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Intervista con Domenico Cara

Argomento: Letteratura

Articolo di Maria Antonietta Trupia 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 21/04/2008

Per il poeta l'aforisma è un atto fulmineo dell'intelligenza

Incontriamo nella sua casa milanese, in un pomeriggio estivo, il poeta Domenico Cara, con il quale seguiamo i momenti del suo lungo percorso poetico, nell’obiettivo di comprendere le modalità espressive a cui si affida e il senso delle motivazioni che ne ispirano l’opera, dove scopriamo una significativa predilezione anche per il genere aforistico.
Domenico Cara ha conosciuto il fervore culturale milanese di un tempo (incontrando personaggi come Sartre, Quasimodo, Gatto, Ungaretti…), mantenendo tuttavia una personalissima posizione, ben lontana dai climi salottieri. Il suo è un rapporto riflessivo con la pagina, denso di fecondi e qualificati fermenti.

D. Nella sua dichiarazione di poetica lei afferma che quando scrive poesie… le accade «qualcosa di involontario per entusiasmo verso la scrittura». Quale funzione incarna la poesia per lei?

Ci sono dei grumi mentali che si infiltrano attraverso la scrittura. Noi abbiamo bisogno di estrarre questi grumi dalla nostra sensibilità. È necessario liberarsi a qualsiasi costo dei pensieri o dei sogni, che possono, ma non necessariamente, divenire poesia. Così nasce una scrittura che poi va criticata, tagliata, nel miglior modo perché possa essere letta in questo senso.

D. Nel testo omonimo Lei definisce la parola «un’utopia gioiosa, amica e nemica insieme, ineguale e ansimante…» e attacca un’epoca in cui troppi non hanno una vera e propria lingua e sembrano aver perso il senso del linguaggio. In che senso questa contrapposizione?

La lingua, che va in ogni caso ricostruita, è sempre, per il poeta, una ipotesi nuova di realtà. Fare poesia è un evento difficile, inedito, enigmatico, dunque il linguaggio che la esprime è sempre nuovo, diverso dagli altri perché il magma, gli enigmi (di cui molti si preoccupano) non vengono subito sciolti. La poesia di contestazione è fallita, comunicando poco, sia che si facesse l’epigramma sia che si facesse poesia satirica. Il poeta afferma concetti molto vasti e ciascuna immagine di cui si serve possiede connotazioni che la diversificano dal colloquio comune. Tutti parlano male dell’Ermetismo, ma era una situazione problematica dello scrittore degli anni Trenta. Credo che la poesia realizzata per tutti, semplice, abbia fatto il suo corso. L’uomo conosce troppe cose; ognuno di noi sa più di quanto Socrate non sapesse ai suoi tempi. Dunque cambiano le situazioni mentali, cambia la società, cambia anche il linguaggio, ma non è che la poesia facile sia più abbordabile; rimane piuttosto un linguaggio docile e inutile, che entra a far parte del fiabesco, della filastrocca, dell’ovvietà, dell’effimero. La poesia ha un suo problema di interpretazione, ognuno arriva dove gli è possibile, ma il poeta quando scrive, non conosce e non può farsi carico del grado di comprensibilità dei suoi scritti.

D. Approccio ipertestuale e brevità del testo, carattere musicale e comunicazone corale. Questi gli elementi caratterizzanti il genere aforistico in cui lei, sin dall’inizio della sua opera, ha trovato grandi possibilità espressive… Quali sono i meccanismi interiori che motivano questa “predisposizione” letteraria?

Considerato, appunto, che la poesia contestativa non esiste, è soltanto un accanimento bellico, una polemica, una protesta, un dissenso comune, l’aforisma è quell’atto fulmineo dell’intelligenza che progetta un’autodifesa, un chiarimento. Non sentenza, è soltanto uno spunto di reazione. Io mi ribello così, attraverso una linea, con il romanzo di una sola riga, come diceva Kraus. Sono contrario a coloro che parlano troppo poiché i dibattiti risultano spesso inutili in letteratura come in politica. Noi abbiamo bisogno di fulmini; ogni aforisma è un urto assoluto con le cose, è una scrittura breve ma non lieve. Scrivere aforismi è per me quindi un diario della rabbia personale. Il grumo di pietra che si scinde, quelle scaglie, quelle scintille, sono immagini che vivono, che chiedono spazio.

D. Nel suo ultimo testo di genere aforistico I flautini dell’occhio (2002) è stata ravvisata dai critici l’attualità del suo intervento autorale, situata nella possibilità data alle parole e ai linguaggi di riflettere la molteplicità degli sguardi. Qual è il messaggio di questo testo?

Il messaggio non esiste. È un volume di dialettica della conoscenza sul testo monografico dell’occhio. L’occhio è una figura, una identità, un simbolo. Si tratta di vivisezionare attraverso gli aforismi in un contesto dove si trovano atteggiamenti più narrativi, atteggiamenti critici, movimenti di passioni, direzioni, come accade nelle strutture di molti autori. Ma soltanto qui emerge l’aspetto monografico, ricco, continuo e caledoiscopico. L’occhio (ma potrebbe anche essere l’orecchio, il cuore, il cervello, lo spirito) è al centro ed è un pretesto vivente perché immagine organica di qualcosa che vive in noi e in cui noi viviamo.

D. Come interpreta la contrapposizione tra la Milano degli anni Quaranta e Cinquanta, molto fervida culturalmente con la presenza — nei salotti letterari — di grandi personalità quali Gatto, Montale, Ungaretti..., e la città odierna di cui lei afferma esserci «in piazza Duomo… mugolanti come in una conversazione sulla scena desolata della gente che ha fretta». Vi è troppa fretta nella società oggi?

Adesso c’è troppo disorientamento a causa delle troppe politiche, dei dissensi, degli urti in un malumore generale. Non ho mai amato i salotti letterari, li ho sempre detestati. Il mio umorismo si è reso esperto in quei luoghi. Il rapporto personale è spesso negativo quando si fa spettacolo della letteratura. Il mio è un approccio più riflessivo con la pagina, con il libro. Condivido molto l’espressione di chi ha detto «Domenico Cara ha reinventato la meditazione». Ho conosciuto molte personalità del mondo culturale da Sartre a Eco, da Moravia a Ungaretti, ma in occasioni molto diverse da quelle salottiere. Oggi questi luoghi sono decisamente superati; non è più la stagione nella quale tutti venivano a Milano per costruirsi un avvenire. L’autore autentico conosce quasi sempre il destino della solitudine.

D. Ritiene dunque che il potere politico e l’intellettuale siano in contrapposizione?

Credo di sì. Poiché fingono di intendersi. Gli incontri possono servire per occasioni, però questo non incide sulla personalità dell’autore.

D. In quale misura l’arte (l’immagine) entra nel suo pensare poetico?

Io attribuisco al mio linguaggio molte esperienze sull’arte. Leggerei la poesia nella chiave artistica di certa pittura del Surrealismo e dell’informale. Nelle arti figurative è ancora possibile l’illeggibilità, non accettata invece sul fronte poetico. Ma l’arte vive sempre di enigmi; c’è una tensione che esplode nei versi. Ecco perché scinderei sempre i due aspetti: la colloquialità dalla dimensione matematica, ermetica della poesia, che molti negano o vogliono addirittura distruggere. La poesia è sempre mistero e si rivolge a chi ha entusiasmo, a chi vuole leggere e capire tra le righe le tensioni e le contrazioni dell’autore. È una scrittura di tensioni, di magmi, dove l’inconscio cerca di esprimersi, e chi prova ebbrezza e volontà di capire, capirà. La qualità del testo si sente dalle caratteristiche del linguaggio, dagli accostamenti, dai sintagmi che ha saputo creare.

D. Nei suoi testi compaiono riflessioni sull’ulteriore, l’altrove, il senso del morire. Qual è l’afflato metafisico nella sua poesia?

In realtà non c’è. Esiste una musicalità, una lentezza dell’immagine, un costruire un corpus anti-lirico. Questa è la metafisica. Un modo di sognare nella solitudine, nel silenzio, in ciò che accade. Questi ritmi danno la dimensione di una trascendenza che diventa preghiera, contemplazione, salmo; l’ armonia del linguaggio crea un aspetto della metafisica.

D. Lei riflette sul postmoderno — «in cui si commettono sempre gli stessi scenografici errori» — e rifiuta etichette sperimentali. Ci vuole parlare di questo?

Ho vissuto le stagioni della letteratura sperimentale, forse molto prima di tanti altri. Non ho abboccato, ma avvertivo la qualità delle diversità. Dalla Neoavanguardia pochi sono gli autori emersi. Molti i folletti, i giocherelloni, i distruttori. Per me un’eccezione straordinaria è la prosa di Giorgio Manganelli, del tutto surreale, magmatica, metafisica, imprevista.

D. Venendo invece alla sua attività di saggista, di critico letterario — lei ha pubblicato numerosissimi saggi — qual' è la sua valutazione sulla letteratura italiana del Novecento?

Non mi definirei esterofilo, anche se devo ammettere una grande simpatia per le opere straniere. La letteratura italiana del Novecento non ha avuto (Svevo in fondo è ottocentesco) un creativo completo. Per capirci non abbiamo un Kundera; non saprei indicare esempi sicuri, anche se ci sono momenti felici in Tozzi, in Pizzuto, in Pavese, in Arbasino…

D. E previsioni per il prossimo futuro?

Non è facile. Il terzo millennio si proclama con la vanità di durare, ma forse su un lato solo prettamente fisico. Ad esempio il romanzo non è più tale da molto tempo, dalla Scapigliatura, dal Decadentismo. Addirittura D’Annunzio esprime, più che una forma narrativa, un fervore mentale, vanesio, erotomane. Abbiamo molti esempi stranieri, ma non tali da diventare veri e propri riferimenti.

D. Nei suoi testi emerge anche una lettura civile della società, lei individua, in quella contemporanea, una civiltà decadente. Rileva una carenza dell’impegno civile nella poesia?

Ci sono esempi di poesia civile, come ha recentemente dimostrato Andrea Rompianesi, ma sono casi veramente sporadici, crisalidi che si muovono ancora cercando un certo tipo di orientamento. Non è sufficiente un atteggiamento di facciata verso gli eventi. La politica segue i suoi riti, le sue astuzie, ma non dimostra un vero interesse culturale. Non si delinea ancora uno scrittore che possa caratterizzare questo primo decennio del nuovo secolo. Una figura come Asor Rosa, ad esempio, ha espresso testi saggistici con una componente prosastica, ma forse eccessivamente accademica. Non abbiamo bisogno di persone che esprimono troppo ma che tendano a ciò che è essenziale e incisivo per il nostro futuro.

D. La sua esperienza nelle riviste letterarie è stata molto intensa…

Ho bisogno di molto fervore per augurarmi di vivere; cerco di essere sempre presente, ma non è vanità, piuttosto un modo per reagire. Sono stato al centro di un dibattito vissuto dalle riviste, tra le quali «Anterem», «Tracce», «Mercato d’Arte», «Post Scriptum». È necessario creare centri di interesse in uno spirito di collaborazione, perché qualcosa accada; interrogare il proprio tempo, essere un filo elettrico che a volte può bruciare.
D. Quali le prossime pubblicazioni e i progetti?

I flautini dell’occhio hanno più di duemila aforismi. Mi piacerebbe continuare nella loro pubblicazione, trovando un editore disposto a fallire per me. In questi testi, sostanzialemente semplici, l’aspetto saggistico e riflessivo si unisce a quello creativo. Sarei molto interessato a possibili traduzioni. Parliamo d’Europa e vogliamo che L’Europa sia viva in ogni senso e non soltanto in quello economico. Bisogna confrontarsi con un pubblico spesso molto distratto. In fondo resto come un petalo di rosa vagante che attende un po’ d’aria.

Milano, 18 giugno 2003

Fonte: www.italialibri.net

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