un po’ di più, piangerebbero meno sui loro versi ignorati dalla critica.
Storici dell’arte hanno sostenuto – credo con fondamento – che all’origine delle figure incise sulle pareti delle caverne preistoriche vi siano funzioni pratiche (rendere possibile la caccia degli animali rappresentati ) . Il “ pittore primitivo” è dunque anche colui che assicura per magia un certo risultato. Anche il poeta può essere stato all’origine mago e la sua parola aver avuto una funzione pratica. Si può prescindere, in un primo momento, dal considerare l’effetto straniante e seduttivo della parola del mago poeta, ma non si può sottovalutare la posizione di privilegio e potere che la sua capacità di “ dire “ gli ha permesso di acquisire. Se alla funzione pratica si associa l’effetto più propriamente piacevole dell’ascolto viene esaltata ulteriormente la posizione privilegiata e rafforzato il potere. Si può dire che, in questa prima fase, c’è stata una sorta di “espropriazione “ del dire e dei suoi modelli? La domanda è, in un certo senso, oziosa. Certamente in questa fase non si può parlare di canoni estetici in base ai quali valutare la parola del mago, ma piuttosto di controllo dell’efficacia della di lui parola. Anche l’identificazione del tempo in cui alla funzione pratica si aggiunse un effetto estetico non interessa, mi pare, più di tanto. Mi sembra invece necessario sottolineare ancora una volta come tale somma di risultati non ha fatto che accrescere la potenza del mago poeta rispetto agli altri. Il fatto che l’esercizio di tale potere non abbia avuto riflessi negativi sulla vita degli altri ha contribuito alla sopportazione di buon grado di tale potere.

III.
Dobbiamo ipotizzare un momento in cui l’effetto suggestivo ha avuto la prevalenza sulla funzione pratica e un momento in cui – per ragioni ignote – si è avuta la moltiplicazione del mago-poeta
(con inversione dei termini: poeta–mago). Si trattò di una moltiplicazione molto ridotta (date le condizioni socio-economico-culturali), che mantenne intatta, per così dire, la situazione di predominio sugli altri in ragione della specificità selettiva del potere del “dire “. La ridotta dimensione del fenomeno permise di mantenere inalterati i criteri in base ai quali la società dei molti continuò a riconoscere nei pochi quelle qualità magiche ed estetiche che avevano caratterizzato prima il mago e dopo i maghi. Se si può cominciare a parlare di “criteri” identificatori, bisogna anche dire che essi furono, per così dire, obbiettivi corrispondendo di fatto ed in linea di principio con il modello del detentore del potere di dire.

IV.
Nulla è così naturale come la parola e niente è più semplice - una volta che si sappia scrivere – che tradurre nella scrittura tutto quello che ci passa in mente e che potrebbe essere detto. Partiamo dall’ipotesi che quello che si scrive assuma i caratteri esteriori della poesia.
In un dato momento tale tipo di scrittura subisce una duplice torsione.
In una società relativamente omogenea, omogeneizzata da una concentrazione della classe colta in un unico strato, il possesso della parola poetica appartiene ad uno solo o a pochi e dunque il criterio perché un certo dire sia assegnato alla categoria della poesia è unico.
Se gli individui che scrivono si moltiplicano, se , correlativamente , si estendono gli strumenti di scrittura e diventano sempre più diversificate (disomogenee) le esperienze individuali (in ragione della disomogeneità delle classi, ma non solo), il “ dire” viene necessariamente ad articolarsi in modelli e in contenuti diversificati.
Restando fermo – ciò è un dato tanto interessante quanto indiscutibile – l’impulso a “dire” qualcosa che si distacca dal parlare economicamente, si allarga il numero di coloro che scelgono la comunicazione poetica e si differenziano anche i generi di tale comunicazione.
Si pone in questo contesto non solo il fenomeno dei generi poetici, ma si pone anche il problema di valutare – rispetto al modello unico preesistente – chi possa rivendicare la posizione di mago-poeta.

V.
Parliamo, dunque ed ora, di critica.
Anch’essa ha subito nel corso del tempo delle sollecitazioni per così dire esterne (naturali e culturali), che ne hanno definito via via diversamente la qualità e i contenuti.
Nel tempo (ideale? storico ?) dell’unico poeta essa – ammesso per ipotesi che sia già nata e riconoscibile come tale – si limitava, per così dire, a prendere atto dell’unico dire, sottolineandone, tutt’al più, le caratteristiche intrinseche rispetto ad altro dire.
Allargamento e disomogeneità delle esperienze individuali e collettive hanno determinato, come si è detto, in un contesto di crescente acculturazione, la differenziazione dei generi (epica, lirica, drammatica, etc. ) e nello stesso tempo hanno ampliato la platea degli autori.
Di fronte a tale fenomeno la critica allarga il proprio campo di indagine e vede arricchirsi le proprie funzioni. Si fa testimone storica della nascita dei generi, ne studia le caratteristiche e la genesi, ma si trova anche a fare i conti con la pluralità dei dicitori. E’ ineluttabile, di fronte a quest’ultimo fenomeno, che essa si assuma il ruolo di “ giudice “ della qualità dei singoli poeti. La poesia non è scissa, obbiettivamente, dal corpo sociale quanto meno nel senso banalissimo ma pregnante che il poeta vive nella società e ad essa si rivolge. Anche la critica è destinataria, in tale complesso socio/culturale, del messaggio poetico. In questo complesso ma intelligibile gioco di messaggi e risposte (il presupposto è l’alterità e la reciprocità dei moti socio–culturali e dei suoi prodotti) è inevitabile che si venga formulando un giudizio di approvazione o disapprovazione dei prodotti stessi, giudizio che è alla base della nascita della critica letteraria. Si tratta, dunque, di giudizi di valore e in tale contesto ciascuna delle due parti (il poeta e il critico) incontra difficoltà e conflitti. Per la prima volta il poeta viene per così dire contestato in quanto giudicato, sentendo per la prima volta sulle sue spalle il peso di una valutazione della sua opera (da ciò “ il potere della critica “) . Dal canto suo la critica cerca un aggancio il meno arbitrario possibile ai propri giudizi.
Operazione sempre più difficile.
Se “ all’origine “ fu ad essa possibile ed anche lecito riferirsi al modello dell’unico poeta o dei pochi poeti “ in circolazione “ (sia rilevato, en passant, come temporibus illis i poeti si autolegittimavano con l’imitazione dei loro predecessori), ciò diventa via via sempre meno attendibile.
La quantità delle esperienze poetiche e le differenziazioni, anche polemiche, tra tendenze, scuole, movimenti, esperimenti, etc. hanno svuotato dall’interno il canone o i canoni faticosamente costruiti sul modello o sui modelli del dire poetico.
Ci fu, indubbiamente, un’epoca d’oro della critica in cui la “sua naturale autoreferenzialità “ trovava un riscontro oggettivo nella preliminare costruzione di canoni basati su esperienze relativamente omogenee che si riconoscevano in un orizzonte comune. In tale periodo poesia e critica si sostenevano e si legittimavano a vicenda lontane dalle accuse che in seguito si sarebbero scambiate.

VI.
Ci avviamo sempre di più e sempre più velocemente ad una implosione del discorso poetico determinata dall’alfabetismo diffuso e dalla pervasività dell’istruzione e della cultura (anche, forse o senza forse, dalla comunicazione informatica).
In tale contesto quello che ho chiamato insopprimibile istinto verso il dire poetico (la cui origine resta oscura ) si traduce in una proliferazione dei poeti e in una inarrestabile personalizzazione dei modelli espressivi. La tradizione non è più unificante, ma assunta come materiale da manipolare nel modo più vario, disparato e contraddittorio suggerito a ciascuno dalle pulsioni personali. I soggetti si sentono legittimamente sciolti nell’uso dei modelli espressivi e del resto oggettivamente abili nella utilizzazione di tutti i modelli esistenti e nell’elaborarne altri. Se ci fu un tempo in cui – complici a volte reali esperienze esistenziali – il poeta fu chiamato “ veggente” o “ matto” o comunque extra ordinem , tutto ciò ha perso senso nell’attualità.
La straordinaria diffusione delle pratiche poetiche e di ciò che ad esse si accompagna (riviste, convegni, associazioni, letture pubbliche e private, circoli, etc.) sono fenomeni che vanno analizzati con attenzione . Essi a mio giudizio manifestano da un lato quell’implosione di cui parlavo e dall’altro ne accentuano la velocità.

VII.
Come pensare che non imploda anche la critica ? L’obbiettività (relativa) di questa si fondava, in primo luogo, sulla dominabilità di tutta una serie di esperienze poetiche. Era possibile confrontarle, studiarne comparativamente gli esiti; verificare l’impatto emotivo ed estetico su una società chiusa. Era possibile, in tali condizioni, elaborare dei canoni di giudizio rispecchianti un gusto dominante e, dunque, dotati di una certa attendibilità all’interno di tale corpo sociale.
Nulla di tutto ciò è possibile.
In primo luogo non è più dominabile la materia oggetto della critica (ciò in ragione della proliferazione del discorso poetico). Ciò si coglie, visivamente, nella particolarità delle antologie poetiche, la cui dimensione è, direi naturalmente, arbitraria. Nelle più oneste (dal punto di vista intellettuale) i criteri di selezione sono dichiarati, ma sempre altamente convenzionali. I criteri puramente cronologici non bastano più e, allora, si inventano criteri diversi (poeti della linea X o Y; poeti civili; poeti della parola innamorata e via dicendo). Vengono in mente gli esilaranti criteri che Borges attribuisce ad una enciclopedia cinese e che vengono ricordati da M. Foucault nella prefazione di Le parole le cose , ed. italiana 1985).
Sia detto quasi seriamente: perché non fare l’antologia dei poeti di quartiere?
Materiale non conoscibile e non dominabile. La comprensione seria dell’esperienza poetica, che è esperienza esistenziale, imporrebbe , per ciascuno, una biografia , una ricerca sul qui, dove e perché. Insomma una scavo nella vita di chi parla poeticamente.
E, infine, è impossibile oggi pretendere dalla critica che si assuma la responsabilità di elaborare criteri relativamente certi per l’elaborazione di giudizi di valore estetico. Se qualche critico giudica un poeta in base ai vecchi canoni e ne decreta la pochezza poetica viene accusato, direi giustamente, di “non capire che non si può più scrivere come un tempo“. Se esalta altro poeta per il suo carattere moderno, gli si obietta, altrettanto giustamente, che “attualità” o “modernità” non sono sinonimi di validità estetica . Tale equivalenza può valere solo nella premessa che “ è lecito,oggi, ogni modello espressivo “.
L’elaborazione di un canone non è più possibile.Trattandosi – a ben vedere – di regole di gradimento, la possibilità di predicare l’oggettività e la attendibilità si fonda su un più o meno diffuso consumo. Possiamo aderire a questa conseguenza estrema?

VIII
Poesia e critica implodono insieme ma con livelli diversi, ancorché interagenti, di effetti.
La frammentazione, a tutti i livelli, del discorso poetico, la sua estrema soggettività e la conseguente incapacità della critica di unificare l’esperienza di ciascuno in un quadro di valutazioni coerente e oggettivamente riconoscibile determina la “ solitudine “ del poeta contemporaneo. Egli ritorna, per così dire, alle origini ma ad un livello più basso, perché a tale solitudine non corrisponde alcun privilegio di casta e neppure, nel sociale, il riconoscimento di una qualche particolarità antropologica.
Per la critica il discorso è diverso. Non mi sento di condannarla per la sua unilateralità e, al limite, arbitrarietà delle quali riconosco, entro certi limiti, il carattere ineluttabile. Ne sottolineo piuttosto l’accentuazione lato sensu politica che si esprime nel sempre più frequente ricorso all’espressione
“ critica militante “. Già in questo artificio verbale si coglie da un lato la precarietà dei suoi risultati e dall’altro la mancanza di “ ironia” che ne contraddistingue l’operato. Essa sembra non riconoscere che quel potere di valutazione che esercitava, a buon diritto, temporibus illis , si manifesta in altro contesto socio-culturale del qualche dovrebbe prendere atto. In realtà tende a conservarlo e lo conserva (nessuno abbandona sua sponte il potere) inserendosi nell’industria culturale. Tale inserimento ha trasformato il rapporto critica – poesia a vantaggio della prima. Ha trovato nella sovrabbondanza della produzione la giustificazione della selezione e nell’industria il referente in cui la selezione ritrova la sua funzione. Altro effetto straniante della divisione sociale del lavoro?
In questo contesto assumendo un preciso contorno la figura del “poeta laureato”
(riconosciuto dalla critica), espressione che richiama curiosamente l’argomento del valore legale della laurea. I poeti sono sottoposti all’esame di una critica, che è diventata esercizio di una professione, con l’ovvia deriva corporativa. In un periodo di massima democratizzazione si assiste alla massima realizzazione del potere della critica letteraria e in esso giocano intrecci politici,economici, sociali , culturali etc.
Non parlo di territori sconosciuti ma di fenomeni reali concreti, sperimentabili ora per ora.
Nonostante l’implosione, la poesia tende a restare immortale e di tale qualità si può variamente approfittare.

IX
La vita – avverte Joyce – non è un letto di rose. Perché dovrebbe esserlo per i poeti?
La situazione attuale impone, per lo più e per i più, il quasi anonimato e si deve riconoscere che è una situazione che può far male. Si può rispondere ai poeti piagnoni che ogni giorno migliaia di persone muoiono di fame. Io condivido tale risposta, ma debbo rilevare che alcuni si uccidono per un cattivo voto scolastico.
Quali sono le strategie di sopravvivenza e di consolazione ?
Si può osservare che nessuna legge esistente prevede l’immortalità della poesia: anche le gloriose Mura Aureliane si stanno sbriciolando. Si tratta di una risposta drastica, speculare a quella che afferma l’immortalità (conclusione non esente da diverse aporie).
In mezzo sta “ l’ironia “ che prende atto della caducità di tutte le cose umane, ivi compresi i giudizi sui poeti, e guarda con distacco fama, gloria, riconoscimenti e disconoscimenti.
Non ci mancherà mai una persona che sappia leggere i versi di un altro e non vi partecipi con il proprio spirito.
Alla fine sembra di dover concludere che la poesia vive di vita breve, scandita da due momenti: la felicità dell’invenzione è la commozione di una partecipazione, quale ch essa sia.

Postfazione
La fenice mostrò al poeta un rotolo rovente e prossimo a carbonizzarsi. “ Non spaventarti “ – disse – “ è la tua opera. Non ha lo spirito del tempo e ancor meno lo spirito di quelli che sono contro il tempo: di conseguenza deve essere bruciata. Ma questo è un buon segno. Ci sono molte specie di aurore “

( Nietzsche : Aurora, 568 )

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