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Quaderni di Etnomus. 7: Grecia - terza parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 30/11/2011 12:26:08

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA – 7 GRECIA (terza parte)

“GRECIA: Terra di suoni, di antichi miti, di amori lontani ritrovati” – di Giorgio Mancinelli.

Frammenti di un diario di viaggio:

Faccio la conoscenza di Zorba al Pireo, la mattina che mi reco al porto. (..) Un uomo alto, massiccio, il volto scavato dalle intemperie, ma giovanile; gli occhi verde-azzurri, con un’espressione intelligente e fiera …”. (1)

Kalimera! – dice, mentre mi viene incontro e mi chiede di dove vengo e dove sono diretto. Parla correttamente greco, francese, inglese e si arrangia con l’italiano. Sa tutto sul teatro e la letteratura greci, conosce i testi delle canzoni più famose, il nome dei compositori in voga, gli strumenti, le danze popolari, i cibi e i vini, le taverne che è uso frequentare, e chissà quante altre cose. Decide lui di farmi da accompagnatore in questo viaggio itinerante che intendo fare nelle isole greche alla ricerca delle antiche tradizioni.


Strano – mi dico – come i greci siano tutti un po’ Zorba, come tutti sanno suonare almeno uno strumento, sanno cantare e ballare almeno una danza della loro terra d’origine, conoscono le tradizioni della regione che li ha allevati, e tutti si rallegrano al primo bicchiere di vino, quasi Dioniso in persona scenda tra loro per invitarli alla sua millenaria festa che si tiene un po’ dovunque, dall’Attica fino a toccare ogni Isola, anche la più lontana. Dioniso stesso è chiamato ad assistere ai banchetti, nell’euforia generale, alla pigiatura, al piacere del canto, alla gioia della danza, mentre Nikos Kazantzachis, autore del romanzo omonimo fa dire al suo Zorba:

Basta bere un bicchiere di vino e subito il mondo cambia aspetto. La vita è davvero buffa. Sul vostro onore, sono grappoli quelli che ci pendono sulla testa, o sono angeli?”. (2)

È allora che Zorba corre a prendere il suo santouri e siede al suolo con le gambe incrociate, poi tolta la fodera allo strumento se lo pone in grembo e incomincia a suonare:

E appena egli comincia a suonare, ècco si stende davanti agli occhi l’intera Macedonia, con le sue montagne, le sue foreste, i suoi torrenti, le donne atte alla dura fatica e uomini dalla corporatura possente, il monte Athos coi suoi ventuno monasteri e i suoi pigri abitanti … (..) A volte suona una melodia selvaggia, è allora che ci si sente soffocare, si comprende all’improvviso come la nostra vita sia incolore, triste, meschina, indegna. (..) Altre volte, quando suona egli suona un’aria malinconica si capisce come invece la vita trascorra, fuggendo come sabbia dalle dita dischiuse, senza possibilità di salvezza, ma forse di speranza”. (3)

Sembra quasi di sentirlo, non è vero? Ma chi è Zorba se non quell’Orfeo innamorato di Euridice al tempo stesso felice e affranto che vive il paradosso della sua esistenza/assenza destinato a toccare il suo apice solo (divinamente parlando) nella musica, e forse (umanamente parlando) nel canto, sì da lasciarci esterrefatti nell’accostamento, dinanzi all’unità e alla strettissima somiglianza delle idee che si sviluppano intorno ai pensieri fondamentali che si avviluppano nella nostra mente pur secondo misurate concezioni fin troppo umane. 


Scrive Marius Schneider nel suo insuperato “Il significato della musica” (4):

Quanto più antico è il passato a cui risaliamo nella storia dell’umanità, tanto più vediamo la musica comparire non in forma di divertimento o di manifestazione artistica, ma come elemento legato ai particolari più umili della vita quotidiana o connesso agli sforzi ostinati tesi a stabilire il contatto con un mondo che possiamo chiamare metafisico”.

E metafisico è l’accostamento che stiamo cercando di fare in questo contesto di ricerca, onde catturare la polisemia del simbolo che ci ha fin qui accompagnati, cioè la musica e il canto, tenuti insieme da entrambi i protagonisti della nostra storia “surreale”, lì dove Zorba è riconducibile a Orfeo o, al limite massimo della sua esperienza umana, di unione e separazione degli elementi che compongono l’incontro delle due entità. Lì dove Orfeo rinuncia a vivere per andare incontro a Euridice, mentre Zorba chiede di vivere per andare incontro al tempo “il regno del mutamento, della discontinuità, dell’alternanza” e, non importa che il tempo sia concepito secondo un modello ciclico, quanto è l’idea stessa del cambiamento che rende concepibile la coesistenza degli eventi in un eterno presente. Se per Orfeo l’assenza di Euridice simboleggia il vuoto di un sentimento, per Zorba è l’assenza in se stessa a essere significativa, nella separazione di luce e ombra che include la sua esistenza, è il nulla che lo circonda, il tutto che lo avvolge è luce e tenebra, vita e morte affrancate dalla sua voglia di vivere. Due estremità di una fune che corrode il tempo in cui, se il ritorno ciclico è garanzia di immortalità, l’avanzare del tempo verso una fine è non più la sofferenza di vivere (Orfeo) ma è liberazione (Zorba).


Verosimilmente sia Orfeo che Zorba ci seducono attraverso la musica, come scrive Augusto Romano (5):

“In questa impresa orfeo si mostra grande incantatore, anestetizza il male: infatti Tantalo dimentica la sua sete, Sisifo si siede sulla sua pietra, gli avvoltoi smettono di lacerare il fegato di Tizio e così via. Si tocca qui un terreno che inquieta: la funzione civilizzatrice della musica (..) che già in Platone aveva trovato un’efficace formulazione che si propone un mondo di affetti stabili e incorruttibili. Il male come rottura viene eufemistizzato attraverso la possibilità della ricomposizione. (..) Questa reversibilità del tempo si estende sin oltre il punto in cui esso ha avuto origine e sfocia nel gran mare della comunione universale, in cui Orfeo ed Euridice sono una cosa sola”.

Lo stesso che vede Zorba essere tutt’uno con la terra che lo ha visto nascere e che un giorno lo riavrà tra le sue braccia amorevoli:

Che cosa significa allora la Grecia, la patria, il dolore?” – fa chiedere ancora a Zorba l’autore del romanzo, dandosi poi anche la risposta:

La verità è qui!, racchiusa in queste parole, che forse non significano nulla. Eppure per questo nulla (noi greci) siamo disposti a corteggiare la morte!” (6) – ed è forse questa la riproposizione del dramma antico che si porta dietro la Grecia, il tentativo di riappropriazione del proprio passato, e lo fa attraverso l’anima della Tragedia, il corpus “musicale” del suo canto, delle sue danze arcaiche come per un viaggio iniziatico significativo che dal lontano passato giunge fino ai nostri giorni. E se è vero che l’occasione fa il lettore ladro, colgo l’occasione per un’introduzione nel vasto panorama della danza che qui si balla con gioia per le strade e nelle piazze, come forse lo si faceva ieri, oggi, sempre:

Chi non danza, ignora quel che accade” (Cristo in un Inno gnostico del II sec.). (7)

Scrive Curt Sacks (8): “La danza è la madre delle arti. Musica e poesia si determinano nel tempo, le arti figurative e l’architettura nello spazio: la danza vive ugualmente nel tempo e nello spazio. In essa creatore e creazione, opera e artista, fanno tutt’uno. Movimento ritmico in una successione spazio-temporale, senso plastico dello spazio, viva rappresentazione di una realtà visiva e fantastica (del mondo). Danzando, l’uomo ricrea queste cose con il suo stesso corpo, ancor prima di affidare alla materia, alla pietra, alla parola, il risultato della sua esperienza. (..) Infatti, nella danza i confini tra corpo e anima, tra espressione libera dei sentimenti e finalità utilitarie, tra socialità e individualismo, tra gioco, culto, lotta e rappresentazione scenica, tutti i confini che l’umanità ha costruito nel corso della sua evoluzione, si annullano. (..) La danza è vita a un grado più elevato e intenso: tale affermazione sottolinea il carattere universale della danza con il suo significato definitivo e potrebbe dare profondità e ampiezza a considerazioni di ordine scientifico, ma non è una definizione che per tali considerazioni possa servire da punto di partenza”.

Al carattere gioioso della danza fa riferimento l’origine della parola stessa, almeno per i greci la parola “chóros”, cioè “danza”, seppure erroneamente era derivata da “chará”, ovvero gioia. Gli studiosi del folklore vedono nella danza di “gioia” un modo catartico della morte e della resurrezione, come nel più antico mito della morte e del risveglio della natura, in senso propiziatorio. I vari elementi della danza che sono dispersi nello spazio e nel tempo e che devono essere laboriosamente riuniti in un quadro corrente, vivono insieme in un mirabile organismo nell’Europa antica (9). A mio avviso, nessuno degli aspetti del mondo antico può essere studiato isolatamente perché ognuno costituisce una parte interdipendente di un tutto. L’Egeo, fino a un certo periodo si trova a un livello di cultura non superiore a quello del resto dell’Europa. Le tradizioni coreutiche, quelle dei più lontani antenati, che le civiltà mature amano riportare indietro in un oscuro passato, hanno conservato qui tutto il loro originario vigore e sono oggetto dello stesso amore e della stessa fedeltà che a loro testimonia l’umanità primitiva; inoltre qui tutto ciò che hanno creato i millenni successivi fiorisce liberamente accanto alle tradizioni di questa prima età. Alla successione si è sostituita la coesistenza delle forme coreutiche di cui la narrazione fattaci da Omero dei tempi eroici descrive le danze gioiose dei giovani, soli o con fanciulle per festeggiare le nozze, la vendemmia o semplicemente per dar sfogo alla loro esuberanza giovanile:

Dall’Iliade canto.XVIII, leggiamo un passo nella traduzione di Vincenzo Monti: (10)

Facevi ancora il mastro ignipotente
In amena convalle una pastura
Tutta di greggi biancheggiante, e sparsa
Di capanne, di chiusi e pecorilli.
Poi vi sculse una danza, a quella eguale
Che ad Arianna dalle belle trecce
Nell’ampia Creta Dèdalo compose.
V’erano garzoncelli e verginette
Di bellissimo corpo, che saltando
Teneansi al carpo delle palme avvinti.
Queste un velo sottil, quelli un farsetto
Ben tessuto vestìa, soavemente
Lustro qual bacca di palladia fronda.
Portano queste al crin belle ghirlande,
Quelli aurato trafiere al fianco appeso
Da cintola d’argento. Ed or leggieri
Danzano in tondo con maestri passi,
Come rapida ruota che, seduto
Al mobil torno, il vasellier rivolve;
Or si spiegano in file. Numerosa
Stava la turba a riguardar le belle
Caròle, e in cor godea. Finian la danza
Tre saltator, che in vari caracolli
Rotavansi intonando una canzona”.

Scrive ancora Curt Sachs (11): “Sono gli stessi uomini che, immersi in una profonda meditazione, girano intorno agli oggetti sacri alla maniera dei loro antenati; che imitano l’animale nei suoi tratti caratteristici e nei suoi gesti; che sotto la maschera perdono la loro individualità e vengono posseduti, seguendo il potere degli spiriti e delle divinità, danzando nel rapimento dell’estasi. E sono ancora gli stessi uomini che, ispirati da un sogno, rivivono il destino dei loro avi e ne fanno un dramma del popolo, un dramma universale con il riconoscimento della socialità nella danza collettiva e l’affermazione individualistica nella danza solistica, con umile devozione e ridente saggezza, solennemente e grottescamente, seriamente e scherzosamente, trascorrendo sempre dall’umano al sovrumano”.

È così che ogni regione e ogni isola ha la sua varietà di strumenti – dice ancora Zorba – come pure i suoi canti e le sue danze. È allora, come adesso, che torna a farsi sentire la voce di Zorba che col bicchiere di vino in mano, comincia a cantare una canzone antica, pur sempre nuova, e a poco a poco attorno si forma un coro accompagnato dal tamburellare delle dita sul tavolo e dal battere ritmico delle mani, di quanti s’immedesimano in cantori:

Dall’Iliade canto.IX, leggiamo un passo nella traduzione di Vincenzo Monti: (12)

Alle tende venuti ed alle navi
de’ Mirmidoni ritrovar l’eroe
che ricreava colla cetra il core
cetra arguta e gentil che la traversa
avea d’argento e spoglia era del sacco
de la città d’Eezion distrutta”.

Ed anche danzatori provetti, se non altro perché ognuno improvvisa un passo di danza, benché nel chiuso della taverna. Oltre a quelle già elencate nell’excursus di questa ricerca, troviamo il “pentozali” l’antica danza nazionale dei guerrieri di Creta; il tradizionale “chassapiko” (del macellaio); lo “zeibétiko” del popolo Zeibèko dell’Asia Minore; insieme alla più diffusa “kalamantianós” originaria del Peloponneso; la “sousta” tipica del Dodecanneso; la “pella” forse la più antica danza conosciuta nell’antica Macedonia; il “lambiatiko” di Kèdras in Tessalonia, e il “sirtaki” sui passi del tradizionale “syrtòs” di più lontana memoria.

 

Come allora ci si avvale per l’accompagnamento degli strumenti tipici, o di una piccola orchestra che prende nome Zilyà, composta da clarino, violino, liuto, sandouri e dai tamburelli daouli che, nello spettacolo tenuto dalla coreografa Dora Stratou nell’omonimo Teatro sotto l’Acropoli fanno di ogni singola esecuzione, un momento di autentico virtuosismo, dal forte impatto tradizionale. Ogni strumentista dice di saper suonare oltre al già citato santouri, il bouzouki, un mandolino dal manico lungo a sei corde che deriva dal saz turco o dal bizantino tambourás; e ancora il klarino, la pipiza e la zournas appartenenti alla grande tradizione dei flauti greci e quell’antico aulos il cui suono è ancora oggi capace di incantare il mondo; la zampogna o askomadoùra, la gaida, e, non ultima la lyra o kithára. Dopo l’aulos, la lyra è infatti lo strumento che più interessa la nostra ricerca: già rinvenuta nelle stanze funerarie egizie del Nuovo Regno, è formata da una cassa quadrata e poco profonda, da due bracci divergenti e asimmetrici e una traversa obliqua; le sue corde sono fissate a una cordiera sulla fronte della cassa, in alto invece avvolte attorno alla traversa e possono essere spostate fino a raggiungere l’altezza desiderata:

Dalla conoscenza della lyra classica greca si può dedurre che l’accordatura fosse pentatonica pure per quella egizia., anche quando il numero delle corde era superiore a cinque. In questo caso le corde aggiunte probabilmente continuavano la scala pentatonica verso l’acuto o verso il grave. Un numero più elevato di corde, come dieci o quattordici, va interpretato quale semplice raddoppio di corde, sull’esempio della moderna lyra abissina. La mano destra faceva scorrere il plettro sull’intera superficie delle corde, mentre le dita della sinistra provvedevano a impedire la vibrazione di quelle che non dovevano risonare. Lo strumento veniva tenuto nella posizione più conveniente per questo genere di esecuzione, con le corde inclinate in avanti”(13).

La lyra o cetra o kithára costituiva il principale strumento della Grecia antica, quello attribuito agli déi. Febo o Apollo era il dio citaredo (armato di cetra) che della lyra gli era attribuita l’invenzione. Resta famoso il mito della disputa tra Apollo e Marsya di cui si è già parlato. In quanto attributo di Apollo, la lyra rappresentava e dava voce a quell’aspetto della vita e dell’anima greche che si dice solitamente apollineo: “una miracolosa alchimia di saggia moderazione, armonioso controllo ed equilibrio della mente, laddove l’aulos incarnava l’aspetto dionisiaco (satiresco), l’ebbrezza sfrenata, l’estasi”.

Dagli Inni Omerici (14), leggiamo il XIX dedicato “A Pan” e alla danza:

O Musa, celebra il figlio diletto di Ermes,
dal piede caprino, bicorne, amante del clamore, che per le valli
folte di alberi si aggira insieme con le ninfe avvezze alla danza:
esse amano calcare le cime delle impervie rupi
invocando Pan, il dio dei pascoli, dall’abbondante chioma,
irsuto, che regna su tutte le alture nevose
e sulle vette dei monti, e sugli aspri sentieri.
Si aggira da ogni parte tra le folte macchie:
ora è attirato dai lenti ruscelli,
ora invece s’inerpica fra rupi inaccessibili
salendo alla vetta più alta da cui scorgono le greggi.
Spesso corre attraverso le grandi montagne biancheggianti,
spesso muove fra le colline, e fa strage di fiere,
scorgendole col suo sguardo acuto; talora, al tramonto,
solitario tornando dalla caccia,

suona modulando con la siringa una
musica serena: non riuscirebbe a superarlo nella melodia
l’uccello che tra il fogliame della primavera ricca di fiori
effonde il suo lamento, e intona un canto dolce come il miele.
Con lui allora le ninfe montana dalla limpida voce
girando con rapido batter di piedi

presso la sorgente dalle acque cupe cantano, e l’eco geme

intorno alla vetta del monte.
Il dio, muovendo da una parte all’altra,

e talora al centro della danza, la guida

con rapido batter di piedi – sul dorso ha una fulva
pelle di lince, esaltandosi nell’animo al limpido canto,
sul molle prato dove il croco, e il giacinto
odoroso, fioriscono mescolandosi innumerevoli all’erba …”.

Per una divinità legata soprattutto alla pastorizia, “cantare Pan” significa dedicarsi alla poesia pastorale, o almeno, secondo i poeti bucolici, invocare il suo nome è invocare la natura selvaggia che fa da sfondo alla vita pastorale. Com’è noto, la sua figura è popolare soprattutto in Arcadia, la terra “ricca di greggi” dove il suo culto è attestato fin dal VI secolo, ma doveva essere molto più antico da poter supporre precedente alle feste di Zeus Liceo (Pausania). Secondo Erodoto il culto di Pan fu introdotto in Atene dopo la battaglia di Maratona, nel 490, a causa dell’aiuto ch’egli diede agli Ateniesi. La sua presenza è attestata qua e là dal V sec. in poi, in tutto il mondo greco. Colgo qui l’occasione per parlare del syrinx o flauto di Pan dimenticata dai prototipi strumentali forse perché non trova posto nell’arte musicale.

 

In Grecia lo strumento fu esclusivamente pastorale pertanto relegato a fatto mitico che lo legava alla natura. Questo spiega facilmente perché soggiorna in luoghi più frequentati da animali cha da uomini, tant’è che Omero dice dei pastori che: “seguivano il gregge su la siringa / lor zufolando …”; lo strumento consiste d’una serie di canne ordinate secondo la lunghezza e generalmente in numero di sette, delle quali ognuna rassomiglia a un semplice flauto diritto, chiuso all’estremità inferiore e privo di fori per le dita, capace di emettere una nota della scala. Le canne sono unite insieme a formare una fila solidale pareggiata in alto e digradante alla base sagomata ad ala, su cui l’esecutore fa scivolare la bocca per giungere alla nota voluta dando luogo a un passaggio di note più o meno alte fino a formare una sorta di melodioso insieme.

 

I pochi esemplari esistenti, reperti negli scavi archeologici, sono fatti di legno, bronzo, terracotta, o in una specie di resina; può ben darsi che siano state usate anche delle canne ma si tratta di un materiale troppo facilmente deperibile perché si sia potuto conservare. Dovunque sia presente nella Grecia classica come in regioni primitive, la syrinx è legata a incantesimi e magie amorose. Riferisce la leggenda che Pan innamoratosi di una leggiadra ninfa dell’Arcadia, la inseguì finché ella non fu fermata nella sua fuga dal fiume Ladon: sarebbe stata certo raggiunta dal dio coi piedi caprini se un dio che la proteggeva non l’avesse subito trasmutata in canna. Fu precisamente da questa canna che Pan ricavò la sua sarin, per suonarla quando la passione e il desiderio si fossero impadroniti di lui.

 

Si vuole che una sarin conservata nella caverna di Artemide presso Efeso, fosse capace di provare la verginità di una fanciulla col suo suono. Lo sfondo crepuscolare dell’inno sopra riportato, nonostante le sue dimensioni, probabilmente non è un proemio integro, ma solo un ampio esordio seguito da un breve congedo, possibilmente eseguito in Arcadia, tuttavia non è escluso del tutto che fosse recitato durante un agone in onore della divinità o addirittura di altre se, come qui di seguito riportato, esso si apre a un’esaltazione più ampia, rivolgendosi agli déi dell’Olimpo: (15)

Cantano gli déi beati e il vasto Olimpo;
per esempio, del rapido Ermes, eminente fra gli altri,
narravano: come egli sia messaggero veloce per tutti gli déi,
e come venne all’Arcadia ricca di fonti, madre di greggi,
là dove ha il suo santuario cillenio.
Colà, pur essendo un dio, (Pan) pascolava le greggi dal ruvido vello
presso un mortale: poiché lo aveva preso, e fioriva in lui, un
desiderio struggente
di unirsi in amore con la fanciulla dalle belle trecce, figlia di
Driope.
E ottenne il florido amplesso; ed ella, nelle sue stanze, generò
Ermes un figlio diletto, già allora mostruoso a vedersi,
dal piede caprino, bicorne, vociante, dal dolce sorriso.
Diede un balzo e fuggì la nutrice, e abbandonò il fanciullo:
si spaventò, infatti, come vide quel volto ferino e barbuto.
Ma subito il rapido Ermes lo prese fra le braccia,
accogliendoloi: grandemente il dio gioiva nell’animo.
Senza indugio salì alle dimore degl’immortali, dopo aver
Avvolto il fanciullo
Nella folta pelliccia di una lepre montana;
lo depose al cospetto di Zeus e degli altri immortali,
e presentò suo figlio: si rallegrarono nell’animo tutti
gli immortali, ma più d’ogni altro il baccheggiante Dioniso;
e lo chiamarono Pan, poiché a tutti l’animo aveva rallegrato.
Così io ti saluto, signore, e ti rendo propizio col mio canto:
ed io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora”.

Solleva il piede spingi nell’etere la danza, evoè, evoè … La danza è santa”, incita Euripide in un antistrofe di “Le Troiane”, che risuona come un diretto invito a ogni coreografo/a che si rispetti, di misurarsi con la tragedia greca. Interamente alla danza è dedicato il Festival Internazionale che si tiene a Kalamàta in Luglio con la direzione artistica di Victoria Marangopoulou il cui prestigio è riconosciuto a livello internazionale, e diventato un appuntamento fisso per gli appassionati del genere e un’importante ribalta per le compagnie di ogni nazionalità. Altro evento culturale di punta dell’estate è indubbiamente il Festival di Atene con un cartellone che spazia dall’Opera lirica, alla Commedia greca, alla danza contemporanea, che si alternano sull’antico palcoscenico dell’Odeon Erode-Attico, costruito nel 161 d.C., e che ha come sfondo d’eccezione l’Acropoli.

 

Nello stesso periodo estivo si svolge anche il Festival di Epidauro, considerato una vera istituzione per gli appassionati del dramma antico. il più celebre teatro del Peloponneso, costruito nel 4 a.C. da Policlito il Giovane e tutt’oggi rinomato per l’eccellente acustica, ospita le più acclamate tragedie di Eschilo, Euripide e Sofocle, nonché alcune commedie di Aristofane.

 

Colgo qui l’occasione per citare uno stuolo di grandi e di più giovani coreografi e musicisti che si sono adoperati per una internazionalizzazione della musica e della tragedia greche. Il ricordo va senz’altro a Pina Bausch (16) che della danza antica e in particolare di quella greca ha fatto la sua stilizzazione di base, rapportandosi spesso con la tragedia, creando coreografie per balletti e ispirazioni che l’hanno portata alla fusione di “teatrodanza”. La novità del suo lavoro non consiste tanto nell'invenzione di nuove forme e nuovi gesti, da riprodurre uguali a se stessi, quanto nell'interpretazione personale della forma che si vuole rappresentare. Un altro elemento di novità è costituito dall'interazione tra i danzatori e la molteplicità di materiali scenici di derivazione strettamente teatrale - come le sedie del Café Müller - che la Bausch inserisce nelle sue coreografie.


Solo alcune figure, che oggi definiamo “rappresentative”, di un percorso artistico, avevano (coraggio o altro) portato in scena la propria fisicità in questo modo, per così dire avevano espresso con il proprio corpo quella “tensione” muscolare e nervosa, specchio di umana forza e fragilità, e che in seguito, abbiamo eletti ad “eroi” di un passato a latere della nostra epoca e della storia della danza artistica. Nel 1974 Pina Bausch crea e porta in scena l'opera-ballo Iphigenia in Tauride (riallestito nel 1991 all'Opéra di Parigi); il 1975 è l'anno della realizzazione scenico-coreografica di Orpheo e Euridice di Gluck, ricomposto nel 1992 e ammirato anche in Italia (Teatro Carlo Felice, 1994). Nel suo irrinunciabile avvicinamento alla vita la Bausch coreografa rompe continuamente la prigionia dei codici o vi fa ritorno per paradosso, in episodi, spesso ironici, di riflessione sulla danza stessa e sulla fatica di danzare, che costituiscono uno dei leitmotiv non secondari della sua coreografia 'totale'.


Ma ècco che, incapaci come noi siamo, di sostenere l’assenza di peso dei nostri corpi alati (di Icaro memoria), nel tentativo di levaci altissimi fin dove la Bausch ci vede immersi nella luce, fatti di luce e di splendore, nella divinità infinita dei nostri corpi, veniamo presi dai soliti dubbi che ci portiamo dietro e ci torna infine la paura di non farcela a sostenere il calore infuocato del sole e torniamo miserevolmente a essere umani e precipitiamo irrimediabilmente verso il basso per ricongiungersi alla terra da cui veniamo, ragione per cui, forse, non saremo mai déi. Tuttavia alcuni importanti compositori hanno sottolineato la preponderante presenza della musica appositamente composta per lo spettacolo teatrale che vede la tragedia greca porsi in primo piano nello scenario internazionale. È il caso di Michalis Christodoulides (17) per le “Supplici” di Euripide, portata in scena dal Teatro di Cipro, proponendo una nuova prospettiva funzionale, cioè integrata col movimento scenico. Abbiamo già citato Mikis Teodorakis nella scrupolosa trasposizione del testo di Euripide “Ifigenia” e de “Le Troiane” portate al cinema e sulle scene di Broadway da Michael Cacoyannis; Vangelis Papatanassiou che compone le musiche per il colossal “O Megalexandros” su Alessandro il Macedone la pellicola di Theo Anghelopulos, solo per citarne alcuni, che hanno affondato le proprie mani nella tradizione popolare della Grecia antica e moderna.


Ma, se non rientra nel nostro precipuo interesse divagare troppo da quella che è la ricerca cui ci stiamo dedicando, tornare a parlare della musica etnica propriamente detta con l’ascolto (la presentazione) di un album di registrazioni sistematiche di una delle aree più interessanti della cultura europea è senz’altro corretto. Si tratta di un ricercatore tedesco, Wolf Dietrich, impegnato a fornire una integra documentazione della musica greca di tradizione orale, che ci propone in due album registrati sul-campo: “Musica popolare del Dodecanneso” (18) che fa eco a “Musica popolare di Creta”. I materiali raccolti in questi album interamente dedicati al Dodecanneso e all’isola di Creta, provengono da un programma assai ampio e approfondito di ricerca avviato da Roberto Leydi e Tullia Magrini, con la collaborazione di Stélios Lainàkis, a testimonianza della grande presenza di violinisti che hanno il loro territorio d’elezione nella parte occidentale dell’isola, ma attivi in tutta l’isola, con più o meno evidenti differenziazioni provinciali.

 

Come ha lasciato scritto Domna Samiou (19), la più nota etnomusicologa greca:

La chiave della cultura di un popolo è nel linguaggio musicale e canora, nell’analisi delle sue componenti folkloristiche, nella incontaminazione etnica”.

E, sebbene noi abbiamo più volte constatato, come la contaminazione tra stili e forme musicali diversi ha permesso di scoprire e di rinverdire gioielli di una cultura, restituendoli alla sua originalità creativa il cui valore era di per sé universale. Ciò nonostante la pur grande Domna Samiou con la sua frase ha cristallizzato una verità sacrosanta: che bisogna risalire all’origine delle cose, a quando la contaminazione non aveva ancora sfiorato l’opera originale, per poter infine conoscere lo sviluppo che la stessa ha raggiunto successivamente. All’etnomusicologa greca dobbiamo tuttavia un ringraziamento, onde riconoscerle di aver scoperto virtuosi di alcuni strumenti originali della sua terra, personaggi quasi mitici che hanno lasciato impronta di sé nella musica greca di ieri. È il caso di Tassos Calkias (20), d’appartenenza alla dinastia dei clarinettisti dell’Epiro; la sua arte è raccolta in alcuni album di grande pregio artistico.


Non trascurabile la ricerca all’interno della tradizione di Creta realizzata a suo tempo dal poeta-compositore Nikos Xilouris (21) che ha raccolto una copiosa serie di canti della tradizione del “rizitika”, sul genere del blues negro-americano e come quello entrato nell’anima profonda della Grecia di oggi. Nato ad Anoghia, Creta, Nikos Xylouris è un membro di una vecchia famiglia cretese la cui storia è profusa di menestrelli e bardi, che gli permise di imparare a suonare la lyra. Divenuto egli stesso un menestrello della musica tradizionale, iniziò a fare da intrattenitore di feste di matrimonio e celebrazioni religiose e occasioni speciali. Compositore e poeta Xylouris ha arricchito la musica tradizionale cretese con molte creazioni di profondo acume musicale ed istintivo, inoltre la sua voce, così fondamentalmente greca, riflette della tradizione datata in più di 500 anni.


Tra i migliori esponenti della musica greca incontriamo Yannis Markòpoulos (22), passato attraverso l’esperienza folkloristica raccogliendo antiche melodie klefte, canzoni cretesi, litanie della forma liturgica bizantina, per poi avvicendarsi nella musica più avanzata, è riuscito a trovare un indirizzo musicale di rilievo che lo ha portato a musicare una tragedia moderna del poeta Dionissos Solomos “Eleftheri Poliorkimeni”(23). Insieme a Xylouris ha collaborato al recupero dell’antica tradizione del “rizitika” di Creta, nome dato ad un ramo della vecchia canzone popolare in uso fino ai nostri giorni. Ogni canzone rizitika può rispondere a molte versioni e ad ogni melodia corrisponde una lirica poetica. Creta, un tempo crocevia di culture diverse tra Europa, Africa e Asia, influenzata dalla musica cerimoniale bizantina e del Medio Oriente, abbracciando le culture Achea e Dorica e, più tardi, Pelasgie e di Kidones. Tutti hanno lasciato il loro marchio sulla canzone popolare rizitika che, ciononostante, ha preservato il suo carattere originale. Yannis Markopoulos, a sua volta cretese ha così definito il genere rizitika:

"È una forma di arte greca che ha prevalso sempre, è musica di luce, libera e umana, leggera e sensibile come il piumaggio di un uccello”.

Benché il termine Dodecanneso indichi solamente dodici isole, in realtà sono parecchie di più ed ancora oggi molte fra quelle minori sono disabitate. Come caratteristiche generali, ed anche per quanto riguarda gli stili musicali, le isole presentano evidenti differenze che le contraddistingue, e ciò, benché l’area Dodecanneso (24) non sia poi così lontane dalla Turchia, l’influenza musicale turca è praticamente nulla. Comunque un esiguo numero di danze turche sono conosciute anche dai musicisti greci. Oggi l’organico più diffuso per la musica strumentale popolare è il duo, formato da violino e dal liuto. Nelle isole di carattere più conservatore, come Scarpanto, i musicisti suonano ancora il violino tradizionale a tre corde, la lyra, invece dello strumento moderno a quattro corde. In alcuni casi il liuto viene sostituito da una chitarra o dal santouri. La maggior parte dei musicisti è formata da suonatori semi-professionisti, contadini od artigiani dei villaggi. Per loro fare musica vuole dire procurarsi un guadagno extra, e così occasionalmente suonano ai matrimoni o ai “panegyri”, feste locali in onore del patrono del villaggio.
Ancestrali riti di possessione, danze e musiche dionisiache, tra sacro e profano la Grecia è uno straordinario teatro di celebrazioni popolari:

Due millenni di prediche cristiane non sono valsi a esorcizzare superstizioni e retaggi dell’antica religione: contadini e pastori sono infatti sempre convinti dell’esistenza di un cosmo parallelo, affollato di creature extraumane e in quanto tali pericolose, da ammansire oppure allontanare con complessi rituali. Sicché Zeus continua a dominare le vette sotto le spoglie del profeta Elia, come il predecessore padrone di tuoni e fulmini, ossequiato ovunque vi sia un’altura e quindi una cappella a lui intitolata. Alla fine anche pope e archimandriti hanno dovuto fare buon viso alla trasposizione di dèi ed eroi in un numero esorbitante di santi e sante, ognuno con un suo corteo di adepti e una propria specializzazione, le cui quantità ribadisce lo straordinario ruolo di ponte che la Grecia ha sempre avuto tra il mistico Est e l’Occidente”(25).

La Pasqua è la festa più attesa per antonomasia, una grande settimana di passione, vissuta come un’apoteosi del creato, quando la terra ritorna fertile dopo i rigori invernali, ed è questo il periodo in cui si rispolverano le antiche tradizioni rituali dello spirito della terra e quelle più sacre legate al cristianesimo greco-ortodosso e che poi fu bizantino e cristiano. I riti sono ossequiosi nel rispetto dovuto alla religione fino alla mezzanotte del Grande Sabato, in cui l’atmosfera si fa davvero incandescente, quando, a mezzanotte, il sacerdote spezzato il buio con la luce accesa di una candela, annuncia il Christòs Anésti, ovvero l’Anastasi, la resurrezione. Il dopo è tutta un’esplosione di festa che percorre ogni angolo della Grecia:

Ovunque i più giovani nell’Arcadia hanno preparato la pira per cremare il pupazzo raffigurante Giuda, che a Monemvassia sembra esplodere sul sagrato la domenica pomeriggio, quando tutti sono satolli dopo aver mangiato l’agnello sacrificale” (26).

Ma se d’altronde come si dice nessuno campa di sola ascesi e penitenza, men che meno i greci, nel cui profondo, accanto al solare Apollo, alberga pur sempre l’orgiastico e tenebroso Dioniso, il quale viene onorato con un oltraggioso carnevale da parte dei “Babogeri”, strafottenti maschere coperte di pelliccie di montone, con campanacci legate intorno al basso ventre. Li rafforzano nelle loro bravate alcuni canti sconci che evocano i phallica delle dionisiache “antesterie”. Del resto, come scriveva il poeta Costantino Kavafis, che: “se anche li abbiamo scacciati dai loro templi, non per questo gli dèi sono morti”.

 

A parte i canti per la danza esistono pure motivi particolari a ritmo libero. Uno è l’amanés, uno stile di canto di origine turca con elaborate ornamentazioni melodiche. Gli altri sono canti di donne: il lamento “miroloi”, la nina-nanna “nanoùrisma” o ancora canti legati a funzioni strettamente specifiche, come ad esempio il canto accompagnato dalla casseruola di rame detto appunto tapsì. I canti femminili non sono mai accompagnati da strumenti e le donne stesse non suonano mai la lyra o la zampogna o il liuto, né i loro canti si eseguono in pubblico.

 

È noto che a Rodi sussiste una ricca tradizione di danze e canti di nozze. Tra queste il canto “Piccola Irene” (27) è un tipico esempio di tale tradizione e per lo più si esegue nella seconda parte della cerimonia nuziale, il quarto e il quinto giorno dei festeggiamenti. Questa canzone solitamente si inserisce al centro di un’esecuzione di musica per la danza durante un intervallo degli strumenti:

Ah,eh,le chiavi del Paradiso
Per la mia piccola Irene
Le tengono gli Apostoli.
Ah, eh lunga vita alla sposa e allo sposo!
Irene, mia sola, tu che sei greca
E voi, tutti voi alla festa
Venite e parliamone
Facciamo diventare questo giorno notte …”.

Dal mio personale diario di viaggio:

E come si addice alla festa non può mancare il brindisi il che, dopo parecchi bicchieri di oùzo bevuti, tutto diventa più leggero (se non si finisce stesi a terra), allora ognuno è libero di cantare quello che vuole. Non manca chi solleva i piedi nella soùsta o nel pentozàlis, e chi a gruppi di due o tre eseguono per proprio conto alcune figurazioni tradizionali. Il tutto accompagnato con abilità dal suonatore di zampogna Emmanouil Hakiàs che (all’epoca) aveva già 72 anni e col quale avevo bevuto insieme e che mi aveva spiegato che, a differenza delle cornamuse scozzesi, la tsamboùna, questo il nome originale greco, era molto primitiva. E così che imparai a conoscere uno strumento antico, certamente più antico di Emmanouil che me lo illustrava e che trovavo fosse davvero concio dall’uso. In breve la tsamboùna è formata da un sacco di pelle bisunta, da una canna per l’immissione dell’aria e da due canne per la melodia, riunite in un unico tubo. Mentre le canne per la melodia e le ance sono in giunco, il tubo è di legno. Le due canne sono tenute insieme con della cera colata all’interno del tubo ed ognuna ha cinque fori per le dita, mancando però quello per il pollice. Il sacco è ricavato da una pelle di capra rivoltata in modo che tenga meglio all’aria che Emma (per brevità) dice essere stata trattata con una mistura di miele e olio d’oliva che ne affretta la stagionatura e l’impermeabilità e che di tanto in tanto viene ripetuta. A parte rare e trascurabili eccezioni, questo tipo di zampogna a doppia canna è diffusa in molte zone del Mediterraneo, si chiama infatti “talum” nel Ponto turco e nel Caucaso occidentale, “mezwìd” in Tunisia e “diple” nel Montenegro e in Dalmazia, mentre in Italia più semplicemente “la capra che suona”.

Dopo il lungo excursus nella musica tradizionale, quella più autentica, ci ritroviamo qui ad affrontare il discorso appena accennato delle interazioni musicali che nel corso dei secoli hanno interessato ogni forma d’arte, non esclusa la musica popolare e tradizionale per la sua costante reiterazione e le influenze reciproche derivate dall’incontro con le altre culture. Che cioè accentua le contaminazioni, ove queste presentino caratteristiche regionali pronunciate, asseconda il linguaggio classico, in senso introspettivo, ove la musica procede per linee interne, svincolata da riferimenti stilistici esplicitamente etnici. Il tutto comunque entro gli ambiti di un linguaggio attuale, contemporaneo.

 

Così come abbiamo avuto modo di confrontarci con la creatività di Eleni Karaindrou, questa volta affrontiamo una delle personalità della musica mondiale più complesse in assoluto: Vangelis Papathanassiou (28), un artista a tutto tondo formatosi sull’attenta combinazione di suoni presi dalla musica etnica del proprio paese, quella Grecia di cui si è fin qui parlato, e alla quale conoscenza egli ha speso tutta la vita di musicista-compositore-interprete straordinario. Pur tuttavia, prima di tentare una qualsivoglia definizione della musica di Vangelis, si rende necessario non tanto conoscere l’uomo da vicino, per quello in internet c’è un’ampia biografia, quanto avvicinarsi alla sua concezione in fatto di musica. Tutto nasce al Nemo Studio di Londra che Vangelis confidenzialmente chiama “il mio laboratorio”:

È lì che tento di costruire la musica del nostro tempo, riprodurre suoni, toni, modalità, successioni, effetti spaziali e temporali che poi adopero nel costruire i miei brani musicali. Quello che mi interessa in modo particolare è il rapporto che corre fra l’uomo e la musica, o meglio quegli effetti psichici e psicologici che la musica riflette sul comportamento umano”.

Ha egli detto durante una breve intervista rilasciata prima dello spettacolo avvenuto in illo tempore alle Terme di Caracalla in Roma. Ripercorro qui solo alcune tappe (discografiche) per comprendere al meglio quali materiali etnici ha egli utilizzati e che compongono i suoi brani migliori. Rinato sulle ceneri del successo internazionale ottenuto con gli Aphrodite’s Child con Demis Roussou, dopo lo scioglimento di questi si avvia alla carriera solistica con un album in parte strumentale in parte di canzoni in inglese, dal titolo “Heart” significativo del suo rivolgersi al cuore della Terra, in cui sono contenuti due brani: “Ritual” e “Sunny earth” che dimostrano tutta la forza musicale che entrerà nelle sue composizioni future.

 

Risale al 1971 un suo primo album sperimentale “Hypothesis” (vedi d.) a cui fanno seguito nel ’75 due colonne sonore per i documentari del francese Frederic Rossif “L’apocalypse des animaux” e “La fête sauvage”, e ancora le musiche per la serie televisiva “Cosmos” inclusa più tardi nell’album “Heaven and Hell” con il quale l’autore spazza via ogni reticenza o riserva possibile sulla natura della sua musica. Se consideriamo gli anni in cui lavora e la tecnologia messa in campo, ci accorgiamo che l’album suddetto è già un’opera compiuta, Vangelis si ripresenta infatti al pubblico della scena internazionale nella doppia veste di musicista-alchimista conoscitore degli oscuri segreti della musica elettronica da cui la capacità di fusione che scaturisce in nuove atmosfere, crea situazioni sonore inusitate prima, in cui nulla rimane di intentato.

 

La grande capacità creativa di Vangelis rivela fin da subito una profonda conoscenza del panorama etnomusicologico mondiale, i suoni da lui creati o ricreati non hanno talvolta nulla a che fare con la musica che avevamo fino allora ascoltato, si rivolgevano oltre, a un cosmo musicale ignorato o forse davvero sconosciuto che Vangelis catturava per noi. Infatti – come egli stesso ha poi rivelato, essere fondamentale la riscoperta di materiali appartenenti alla tradizione, per affrontare un serio recupero di quel messaggio ancestrale che la musica conteneva in sé:

Per me la musica non è solo in trattenimento edonistico, ma qualcosa di più. È una forma di vita a sé stante, vecchia di milioni di anni, vecchia come la permanenza dell’uomo sulla terra”.

Ne sono una riprova i bellissimi brani “Dervish D”, ispirata alle danze derviscio della Turchia il cui mistico girare trova la sua realizzazione nella spirale dell’universo; e la lirica “To the Unknown Man”, un inno elevato al mondo sconosciuto dell’uomo, entrambe incluse nell’album “Spiral”.

Ma è un’altra colonna sonora, quella per il film di Francois Reichenbach, in cui Vangelis ripropone un’antica danza greca per bouzouchi che possiamo pensare a un ritorno alle sue origini. Confermato poi dalla produzione di due fantastici album, entrambi del 1987, di canti e melodie greche elaborati per l’occasione sulle sonorità di strumenti autentici e dalla voce di Irene Papas: “Odes” (vedi d.) dai contenuti, musicologicamente parlando, interessanti per la commistione del vecchio e il nuovo proporsi della musica nell’arco dei secoli che separano l’antico e l’attuale, la voce ieratica di Irene qui utilizzata in modo tradizionale e l’avanguardia musicale di Vangelis a dare forma non a un contrasto, bensì a un amalgama intenso di forti emozioni.

 

Altrettanto dicasi per “Rapsodies” (vedi d.) in cui la mistura elettronica addirittura rivela insieme ai suoni il grande afflato artistico che ha permesso ai due interpreti di stabilire un continuum con la tradizione, qui valorizzata e innalzata alla sua massima espressione canora e musicale. Lo rivelano soprattutto alcuni brani strumentali e canti in essi contenuti: “I rizes” (Le radici), “Miroloi” (Lamento), “Choros tis fotias” (Danza del Fuoco), e “Kolokotronei” (I guerrieri), “Ti ipermacho stratigo” (Al Generale che vince tutte le battaglie) e i brani “Christos anesti” (Cristo è risorto) e “Asma asmaton” (Cantico dei cantici) ripreso dalla tradizione bizantina, semplicemente un capolavoro in versi interpretato da Irene Papas in modo sublime.


L’esperienza di Vangelis non si è ovviamente fermata qui, a cominciare da “China” in cui si è avvalso dell’esperienza musicale dell’oriente e della filosofia Tao, egli è tornato più volte a spingersi nei meandri inconsueti della ricerca a tutto tondo. Noti sono i suoi excursus nella musica bulgara e nella “doina” rumena, nel rock con due album cui ha prestato la voce Jon Anderson, nella musica italiana con Milva ed altri. Ma non è certo questa la sua unica passione (e più vera professione), lo abbiamo spesso visto alle prese di colonne sonore di successo, si ricordi “Blade Runner” di Spilberg, “Chariot of Fire” di Hugh Hudson, premio Oscar per il miglior soundtrack, “1492, discovering of America” e le tante altre, incluso quel “Mythodea” per la Missione Nasa del 2001 titolata Mars Odyssey, con la partecipazione di Kathleen Battle e Jessye Norman, solo per citarne alcune della sua vastissima produzione che lo vede impegnato non nel semplice commento sonoro alle immagini che scorrono, bensì a quella che un tempo si diceva essere la “colonna sonora” capace di creare veri e propri momenti di autentica bellezza musicale.


Qui, nell’economia dei film la musica assume il ruolo che sembrava aver perduto più recentemente in altre pellicole, cioè scandisce il ritmo delle azioni, dei momenti di psicologica tensione, di riflessione e progressiva emozione dei protagonisti, restituendo ad essi quella vivificante bellezza uditiva che asseconda il discorso fotografico, che altrimenti risulterebbe senza emozione, vuoto di sentimento. Considerato il più sensibile e originale creatore di straordinari “impatti musicali” l’uomo Vangelis, pensate, non fa sfoggio di sé e raramente fa la sua apparizione in pubblico. Non si lascia fotografare e non appare neppure sulle copertine dei suoi dischi. Suo malgrado è ancor più oggi, a conferma della sua grande creatività artistica, e dei tantissimi anni passati sulla scena internazionale, Vangelis è un probabile profeta della contemporaneità e della musica del futuro.


E già si affacciano sulla scena della musica greca altri nomi di artisti quotati che meritano il nostro plauso. Padre fondatore del genere rebetiko che, come abbiamo avuto modi di dire, durante il periodo della dittatura, assunse una connotazione di protesta alla quale contribuirono tutti gli artisti e nomi noti della scena greca, troviamo Markos Vamvarakis, mentre di recente ha contribuito al suo revival la “pasionaria” Eleftheria Arvanitaki, affascinante interprete di brani celebri della tradizione greca con particolare riferimento al questa forma di blues ellenico. Tuttavia l’influsso bizantino e ottomano, la vicinanza con la Turchia e persino gli strumenti danno al folklore ellenico un inconfondibile retrogusto orientaleggiante che non è scomparso del tutto nei generi cosiddetti contemporanei, come l’entekhno, rappresentato da da artisti quali Theodorakis e Hatzidakis; e il laiko, tra i cui massimi esponenti troviamo Stelios Kazantzidhis e Akis Pannou. Inoltre Haris Alexiou oggi il personaggio più affascinante ed eclettico della scena ellenica George Dalaras originario del Pireo, considerato un’istituzione nazionale; come bene ha scritto Ivo Franchi: “Un cantante e compositore raffinatissimo che ha saputo creare un efficace trait d’union tra la musica etnica tradizionale e il pop d’autore di qualità”.

Il suono dunque – e mi ripeto – scaturisce immagini che, nel processo graduale di crescita ed esplorazione della realtà, la composizione musicale trasforma in straordinaria visibilità. Tuttavia il processo di comprensione di questa musica da parte di un così vasto pubblico ha avuto una gradualità lentissima e non culturale, forse in parte spontanea e immediata. Perché? - ci si chiede. E la risposta non può che essere tra le più semplici ci si possa aspettare. Benché malgrado sia di gran lunga entrata nelle forme di comunicazione come la pubblicità ecc. ciò non trova corrispondenza nella cultura musicale che solo l’insegnamento scolastico, in sostituzione della tradizione degli anziani detentori, può dare. Così come si insegnano le altre arti ritengo che l’insegnamento delle tradizioni canoro-musicali e perché no anche della danza, vadano insegnate o almeno fatte conoscere, alfine di salvarle da ogni possibile dimenticanza. 


Ciò, non perché in questo modo vogliamo conservare un distinguo che sa di razziale, quanto invece di avviare quello scambio culturale più che mai necessario a conoscere meglio la nostra e l’altrui provenienza culturale, avvalerci dello scibile comunitario per l’avanzamento culturale dell’umanità tutta, scopo precipuo di questa ricerca da non considerarsi fine a se stessa, o espressione intellettualistica o celebrativa di una moda che ritorna.

 

Tantomeno legata a un periodo storico e politico ancora non ben definito come quello in cui ci troviamo, altresì la musica così come la poesia devono ritrovare, insieme o separatamente non importa, il linguaggio delle forze naturali che l’hanno sostenuta fin qui, l’assieme delle emozioni e delle sensazioni che infine è in grado di affermare, seppure in contrasto col macrocosmo sonoro in cui si dibattono. Seppure in contrasto con quanto una volta affermato da Walter Marchetti che: “la musica, macerie di tutte le idee, fa da sfondo a un incendio che non rischiara ancora il mondo”.

Dal diario di viaggio:

Per quanto mi concerne, e poiché, come si dice, non bisogna trascurare il lato ironico delle cose, faccio girare attorno al dito indice, nell’uso greco, il mio komboloi di pietra blu mentre il piroscafo si stacca dal molo del Pireo con il sole che arrossa il tardo pomeriggio: Zorba è là, seduto sulle gambe incrociate che suona il suo santouri. No, a lui non piacciono gli addii, con le note che si propagano nell’aria mi saluta a suo modo, con l’eco del tempo che riporta nel modo antico e nella lingua il verso: “se perimeno” e che vuol dire ti aspetterò, è solo un arrivederci!

Note:

1)2)3) Nikos Kazantzakis - “Zorba il Greco” – Mondadori 19….
4) Marius Schneider – “Il significato della musica” – Rusconi 1979.
5) Augusto Romano – “Musica e psiche” – Bollati Boringhieri 1999.
6) Nikos Kazantzakis, op. cit.
7) cit. in Curt Sachs “Storia della danza” – Il Saggiatore 1985.
8) Curt Sacks, op. cit.
9) Stuart Piggott - “Europa Antica” – Einaudi1976.
10) Omero – “Iliade” - Einaudi …
11) Curt Sacks, “Storia della danza” op. cit.
12) Omero – “Iliade”, op. cit.
13) Curt Sacks “Storia degli strumenti musicali” – Mondadori 1996.
14) Inni Omerici – “A Pan” – Mondadori 1994
15) Ibidem (seconda parte)
16) Pina Bausch (vedi articolo in questo stesso sito).
17) Michalis Christodoulides (le musiche del compositore non sono state a tutt’oggi incise su disco).
18) Wolf Dietrich (vedi discografia)
19) Domna Samiou (vedi d.)
20) Tassos Halkias (vedi d.)
21) Nikos Xilouris (vedi d.)
22) Yannis Markòpoulos (vedi d.)
23) Dionissos Solomos - “Eleftheri Poliorkimeni” (vedi d.)
24) R. Leydi – T. Magrini - “Musica Popolare del Dodecanneso”(vedi d.)
25) Melissa Corbidge – in Meridiani “Grecia” Anno XIV n.101. Editoriale Domus-
26) Ibidem
27) R. Leydi – T. Magrini – op. cit.
28) Vangelis Papathanassiou


Discografia: (essenziale)

Meridiani Musicali – “I suoni di Orfeo” – Editoriale Domus – red edizioni.

Wolf Dietrich – “Musica popolare del Dodecanneso” – Albatros LP - VPA 8295.
Wolf Dietrich – “Musica popolare di Creta” Vol. I – II – Albatros LP – VPA 8397/8.

Domna Samiou – “Souravli” – Emi Columbia 14c 054-70816.
Domna Samiou - “Il flauto greco” – Arion Farn 1051.
Domna Samiou – “Travelling in Greece” – Lyra 1972.

Tassos Chalkias – “Clarino Soloist” – Emi Columbia 14c 054-70823.
Tassos Chalkias – “The sound of the clarinet” – Lyra 3231.

Nikos Xilouris - “Rizitika” – EMI REGAL 14c 034-70335.

Yannis Markopoulous / Nikos Xylouris – «Rizitika » - Emi Columbia 14c 064-70069.
Yannis Markòpoulos - “Pireo” – Emi Columbia 2LP MT 8858.
Yannis Markopoulous / Dionissos Solomos / Irene Papas / Halkias / Xilouris
“Eleftheri Poliorkimeni” – 2LP EMI – 14c 154- 70837/8.

Vangelis O. Papathanassiou – “Earth” – Vertigo - LP PG200 – 6499693.
Vangelis O. Papathanassiou – “Mythodea” – Sony CD – Sk 891891.
Vangelis O. Papathanassiou / Irene Papas – “Odes” – Polygram 1987.
Vangelis O. Papathanassiou / Irene Papas – “Rapsodies” - Polygram 1987.

Impossibile e anche superfluo elencare qui la sterminata discografia di Vangelis mi limito a far presente che in ogni suo disco (CD o LP) è presente almeno un brano, un suono, un’assonanza strumentale, un richiamo alla musica greca o altre contaminazioni come quelle riportate nel testo


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