Pubblicato il 09/07/2022 12:00:00
Ma al nome di Guermantes vidi che dentro gli occhi azzurri del nostro amico si apriva una piccola intaccatura bruna, come se una punta invisibile li avesse trafitti, mentre il resto della pupilla reagiva secernendo fiotti d’azzurro. L’orlo della sua palpebra si annerì, s’abbassò. E la sua bocca segnata da una piega amara sorrise, riprendendosi più rapidamente, mentre lo sguardo rimaneva doloroso come quello di un bel martire dal corpo irto di frecce: «No, non li conosco », disse, ma anziché dare a un’informazione così semplice, a una risposta così poco sorprendente il tono naturale e comune che sarebbe stato opportuno, la declamò sottolineando le parole, chinandosi in avanti, facendo cenni con la testa, con l’insistenza di cui si correda, per essere creduti, un’affermazione inverosimile - come se il fatto ch’egli non conoscesse i Guermantes non potesse dipendere che da una singolare coincidenza - e al tempo stesso con l’enfasi di chi, non potendo tacere una situazione per lui penosa, preferisce proclamarla per suggerire agli altri l’idea che la confessione che ne sta facendo non gli crea il minimo imbarazzo, è qualcosa di facile, gradevole, spontaneo, e che la situazione stessa - l’assenza di relazioni con i Guermantes - potrebbe benissimo essere stata, non già subìta, ma voluta da lui, risultare da qualche tradizione di famiglia, principio morale o voto religioso che gli impedisca, nel caso specifico, di frequentare i Guermantes. « No, riprese, spiegando con le parole il tono con cui le pronunciava, no, non li conosco, non ho mai voluto, ho sempre tenuto a salvaguardare la mia assoluta indipendenza; in fondo, sapete, ho una mentalità giacobina. Molte persone hanno insistito, mi dicevano che avevo torto a non andare a Guermantes, che mi comportavo come uno zulù, come un vecchio orso. Ma è una reputazione che non mi spaventa affatto, è così rispondente al vero! Nella vita, in fondo, amo ormai soltanto qualche chiesa, due o tre libri, appena qualche quadro in più, e il chiaro di luna quando la brezza dei vostri giovani anni porta fino a me l’odore dei prati che le mie vecchie pupille non riescono più a distinguere. » Ciò che mi sfuggiva era perché, per non andare in casa di persone estranee, fosse necessario aggrapparsi alla propria indipendenza, e in che senso questo dovesse far pensare al comportamento d’un selvaggio o d’un orso. Quello che capivo, invece, era che Legrandin non era del tutto sincero quando diceva di amare solo le chiese, il chiaro di luna e la giovinezza; amava molto gli abitatori dei castelli, e davanti a loro veniva assalito da una tale paura di dispiacere che non osava mostrare di avere per amici dei borghesi, dei figli di notai o di agenti di cambio... [ da Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust, I Meridiani Mondadori, trad. di G. Raboni ]
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