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I Nottambuli

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 15/01/2013 09:58:52

 

Giuseppe e Francesco

LONATRO

 

 

 

I Nottambuli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- 2013 -

 

 

 

 

Alla notte…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ma tu chi sei che avanzando

nel buio della notte inciampi

nei miei più segreti pensieri?”

( W. Shakespeare)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     Alberto Loi ha voltato pagina e spento lo specchio ha ripreso a guardare.

     Finalmente era giunto e non inatteso il dovuto riconoscimento verso il suo lavoro. Aveva lavorato sodo per mesi a quel film e finalmente, adesso, qualcosa gli veniva attribuito e anche dovuto.

     Il teatro Argentina era gremito in ogni suo posto e Alberto con il suo abito scuro e atteggiamento sornione sedeva in prima fila. La proiezione del corto era terminata, i titoli di coda e la scritta FINE sullo schermo scorrevano lenti come lo erano stati i suoi pochi anni; trentacinque in tutto, ma vissuti con l’intensità di un leopardo che ogni giorno è in cerca della preda per sfamarsi. Schermo nero. Luci accese in sala e un pubblico in delirio si alzò tutto in piedi ad acclamare quell’opera prima in un capolavoro vero e proprio e Alberto non aspettava altro. Si girò verso il pubblico e con un sorriso tra lo sprezzante e il commosso, allargò le braccia e accennando a un inchino ringraziò tutti mantenendo comunque sempre un atteggiamento distaccato, si perché lui era fatto così: tutto o niente, e quella sera aveva vinto su se stesso e su tutti.

     Alberto non amava per niente le felicitazioni, i complimenti, le pacche ipocrite sulle spalle, i sorrisi falsi stampati sulle facce, ma stavolta aveva avuto ragione lui. Era stato criticato per anni per quel suo cinema d’autore che nessuno in fondo non capiva o forse non voleva capire: “ è un cinema solo per lui, ma chi si crede di essere!” dicevano, ma stavolta la sua visione onirica e surreale della vita aveva trionfato, ma aveva anche tanta paura; pensava  che dopo quel successo, la massa iniziasse a seguirlo. Rabbrividiva al pensiero di essere considerato uno tra i tanti, e lui non lo era.

     Alberto volle andare via. Voleva andare incontro al suo destino; quella strada che porta crudelmente gli artisti a una sorta di solitudine atavica.

     Fuori il teatro lo aspettava il solito taxi. Alberto non possedeva la patente, andava in giro solo in taxi o racimolava qualche passaggio da un amico, quei pochi che ormai gli erano rimasti. Quella di non prendere la patente fu una sua scelta, diceva che guidare l’auto lo intrappolava, lo imprigionava nello squallore del traffico, andare a piedi invece lo liberava, si sentiva cittadino dei suoi pensieri.

     Sedette dietro e con impazienza disse all’autista di accompagnarlo in fretta alla stazione. Doveva andare a Palermo, sua città natale ove i genitori anziani lo stavano aspettando. Lungo il tragitto ricevette una chiamata dalla madre la quale volle assicurarsi dell’orario di arrivo. Alberto rispose alla madre di non sapere di preciso quando sarebbe giunto a casa.

      <<sarò a Palermo nella mattinata di domani, come arrivo in stazione ti chiamo.>>

     Alberto liquidò la madre con il suo solito vagare, era nella sua natura di non dare mai per scontato quello che faceva.

     Il taxi andava veloce. La città, nonostante l’orario non proprio notturno sembrava svuotata, senza anima, svuotata, solo una taxi che corre.

     << tutto a posto dottore come andiamo? >> disse il tassista guardano dallo specchietto Alberto.

     Alberto alzò gli occhi verso lo specchietto e rispose: <<non sono un dottore comunque a posto… va tutto bene.>> Alberto sembrava infastidito da quella domanda, forse anche disturbato dal fatto che in quel momento qualcuno gli rivolgesse la parola, voleva stare solo con i suoi pensieri, osservare la strada vuota o forse non pensare affatto. Estrasse dalla tasca il solito taccuino, ove puntualmente da anni dava colore alle sue idee. Le prime due pagine sempre vuote, le altre sporche da una calligrafia meticolosa e ordinata, quasi maniacale. Non scrisse nulla dal tragitto che dal teatro porta alla stazione, si limitò solo a osservare i fogli bianchi.

     Giunse alla stazione in tempo e senza alcun bagaglio. Odiava fare le valigie e comunque pensava di stare via solo un paio di giorni. Percorrendo il viale che costeggia le carrozze, la sua attenzione venne catturata dallo squillo proveniente da un telefono pubblica. Si fermò e non vide nessuno, solo uno squillo dall’ultima cabina telefonica ancora rimasta integra. Alberto rimase qualche secondo immobile, dopo… improvvisamente quella sinergia silenziosa tra lui e il trillo venne squarciata dal metallico annuncio del megafono della stazione.

     “dal binario quattro è in partenza l’espresso 1234 diretto a Palermo…i signori passeggeri sono pregati di affrettarsi”

     Alberto svegliatosi da quello strano intontimento che poco prima lo aveva invaso, riprese il cammino in direzione della carrozza e prese posto nella solita seconda classe. Il vagone era quasi vuoto. Scelse uno scompartimento ove non c’era nessuno nella speranza che lungo il viaggio non sarebbe salito alcuno, amava stare da solo. Già, ormai solo lui riusciva a prendere un treno per percorrere mille chilometri; “l’aereo è troppo veloce, non da il tempo di pensare” soleva dire. Nessun bagaglio, una stecca di Camel che avrebbe fumato solo nel cesso sporco del treno, un telefonino sempre scarico e un blocco notes era l’unica cosa di qui aveva bisogno. Dopo la sua attenzione venne catturata dalle grida festose di alcune ragazze che passarono frettolosamente davanti lo scompartimento. Alberto guardò lo scorrere breve di quella gioia senza molta importanza, si limitò solo a pensare che forse erano state ad una festa o chissà che…

     Il treno partì in orario.

     Amava andare in treno. Lì, gli venivano sempre delle buone idee e poi era affascinato dalle immagini che veloci correvano davanti ai suoi occhi. Adesso le montagne, le pianure, i tetti delle case, le luci scivolose e ammassi di abitazioni che sfuggivano al suo sguardo ma che riusciva comunque a ingabbiare nella sua mente. Le luci notturne fluivano come stelle impazzite; un uccello in picchiata batté contro il vetro. Il treno poi fermò la corsa ad una stazione di transito e  sui marciapiedi dei cani vagabondi sembrava che lo salutassero. Un paese, una fontana, una casa solitaria su una piazza troppo grande. Alberto ricordò che aveva vissuto qualche anno prima in quella località e la sua casa era proprio sulla via centrale. Piombarono in quella breve attesa dei pensieri nella sua mente, ricordi di rossetti e rimmel, di dita e labbra e un giardino vuoto. Con un gesto nervoso cacciò via quel passato ostile e il treno ritornò a fischiare lungo i binari.

     Sulla tratta che porta a Villa San Giovanni, il treno aumentò la sua corsa. Sembrava mordesse la terra, che squarciasse le gallerie buie dove al di là un futuro sembrava svanire. Binari sempre uguali, forse un po’ indifferenti com’era lo stato d’animo di Alberto in quel momento, in quella notte. Eppure doveva essere appagato dalla serata trascorsa al teatro, del degno riconoscimento della sua opera, ma… Alberto aveva sempre dentro di sé un malessere di vivere.

     Mezzanotte passata e il treno giunse finalmente Villa San Giovanni.      Le operazioni d’imbarco e la sistemazione dei vagoni snodati all’interno del traghetto durarono circa mezz’ora.  Alberto aspettò che il suo vagone si fosse liberato e percorrendo la ripida scala salì sulla balconata del traghetto. Buio tutt’intorno e una leggera brezza gli invase il viso percorrendo tutto il corpo e facendolo tremare. Si sistemò su una poltroncina bianca cingendosi con le braccia e tenendo stretto il cappotto. Accese e fumò avidamente una Camel.        Dopo un po’ il traghetto mollò gli ormeggi e iniziò la sua traversata in direzione della Sicilia. Si sedette sulla poltroncina bianca alla ricerca di quelle luci dall’altra parte della costa ma la Sicilia era ancora molto lontana. Quel mare sembrava assecondare lo stato d’animo di Alberto ma faceva paura, somigliava ad  un ballerino che danza con la notte, vorrebbe le tue mani, boccheggiare con te, toccarti sfiorarti, portarti con lui. Alberto guardava il mare e pensò da quanto tempo non tornava nella sua terra, quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che vide sua madre. Rimase fermo con le braccia a cingere le spalle anche quando un’onda indispettita lo lambì di acqua gelida. La sua mente, i suoi pensieri erano altrove, a cosa avrebbe trovato al di là di quel mare, al di là di una terra quasi dimenticata e mai abbandonata. Guardava il fumo della Camel che gli cedeva il passo e per un attimo in quella che era diventata una nebbiolina, immaginò il volto di lei… Sofia. Una donna libera ma senza un Dio. Sofia che si esaltava al vento come le foglie d’ulivo, che amava bagnarsi  sotto la pioggia e adorava farsi attraversare dal sole. Sofia sempre con la gola impastata di sudore come la sabbia del deserto. Sofia meretrice di una vita senza confini. Sofia primo amore di Alberto.

     I vagoni del treno furono rimessi a posto sulla stazione di Messina pronti a partire ma, uno sciopero improvviso dei macchinisti fermò il viaggio per molte ore. Alberto, che nel frattempo si era sistemato in carrozza, irritato scese dal treno inferendo chiunque si fosse trovato davanti a lui. Trascorse tutto il tempo nei pressi della stazione, non si allontanò più di tanto, aveva paura che all’improvviso il treno ripartisse e lui sarebbe rimasto a terra.

     Verso le sette di sera, dopo aver oziato in un’attesa angosciante, lo sciopero terminò e il treno riprese la sua marcia verso Palermo. Intorno mezzanotte l’espresso giunse alla stazione, Alberto scese lentamente gli scalini e si diresse verso l’uscita percorrendo il lungo viale degli addì, simulacro di una ipocrisia senza ritegno. Ad un tratto sentì una voce provenire alle spalle:

     << Alberto! Alberto! >>

Alberto si girò di scatto come se intuisse di chi fosse la voce.

     << Alberto sono ore che ti aspetto, ma cosa è successo?! >>

Sofia era venuta a prenderlo alla stazione.

     <<Sofia!>> quasi urlò Alberto,  << scusami ma non ho potuto avvertirti in tempo dello sciopero dei macchinisti a Messina, tra l’altro avevo il cellulare scarico e non c’è stato modo di poterlo ricaricare. Ma come stai?! >>

     Sofia non rispose. Si avvicinò a lui. Troppo tempo era trascorso dall’ultima volta che si erano visti. In quei secondi di silenzi e sguardi Alberto vide i fotogrammi di un replay impazzito che lo riportava indietro a quando i due si amarono. Sofia era stata per un periodo la donna di Alberto; una passione agitata la loro, fatta di continui litigi, di allontanamenti e ritorni. Si amavano di un amore e odio della stessa intensità. Sofia era come una farfalla cieca, scappava per raggiungere altri fiori, poi ritornava ed esplodeva la passione, gli rubava la vita e Alberto la lasciava fare, forse perché aveva bisogno di questi dolori, di frammenti di carne bruciata, di fiamme rotolanti. Poi la cacciava via. “ stammi lontano per sempre! Non cercarmi più!” gli diceva ma in cuor suo sapeva che non era così.

     Alberto e Sofia uscirono dalla stazione e si diressero lungo via Roma. Garibaldi sul cavallo troneggiava alle loro spalle invaso dalle luci notturne che rischiaravano le loro ombre. Chissà cosa si dissero lungo quel tragitto. Lui, Alberto, trascinava a fatica i passi, lei, Sofia, a passi lenti guardava Alberto ciondolando le braccia e parlando in continuazione mentre lui lo ascoltava. Alle volte guardandola altre gettando lo sguardo lungo il confine di quella vecchia strada.

     Tra il Cassaro e la Vucciria dove le statue marmoree di San Domenico benedicono ogni notte le vecchie puttane, Alberto e Sofia continuarono a camminare e a parlare sino a quando una leggera e improvvisa foschia li accompagnò. Dopo un pò si separarono. Sofia incespicando in sanpietrino alzò le mani in segno di saluto o forse di un addio. Alberto pensò se corrergli dietro per un ultimo sguardo, ma in silenzio alzò una spalla e fece un cenno con la mano e dopo si girò scomparendo tra i ciuffi di quella inaspettata foschia.

     Forse non si vedranno più o forse un giorno, in una vita qualsiasi si cercheranno. Ma una cosa è certa, sia lui che lei, aspettavano questo momento. Erano come le chiavi disperse nelle tasche, come le stanze buie dove ascolti le anime della notte, come le maschere che danzano nel caos dei nostri pensieri, come quel demone che striscia e rovescia ogni cosa riportandoti al punto di partenza poiché sa che ogni tanto hai bisogno di rinascere.

     Alberto camminò lentamente. Si sentiva stanco, il cellulare scarico, aveva fame e sete. A quell’ora della notte Palermo dorme, solo le statue ti osservano e ti stanno a sentire, sembra che ti accompagnino a casa. Giunto nei pressi di via Dante, ogni tanto si soffermava a guardare per terra e il fumo della Camel dietro. La paglia della sigaretta in quell’oscurità sembrava un faro. Una, due boccate, il grigio fumo andava in direzione contraria al vento, sommerge i pensieri, brucia nel buio mentre una voce roca in quella penombra lo chiamò:

     <<Scusi…>>

     Alberto sorpreso si girò in direzione della voce senza vedere nessuno. Poi un’ombra prese la forma di un uomo che si avvicinò lentamente in direzione di Alberto.

     <<scusi è più di un’ora che sono qui perché sto aspettando un corriere… deve consegnarmi un pacco… si, un’ora insolita per consegnare un pacco ma… sa arriva da lontano ed ho finito le sigarette… sarebbe così gentile da offrirmene una? Maledetto vizio!>>

     Alberto rimase immobile per qualche secondo davanti a quell’uomo, in silenzio, non sapeva cosa dire si sentiva spiazzato e confuso dal quella presenza nel cuore della notte. Non si aspettava che qualcuno potesse invadere così i suoi pensieri. Poi, si riprese. Del resto cosa aveva chiesto? Solo una sigaretta. Alberto estrasse dalla tasca dei pantaloni il pacchetto spiegazzato delle Camel e ne diede una allo sconosciuto.

     Vincenzo Damiani, così si chiamava, aveva circa cinquant’anni. Capelli grigi e piuttosto lunghi, sino alle spalle. Un tipo strano e curioso. Di notte, in quella desolata strada, aspettava un pacco. Indossava una vestaglia di seta rossa e pantofole nere. Alberto rimase quasi folgorato da quell’uomo, non gli sembrava reale, uno di quegli uomini venuto da chissà dove, forse non esisteva, forse era solo frutto della sua fantasia o forse la stanchezza che gli giocava brutti scherzi.

     <<scusi la domanda ma come mai solo di notte… per strada. Non riusciva a dormire?>> disse Vincenzo.

     <<no… sto tornando a casa da un lungo viaggio, non ci sono mezzi in giro, ne bus ne taxi o almeno io non ne vedo e ho deciso di andare a piedi. >> rispose Alberto.

     Vincenzo accennò ad un sorriso e gli porse la mano: <<io mi chiamo Vincenzo…Vincenzo Damiani, piacere.>>

     Anche  Alberto accennò ad un sorriso, quell’uomo lo incuriosiva e ricambiò la presentazione:

     <<io sono Alberto Loi piacere, sono nato a Palermo ma vivo da molti anni in un’altra città. Oggi, dopo tanto tempo vado a fare visita ai miei genitori…>>

     <<ah… viaggio, amo viaggiare.>> disse Vincenzo con enfasi. <<Se avessi potuto avrei viaggiato sempre caro mio ma… sono qui, ad aspettare un pacco che non arriva, lui si che ha fatto un lungo viaggio!>>

     Mentre Vincenzo dipanava le virtù del viaggiare, Alberto lo ascoltava in silenzio. Gli piaceva quel suo scandire le parole, quelle pause, l’intercalare tra l’italiano e il dialetto, sembrava musica anche se la voce di Vincenzo non era proprio musicale ma piuttosto roca e resa ancor di più dall’impasto del fumo della sigaretta. Parlava di viaggi e cose mai viste, di un malessere continuo a stare fermo in quella terra e la frenesia di andare via, di evadere da quella routine di sentirsi profondamente diverso agli altri. Ad un tratto si sentì lo stridere di gomme, era arrivato quasi all’improvviso davanti a loro un furgone.

     <<oh finalmente! Ecco il pacco che aspettavo.>>  disse Vincenzo.  

     Il fattorino aprì lo sportello centrale del furgone ove all’interno era custodito un solo pacco. Quello di Vincenzo. L’uomo lo afferrò tra le mani e lo diede a Vincenzo il quale, guardando Alberto disse:

<< scusa…ah … va bè diamoci del tu dai… pionieri della notte! Tienilo un attimo tu per favore questo cazzo di pacco…>>

Alberto sorridendo a quella battuta prese il pacco tra le mani e aspettando che Vincenzo finisse di parlare con il fattorino pensò che era stato fortunato quella notte ad incontrare quell’uomo; Vincenzo Damiani.

     Vincenzo aspettò che il furgone andasse via e prima che questi girasse l’angolo lo salutò con un cenno della mano. Dopo invitò Alberto a salire a casa sua:

<< mi aiuti a portare questo pacco a casa Alberto? Sai alle volte faccio molta fatica a salire le scale… adesso con un pacco così pesante…>>

Alberto non disse nulla ma con un cenno del capo fece intendere di si.             L’abitazione di Vincenzo era a pochi passi, proprio di fronte Villa Malfitano. Una palazzina liberty a tre piani di fine ottocento. I balconi per ogni piano erano comunicanti tra loro da una scala a chiocciola esterna, mentre i piani all’interno da una scala poligonale e Vincenzo viveva all’ultimo piano. Salì lentamente gli scalini mentre Alberto da dietro lo seguiva con una certa fatica a causa del peso del pacco. Mentre i due aggredivano i vecchi scalini, Alberto non poté fare a meno di osservare le mura di quella scala, disegni floreali di donne danzanti affioravano dallo stucco increspato delle pareti, all’altezza dei gradini e sin sopra il tetto. Un’eternità di gradini e uno strano odore di antico, quasi di abbandono e l’eco dei loro passi che rimbombavano tra le pareti. Vincenzo mentre saliva estrasse dalla tasca della vestaglia delle chiavi e senza guardarle, ma solo con il tatto delle dita, separò quella di casa dalle altre. Aprì la porta e fece cenno a Alberto di entrare:

<<Alberto… lì dove c’è la porta aperta, puoi poggiare la scatola lì…>>

Alberto si diresse verso la porta che dava all’interno di una stanza buia, entrò all’interno e poggiò la scatola per terra ma non potè fare a meno di guardare in quella penombra, tante scatole tutte uguali. Scatole accatastate una sopra l’altra su pile di tre o di quattro, tutte sistematicamente in ordine. Alberto dopo qualche attimo di esitazione tornò sui passi e chiuse la porta. Dal corridoio Vincenzo lo chiamò:

<<Alberto dai vieni, vieni a sederti qui… un bicchiere di un buon whiskey per ringraziarti e dopo se vuoi vai via.>>

Un corridoio interminabile. Le luci soffuse di alcune abat-jour rischiaravano appena il parquet che crepitava ad ogni passo e un buon odore di legno ovattato sembrava custodire chissà quale segreto. Fuori la notte tra gatti investiti e cani che urlano alla luna, le grida di una donna picchiata dal marito ubriaco, ma in quel corridoio tutto sembrava diverso. Alle pareti, senza un ordine preciso quadri di artisti sconosciuti, monili in legno e vasi in porcellana, un crocevia di stili, dal Liberty al Rococò.

A metà del corridoio Alberto si soffermò davanti ad una credenza in noce massello invecchiata stile 700’ e sopra di essa un quadro di Hopper: “ I Nottambuli  … ma è originale! “ pensò con stupore. I suoi occhi si accesero di entusiasmo, gli erano sempre piaciuti i quadri di Hopper e poi i Nottambuli era il suo preferito. Come i protagonisti del quadro anche lui amava la notte, il rifugiarsi dentro un bar notturno era come dare un riposo ai suoi tormenti, dove l’anima dei poeti dava sfogo alle emozioni, dove le risposte incontravano le incertezze, dove hai la certezza di incontrare la vita vera. Su un lato della credenza un libro con la copertina rossa molto invecchiata. Alberto notò il capitello con la bordura in seta come non se ne facevano più e il titolo illeggibile, sbiadito dal tempo. Aprì una pagina a caso e ne lesse un brano: “ …rallentò i passi per osservare meglio quell’esplosione di cose e non cose, di piccoli cimeli e foto in bianco e nero su cornici d’argento, di monili in ebano e un persistente odore di tabacco antico e pensò che fuori la città dorme profondamente nel suo silenzio, nel fruscio del vento che accarezza gli alberi, nelle bottiglie rotte e qualche ciotola scaraventata nell’asfalto…”.

La voce di Vincenzo lo destò dalla lettura:

<<Alberto ma cosa fai… dai vieni. Ti aspetto di là!>> disse Vincenzo affacciatosi dalla porta del salone e agitando nella mano un bicchiere in vetro.

<<ah quel quadro… Hopper si… l’unica cosa a cui tengo. Tutto il resto buttalo via, cianfrusaglie di poco conto… dai sbrigati!>>

Il salone di Vincenzo non era molto grande, ma abbastanza confortevole e raccolto, sembrava una fotocopia del corridoio. Lui, Vincenzo, seduto su una delle due poltrone in Chesterfield color porpora e davanti un tavolinetto in massello di noce con colonna a tre piedi con sopra un bicchiere in vetro, una bottiglia di Jack Daniel’s Old seven, delle barrette di cioccolato e un piccolo vassoio di polvere di cacao, un gatto angora turco dagli occhi chiari che fissava il suo padrone come in attesa di un premio e infine una boccettina in vetro contenente dell’assenzio. Alberto afferrò il bicchiere e si accomodò nella poltrona. Sedendosi avvertì un gran senso di benessere. Sprofondò in quella poltrona rilasciando completamente i muscoli e la mente. Anche quel blues in sottofondo che sembra arrivare da sotto i piedi e ti entra dentro; il whisky impastato al cioccolato e trattenuto per qualche secondo in bocca… chiuse gli occhi e per un attimo dimenticò tutto; la serata al teatro, gli applausi, i fischi, il treno, la nave lo sciopero e anche Sofia. Volle trattenere a se quel silenzio, farlo suo e non condividerlo con nessuno. Tutto sembrava perfetto e così irreale.

<<ottimo questo whisky, sento ancora l’odore di quercia, aperto proprio adesso per l’occasione. Un amico… si… un nuovo amico direi, appena arrivato.>> disse Vincenzo guardando Alberto e riponendo la bottiglia sul tavolo.

Vincenzo vuotò il suo bicchiere frettolosamente ritornando a riempirlo.

<<amo stare con me stesso. Alle volte anche il gatto mi da fastidio. Guardare il colore di queste stanze e pensare che forse avrei dovuto condividerle con qualcuno. Forse hanno ragione gli altri a dirmi che sono un po’ misogino… ma il tempo credo sia con me.>>

<<non hai una moglie, dei figli insomma una donna…>> disse Alberto.

<<le donne…  già. No, non ho una donna nel senso che non mi sono mai sposato, qualche avventura si… ma nulla di che. Amo stare troppo da solo per avere una donna tra i piedi e figurarsi poi dei figli.>> rispose Vincenzo.

Alberto prese il suo bicchiere tra le mani e lo guardò sospirando e assentendo con un cenno della testa a quello che aveva detto Vincenzo.

<<per certi versi posso dire che siamo simili, anche a me piace stare con me stesso. Non ho una donna fissa e ogni volta che si presenta l’occasione di un incontro, spero che la mattina al risveglio di non trovarla nel letto. Non mi sento un moralista ne odio le donne anzi…solo amo vivere e ragionare da solo…>>

Vincenzo si fece una gran risata piena e tracannò un altro bicchiere. Alberto lo seguì ridendo insieme a lui.  Il ghiaccio era rotto e si sentiva sempre più a suo agio, si era creata una specie di complicità tra i due, Vincenzo prese un cucchiaio di polvere di cacao e lo versò nel bicchiere di Alberto.

<<fiumi di inchiostro sono stati consumati da poeti, scrittori ecc. per descrivere la donna e i suoi molteplici aspetti senza mai analizzare veramente di cosa fosse capace, di scoprirne la vera identità e la responsabilità che hanno su noi uomini… coglioni ma sempre uomini! E poi i sentimenti… ah cosa troppo complicata, ma forse sono un egoista… forse l’ultimo degli egoisti!>> Vincenzo prese un sorso trattenendolo qualche secondo in bocca e riprese quella specie di orazione. <<la mia vita non è trascorsa molto in fretta o forse no, ho creato e non mi sono fatto mancare problemi e tanti ne ho risolti ma non ho mai avuto la frustrazione di avere una donna accanto che mi svegliasse la mattina.>>

Alberto non disse nulla, non parlò, si limitò solo ad ascoltarlo. Era completamente preso da quell’uomo conosciuto qualche ora prima, una specie di Bohemien dei nostri giorni. Un uomo apparentemente stanco della società perché la considerava piatta, un anticonformista, forse anche un artista. Lui si sentiva proprio così quella notte: un uomo che aveva preso in prestito le ali di Icaro.

<<nulla è come sembra, anche in questa stanza… pare che ci sia tutto ma alla fine non c’è nulla. Io, tu, i nostri bicchieri e un mondo fuori che spesso non ci appartiene, anche adesso… sto fumando la mia ennesima sigaretta scroccata al primo che incontro… no… tranquillo non mi riferisco a te. Il bicchiere mezzo vuoto, il gatto sul tavolino che freme di giocare l’ultima partita a scacchi… chissà cosa cazzo pensano i gatti!>> concluse Vincenzo bevendo d’un colpo tutto il whisky.

Alberto tornò ad osservare il suo bicchiere e notò che era ancora mezzo pieno. Amava sentire il sapore, la robustezza, lo tratteneva in bocca tra la lingua e il palato, bloccarne la furia, tranquillizzarlo con il cacao.

<<Sto bene, si sto proprio bene.>> disse Alberto guardando dritto a se in direzione di una tenda che copriva l’unica finestra di quella camera e la voce di Ella Fitzgerald nelle note di Suppertime, sembrava avvolgere la stanza sottolineando immortali pensieri. Vincenzo e Alberto chiusero gli occhi per qualche secondo, solo le note di quel blues che sembrava camminare nelle loro teste.

L’atmosfera venne spezzata dal trillo di un telefono.

Quel suono sembrava arrivare da molto lontano. Non riusciva a capire, guardando il lungo corridoio, da dove arrivasse il suono. Vincenzo con aria infastidita riaprì gli occhi, si alzò, poggiò il bicchiere vuoto sul tavolinetto  e dopo essersi scusato con l’amico si diresse verso il corridoio.

<<chi cazzo sarà a quest’ora che rompe i coglioni!>> sentenziò quasi urlando.

Alberto poggiò anche lui il suo bicchiere osservando Vincenzo  che scompariva nella luce opaca del corridoio, ma il telefono ancora non smetteva di suonare, insistente e Vincenzo ancora non era giunto a destinazione.

“ ma dove sarà mai questo telefono “ pensò Alberto; quindi si alzò dalla poltrona e scostando la tenda e guardò fuori dalla finestra.

 Una puttana sotto un lampione, un uomo a bordo di una bicicletta, nessuna macchina, nessun rumore e una strana predominanza di blu notturno fasciava il tutto e sempre… sempre quel trillo di telefono che non smetteva di squillare. A un tratto un tonfo fece girare Alberto di scatto in direzione del corridoio. Un rumore come di qualcosa di pesante che cade per terra. Corse verso la fine del corridoio, entrò nell’ultima stanza e vide Vincenzo riverso per terra con la cornetta in mano. Un telefono bianco come si usava una volta, poggiato su un tavolino di radica, anch’esso scaraventato per terra. Alberto si chinò per aiutare Vincenzo a sollevarsi ma nel frattempo questi aveva già risposto alla chiamata.

<<Lara… Lara ma dove cazzo sei? Stai calma non gridare fammi parlare cazzo! Ma cosa ti è successo? Dove?...okay ho capito vedo  come posso raggiungerti… ciao a dopo.>>

Vincenzo aveva bevuto troppo e quasi non si reggeva in piedi ma la sua dignità era più forte del suo ego. Non volle essere aiutato e si rialzò da solo, lasciando per terra cornetta, telefono e tavolino. A passi lenti, ritornarono in salone mentre Vincenzo farfugliava qualcosa d’incomprensibile, non riusciva a sostenere i suoi pensieri.

<<era Lara al telefono… stronza! Una donna con la quale ogni tanto mi sento, nulla d’importante… alle volte ritorna…>>

<<è successo qualcosa?>> disse Alberto.

<<ma che cazzo ne so! Dalla voce sembrava più ubriaca di me… dice che è stata malmenata da alcuni sconosciuti che le hanno rubato l’auto, dice di trovarsi in un autogrill poco fuori città… mi accompagneresti a riprenderla io non sono in condizione di guidare.>>

Alberto non era più padrone della sua vita, era totalmente coinvolto da quell’uomo, da quella casa, dalle stanze, dall’odore di cacao e dalla musica che continuava a suonare sempre le stesse note e da una storia che non gli apparteneva.

<<si, certo d’accordo, dimmi dove dobbiamo andare…ti accompagno.>> Alberto quasi fremeva, una inspiegabile impazienza lo assaliva, ma gli sembrava del tutto naturale continuare in quel vortice di disordine che lo attraeva così tanto, quello stato di cose che stava travolgendo la sua sfera, da quel fanciullo forse un po’ cresciuto, da quell’essere fragile e d’acciaio allo stesso tempo, da quella paura e arroganza che lo ammaliava così tanto da essersi dimenticato di cosa avrebbe dovuto fare a Palermo.

Alberto salì in auto e si mise alla guida. Tentò di mettere in moto l’auto ma questa non ne voleva sapere. Accanto a lui Vincenzo, con addosso sempre la vestaglia rossa e le pantofole nere, chino su un lato, farfugliava delle cose: <<l’ultima ora è arrivata ho sonno sono stanco non avresti avuto bisogno di me non ho rimorsi…>> Alberto continuava nella sua opera di persuasione nei confronti di quell’auto che non ne voleva sapere di partire. 

<<fa’ sempre così… ogni volta ogni santissima volta cazzo! Devi aspettare…aspettare…>> disse Vincenzo con voce impastata. L’auto finalmente si decise a partire e Alberto fece un sospiro di sollievo mentre Vincenzo con gli occhi chiusi e sempre riverso su un fianco, sembrava dormire. La città era vuota, quasi irreale, nessun mezzo o persona per strada, solo la loro macchina che sfrecciava in direzione di non si sa cosa e dove.

<<che strada devo prendere?>> disse Alberto continuando a guardare la strada davanti a se. Vincenzo borbottando qualcosa fece intendere di prendere l’autostrada e che l’autogrill si trovava a pochi chilometri fuori città. In effetti ci vollero circa dieci minuti e finalmente giunsero a destinazione e lì, videro Lara.

Stava lì, seduta su una panchina  arrugginita, chinata con il corpo in avanti e la testa tra le mani, una parte del vestito ridotto a brandelli, indossava una sola scarpa, un decolté in pelle nera e una parte del collant arrotolato sulla gamba destra. Lara non si accorse dell’arrivo dell’auto e di Vincenzo che la osservava in silenzio. Dopo sollevò la testa e vide Vincenzo e quell’uomo. Si alzò di scatto dalla panchina abbracciando al collo l’amico.

<<Vincenzo dio mio sei qui!>>

<<si… ma che cosa di cazzo è successo?! Questo è un mio amico…Alberto… mi ha accompagnato altrimenti io non sarei riuscito a venire, non sto proprio bene…>>

Lara cercò in qualche modo di rimettere a posto i brandelli del vestito, si strofinò le mani in viso nella speranza di ripulirlo dal rimmel che lo rigava e si accorse che da un lato della bocca fuoriusciva del sangue.

<<cazzo! Mi hanno spaccato un labbro! Bastardi maledetti!>> e iniziò a piangere. Alberto e Vincenzo in qualche modo cercarono di calmarla e di farsi raccontare l’accaduto, ma Lara, in preda al pianto e allo sconforto e anche un po’ brilla, riuscì solo a dire che si era fermata a fare benzina, e mentre stava andando via, un’auto con a bordo degli uomini, poco dopo l’uscita dall’autogrill, iniziarono ad inveire contro di lei prendendola a schiaffi e calci ed infine rubandogli l’auto. Vincenzo in un attimo di controllo sulla sua sbornia l’abbracciò: <<tranquilla adesso sono qui, lascia perdere tutto…adesso andiamo via…>>. I tre salirono in auto dirigendosi verso la città. Vincenzo si sedette dietro con Lara e Alberto ogni tanto li osservava dallo specchietto.

Lara come Sofia per Alberto, era una donna  che fugge e ritorna, quella delle sere fredde,  quando sei in autostrada e non vuoi stare da solo con l’autoradio, quando ti viene voglia di ballare, quando ti rintani nel tuo angolo buio e cerchi lacrime, quando vorresti condividere i fumi dell’alcool, quando vorresti guardarti e non trovi lo specchio, quando vorresti farti del male. Tutto questo era Lara.

<<voglio andare al mare!>> urlò Vincenzo. <<voglio andare al mare!  Alberto svolta a destra e prendi quella cazzo di strada che ci porta dritti in spiaggia…>> incalzò ancora Vincenzo. Alberto guardò l’amico dallo specchietto con una faccia da punto interrogativo e Vincenzo rispose con un breve cenno della mano come per dire “vai”. Alberto era ormai in preda a quel vortice ma non se ne curava, anzi, assecondò l’amico e con una sterzata improvvisa girò a destra per quella strada  dove alla fine c’era una grande spiaggia.

La luna piena illuminava una striscia del mare creando delle ombre sulle piccole dune di sabbia e sui visi dei tre scellerati. Vincenzo in preda ad una sorta di pazzia rincorreva Lara la quale, nel frattempo, aveva parte del vestito e l’ultima scarpa rimasta. Alberto se ne stava seduto sulla sabbia abbracciando i ginocchi e li osservava sorridendo. Pensò che quella notte aveva riacquistato una felicità perduta e che il tempo si era affrettato in una corsa senza fine a donargli quegli attimi di illusione e di grande intimità con se stesso. Vincenzo in una corsa senza respiro raggiunse Lara afferrandola per i fianchi, la sollevò con le ultime forze che gli erano rimaste e la scaraventò in mare seguendola anche lui in quelle acque gelide. Lara andò giù, infondo al mare, per un tempo interminabile per poi risalire in superficie con un balzo urlando e ridendo come una invasata. Vincenzo si avvicinò a lei a fatica anche per via della vestaglia fradicia e le diede uno schiaffo violento. Lara perse l’equilibrio ritornando immersa nel fondo per riapparire subito dopo. Nel frattempo Vincenzo era uscito dall’acqua e girandosi verso la luna disse: <<VOGLIO BERE! DATEMI DA BERE! Laraaaaa dove cazzo sei… voglio  bere!>>. Sembrava un lupo che urlava tutta la sua rabbia alla luna. << Luna del cazzo dammi da bere!>>. Vincenzo cadde sfinito sulle ginocchia con lo sguardo fisso verso quel fascio di luce.

Scalzo e con la vestaglia gocciolante d’acqua, Vincenzo si allontanò barcollando in direzione della strada. Alberto e Lara rimasero seduti nella sabbia l’uno accanto all’altra ad osservarlo mentre andava via. Sembrava cantasse o dicesse qualcosa, ma il vento scompaginava quelle parole dissolvendole nel nulla. Poi la figura di Vincenzo sparì, tra la sabbia e la luce fioca di un solitario lampione che costeggiava la strada.

Lara si distese rannicchiandosi come un feto in attesa di vedere la prima luce. Alberto la osservò scostandole una ciocca di capelli dalle palpebre serrate. Accese una sigaretta e osservò il cielo. Fuggente, irripetibile, una lucentezza mai vista, il volo pesante di un gufo, un’onda più lunga che lambiva le scarpe, una bottiglia in vetro che scivola tra la battigia e le onde e un chiarore improvviso già appariva all’orizzonte. Quella foca luce rossa dava inizio a un nuovo giorno… un giorno da uccidere.

Vincenzo…

Vincenzo era andato via.

Aveva lasciato quella compagnia. Il mare, la luna, Alberto e… Lara. Non fece più ritorno. Passeggiò a lungo e trovò anche da bere in un bar appena aperto: <<mi dia quella bottiglia per favore, quant’è?...>>, disse al barista. Forse voleva tornare dai suoi amici o forse ritornare a casa ma non aveva più il senso della direzione e… camminò a lungo.

Un viale lungo e desolato, un ponte. Il viola di un giorno che nasce e il confine di una nuova luce. Una bottiglia che dondola, una penisola nella testa e il battito del cuore che scandisce i secondi, le ore i giorni. Vincenzo si fermò ad ascoltarlo, il suo cuore. Si appoggiò alla balaustra del ponte e guardò sotto. Il fiume Oreto scorreva lento verso la sua foce. Dal suo letto affioravano melma e carcasse di ogni specie ma il corso lento dell’acqua superava ogni cosa compreso i battiti del suo cuore. Vincenzo pensava alla sua vita, a quello che era diventato, a Lara e a tutte le donne che aveva amato e anche all’uomo del giorno prima…Alberto. Si sentiva solo, e milioni di spilli gli trafiggevano la testa, sentiva la realtà lentamente sciogliersi e un nodo in fondo alla gola, non avvertiva più il tempo, aspettava solo l’urlo di quel silenzio che lo invadesse definitivamente e intanto la melma continuava a emergere sul letto del fiume e le carcasse della vita di ogni uomo ad attendere lo scorrere del tempo.

Aveva quasi svuotato la bottiglia Vincenzo, gli occhi gli si erano offuscati; seduto per terra con le spalle appoggiate alla balaustra, completamente ubriaco e fradicio gli venne in mente una nenia che la madre gli cantava la sera prima di addormentarsi e rammentando il motivo iniziò con parole mute a canticchiarla. Si alzò da terra continuando a camminare e a rigirarsi su se stesso come una specie di ballo solitario, sempre con la nenia tra le labbra e la bottiglia nella mano che oscillava. Ad un tratto si girò di scatto sbattendo violentemente sul cornicione, adagiò la parte superiore del corpo sul cornicione per evitare di cadere sotto. Il braccio che tratteneva la bottiglia oscillava e lo sguardo rivolto verso l’esterno a guardare sotto, verso il letame del fiume. Dopo, aprì la mano e lasciò scivolare la bottiglia e anche lui con un balzo decise di seguirla.

I due corpi, uno in vetro l’altro in carne si confusero tra i rottami e la melma.

     Lara dalla spiaggia, come Vincenzo si allontanò, lasciando Alberto che dormiva. Dopo qualche ora il sole era già abbastanza alto e Alberto si risvegliò e notò che sia Lara che Vincenzo non erano più in spiaggia, non se né curò; quindi raccolse le sue cose e s’incamminò in direzione della strada. Si fermò in un bar e prese un caffè e notò che l’auto di Vincenzo era rimasta lì, aperta e con le chiavi  inserite. Salì, mise in moto e si diresse verso casa di Vincenzo nella speranza di trovarlo lì con Lara. In effetti giunto sotto casa trovò Lara ad attenderlo. I due non si dissero nulla, salirono su per le scale frettolosamente notando che la porta d’ingresso era già aperta.

     <<Vincenzo, Vincenzo!>> urlò Lara, nella speranza che l’amico fosse a casa, ma non ebbe nessuna risposta. Anche Alberto provò a chiamarlo e anche lui non ebbe risposta. I due si divisero nel corridoio, Lara si diresse verso il salone mentre Alberto verso le altre stanze. La stanza dove la sera prima aveva riposto il pacco, Alberto notò che era aperta, entrò all’interno, accese la luce, ma di Vincenzo nemmeno l’ombra, la sua attenzione venne catturata solo dai pacchi messi in ordine su pile di tre o quattro file. Spense la luce, chiuse la porta e ripercorse il corridoio. Giunto all’interno del salone, illuminato dalle abat-jour, notò Mosè, il gatto, sopra il tavolino accanto gli scacchi; stava lì immobile, come in attesa di qualcosa. Alberto si girò e rigirò  in quella stanza non notando neanche la presenza di Lara,”eppure doveva essere qui lei” pensò. Ad un tratto un botto: Mosè con un balzo dal tavolinetto alla credenza, aveva fatto rotolare per terra un grosso vaso mandandolo in mille pezzi e le persiane dell’unica finestra si chiusero violentemente da sole sbattendo l’una contro l’altra. Alberto si fermò al centro della stanza. Rimase immobile, quasi pietrificato e lentamente come i dadi del domino, le abat-jour iniziarono a spegnersi, ad una ad una.

     <<Lara Lara!>>urlò Alberto.

     Nessuna risposta. Solo silenzio e buio.

     Ad un tratto da lontano, gradualmente avvertì dei rumori, come degli applausi che, mano a mano diventavano sempre più forti e vicini e da un lato della stanza, una debole luce iniziava a schiarire quel buio. Una luce fioca che dal basso risaliva sulle pareti attraversando mobili e quadri sino ad arrestarsi davanti a Alberto il quale la osservò con lo sguardo di chi appena nato non sa di essere al mondo, di chi deve imparare a parlare, a guardare anche a camminare…la stanza si illuminò completamente e dietro sentì quel diluviare di applausi e un vocio incomprensibile e incessante. Le voci andavano da un capo all’altro e Alberto sempre con lo sguardo rivolto verso quel bagliore, si sentiva quasi prigioniero, ostaggio di se stesso. Poi, lentamente si girò…, Le poltrone rosse di quella sala sembravano interminabili, anche allungando lo sguardo, non si riusciva a vederne la fine. Alberto si alzò in piedi curvando il corpo in avanti e poggiando le mani sui braccioli di legno e tutto era più chiaro.

     Un sobbalzo lo colse inatteso. Un tremito lungo la schiena lo fece raddrizzare e gli applausi e i cori e anche qualche fischio sembravano aumentare d’intensità ma quelle poltrone erano vuote! Il rosso del camoscio era perfetto, nessuna piega o increspatura, tutto in ordine, nessuno sedeva su quelle poltrone, nessuno era in quella sala, anche l’odore rendeva l’idea di un teatro appena aperto in attesa di riempirsi. Nessuno in quell’istante eterno viveva all’interno del teatro ma Alberto continuava a sentire il vociare e le mani invasate che si percuotevano l’una contro l’altra: “ Bravo! Bravo! Bravo! “.

     Alberto continuò per un tempo interminabile a guardare dritto davanti a se, poi lentamente si rigirò e si diresse verso l’uscita.

     Una leggera nebbiolina rendeva l’asfalto bagnato. Alberto alzò il colletto del cappotto, accese la solita Camel, il fumo si mescolava al suo alito.  La mano destra chiusa in un pugno immersa nella tasca destra, l’altra andava su è giù tra la bocca avida di fumo e il precipizio del catrame bagnato.

Una città qualunque,  senza spazio, irreale, nessuno in giro a condividere con lui questo momento. Fece pochi passi fuori l’ingresso del teatro, si fermò sulla soglia dei marciapiedi gettando lo sguardo verso un lampione che colorava d’oro la pece della strada, guardò l’orologio e la strada, un furgone giunse dalla sua destra e si fermò davanti a lui.

Dal furgone scese un uomo piuttosto basso il quale senza dire nulla, tese un pacco tra le mani di Alberto. Questi lo poggiò per terra e ne strappò un lembo dall’angolo. Si avvicinò lentamente e guardò dentro per assicurarsi che tutto fosse a posto; l’ammasso di nastri di triacetato di cellulosa fuoriuscivano da quel lembo scoprendo alcuni fotogrammi di chissà quale pellicola.

     “ E’ tutto a posto “ pensò Alberto. Richiuse alla meglio il lembo lacerato, tirò su il pacco ringraziando e girandosi verso il teatro iniziò a camminare. L’uomo del furgone lo chiamò:

     << scusi, ha dimenticato di firmare. >> disse l’uomo allungando tra le mani un foglio e una penna.

     << si… ha ragione dimentico sempre. >> rispose Alberto tornando in direzione dell’uomo. Poggiò il foglio sopra il pacco firmando la distinta.

 

VINCENZO DAMIANI

 

     Il fattorino ringraziò, accennò a un sorriso e risalì sul furgone scomparendo tra la foschia e la fine della strada. Alberto seguì con gli occhi il furgone sino a quando non fosse scomparso del tutto, riprese il pacco tra le mani e si diresse in direzione opposta al teatro.

Andò via lentamente, con quel pacco tra  le mani. Come un’anima sgualcita nell’asfalto consumato e le luci di una notte qualsiasi.-


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