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Capolinea Estate

di Federico Zucchi
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Pubblicato il 10/02/2020 18:48:44

Capolinea Estate

«Secondo me alla fine non vieni», disse Samu a Filippo, sputando sull'asfalto ancora rovente.
Filippo si girò verso di lui e per un momento i manubri delle biciclette si toccarono, facendo ondeggiare le ruote anteriori.
«Ci sarò, ho promesso». Filippo guardò negli occhi il suo amico prima di fermarsi sotto il grande tiglio del centro. Subito li raggiunsero Lele e Francesca che ridevano per un gioco di parole.
«Allora siamo d'accordo, all'una davanti a casa della nonna di Franci», la voce di Samu si era fatta seria e, prima di salutarsi e sparpagliarsi per cena, tutti annuirono solennemente.
Mentre si allontanava sul rettilineo di via Trieste, Franci incrociò lo sguardo assente di Filippo. Era stato un anno tremendo per lui. Sua madre era morta a febbraio. Di cancro, dicevano. Per molti giorni non era venuto a scuola e lei lo aveva atteso sotto la pensilina dell'autobus ogni mattina. Poi, un giorno di pioggia, era tornato. Si erano salutati chiudendo l'ombrello, lei gli aveva messo una mano sulla spalla salendo sul pullman e gli aveva offerto una rotella Haribo.
Per tutta l'estate Filippo non le era sembrato molto diverso. Solo ogni tanto si oscurava, come accade ai grandi alberi sul fiume quando una nuvola li copre, pensò Franci aprendo il vecchio cancello di ferro. Appoggiò la bicicletta al muro del garage dove un tempo c'erano le galline. Si sentiva esaltata. L'ultima notte dell'estate a Fiumicello, tutti insieme sull'Isonzo a vedere le stelle e fare il bagno nel fiume. Tuttavia era anche un po' malinconica. Sapeva dentro di sé che non ci sarebbe più stata un'estate come quella. A settembre tutti e quattro sarebbero andati alle superiori in scuole diverse e sua madre già progettava di mandarla a Londra il prossimo luglio per una vacanza studio. Scacciò quel pensiero entrando in casa.
La nonna l'aspettava seduta in cucina e lei si lasciò cadere nel suo caldo abbraccio che sapeva di sugo e cerotto Bertelli.


Scendendo le scale percepì la potenza dei rumori notturni: il ronzio del frigo, il russare fragoroso della nonna, il battito della lancetta della sveglia, il motore truccato del motorino sulla strada provinciale. Scorse le sagome dei gemelli dietro il garage: Lele magro e scattante, Samu saldo e concreto. Li raggiunse di soppiatto.
«Tutto a posto?», chiese Lele quando ormai era vicina.
«Sì», rispose Franci. «Ho la coperta e le candele. E Filippo?», domandò, guardando lontano nella luce dei lampioni.
«Spero non abbia casini....», fece Lele preoccupato. «Il padre si addormenta sempre sul divano davanti alla televisione e per lui non sarà facile uscire»
«Verrà», sentenziò Samu. «Vedrete che verrà, aspettiamo».
Rimasero tutti e tre in silenzio nella luce risicata della notte di paese. Alle loro spalle, da una finestra aperta, veniva il riflesso violaceo di un televisore ancora acceso. Sentirono distintamente le virate dei pipistrelli e poi un rumore lontano che man mano diventava più nitido. Samu emise un sospiro di sollievo, non c'erano dubbi, era l'inconfondibile cigolio della bicicletta di Filippo che avanzava sull'asfalto.
Non appena l'amico li raggiunse, si fecero reciproci cenni di intesa con la testa. Filippo legò la bici al lampione e, senza proferire parola, iniziarono a camminare sulla strada bianca verso la Mondina, il canale del paese. In una ventina di minuti contavano di raggiungere il parco sull'Isonzo. Avevano scelto di attraversare i campi per non dare nell'occhio. Camminarono in silenzio, Lele e Filippo davanti. Samu chiudeva la fila.
Franci affiancò Filippo.
«Tutto ok?»
«Sì...», rispose Filippo senza convinzione.
«Sembri strano...hai litigato a casa?»
«Un po'....le solite cose, lascia stare»
Franci non insistette, anche se avrebbe voluto.
Si fermarono sul piccolo ponte sulla Mondina dove Franci raccolse quattro sassolini. Era un rito che facevano fin da bambini. Lanciarono i sassi nell'acqua corrente esprimendo un desiderio nel buio argentato del chiaro di luna.


Continuarono a camminare di buona lena per una decina di minuti. Entrando nei campi di mais le piante erano così alte che ricoprivano interamente i quattro ragazzi. Conoscevano a memoria quei posti. Sorpassarono il muro cadente della trincea della Prima Guerra Mondiale. La struttura era invasa da acacie e rovi infestanti e fungeva da confine tra i campi. Prima di arrivare sull'argine e prendere il sentiero verso la sponda dell'Isonzo c'era un ultimo tratto di strada più esposto da affrontare. Passava accanto a una vecchia casa colonica costruita vicino alla cava di ghiaia abbandonata. Era la casa di Fredo, un vecchio che viveva da solo. Tutti lo conoscevano in paese, anche se lui non parlava con nessuno. In certi giorni, all'ora di chiusura, si presentava circospetto al supermercato per comprare lo stretto necessario e poi scompariva per giorni interi, inghiottito dal lavoro nei campi e da chissà cos'altro.
Ai ragazzi faceva paura, perché ogni volta che qualcuno invadeva per sbaglio la sua proprietà, non era raro sentirlo bestemmiare, cedere all'ira più truce, minacciare rappresaglie efferate. Per questo motivo, quando decisero di attraversare i suoi campi di pesche per evitare la strada asfaltata, i quattro amici si fecero cauti come pantere.
Non potevano sapere che Fredo, insonne e nervoso, era ancora seduto sulla decrepita veranda di casa. Bastò un movimento sospetto nei campi perché il vecchio si alzasse in piedi a scrutare l'orizzonte. I capelli bianchi spettinati, la camicia larga e il torace scarno lo facevano assomigliare a un marinaio di lungo corso, scampato per miracolo alla rovina.
«Chi è laggiù? Andate via o sparo!», inveì il vecchio avanzando a fatica sul porticato, brandendo qualcosa nel buio.
Senza perdere tempo i ragazzi si lanciarono a capofitto verso l'argine poco lontano, inseguiti dalle urla di Fredo. Corsero senza mai voltarsi indietro. Si fermarono solo quando si sentirono al riparo nella boscaglia.
«Cazzo, avete visto? Ci voleva uccidere!», sbottò Lele col fiatone, in mezzo ad un furioso attacco di tosse. «Quello è uno zombie!»
«Ma come ci ha visto?», chiese Filippo piegato sulle ginocchia.
«Sembrava strano, forse era ubriaco...», buttò lì Franci, quasi tra sé e sé.
«Quello voleva spararci, non vi entra nel cervello? Spa – rar -ci!» scandì Lele platealmente.
«E basta! Calmati una buona volta!», gridò Samu al fratello, riprendendo a camminare. «Dai, andiamo avanti, in dieci minuti siamo al fiume. Non possiamo ritirarci proprio adesso».
«No, non possiamo…», dissero quasi all'unisono Franci e Filippo, rimettendosi in moto.
Dopo un'esitazione, anche Lele si accodò, continuando a borbottare inascoltato.


Nella confusione della fuga, avevano preso un sentiero diverso dal solito, non del tutto battuto. Accesero le torce, ma i fasci di luce faticavano a penetrare in quell'intrico lussureggiante di arbusti e rami. Continuarono alla cieca, aspettando finalmente che il fiume si annunciasse con il suo ampio letto di ghiaia. C'era un forte odore salmastro che segnalava la vicinanza della laguna di Grado.
Arrivarono, infine, a una specie di radura.
«Dovremmo essere già arrivati», sbuffò Samu arrestandosi di colpo. «Che si fa?»
«Dai continuiamo un po', dovremmo esserci ormai», gli rispose Filippo.
«E questo sarebbe un sentiero?», chiese Lele sarcastico.
«La direzione è giusta», disse Franci, senza badare all'amico. «Continuiamo ancora dieci minuti, sennò torniamo indietro».
«Va bene, ma dieci minuti, non di più...», fece Samu rimettendosi lo zaino sulle spalle.
Ma proprio in quel momento Franci si abbassò con un movimento repentino. Fece cenno a tutti di zittirsi. «Sstt...sstt... ho sentito qualcosa, fate silenzio», bisbigliò. Chiusero le torce.
E in effetti qualcosa si muoveva poco lontano. Era come uno scalciare, un agitarsi folle e disperato.
«Che cazzo è?», sbottò Lele spaventato.
«Sstt!», fece Filippo. Anche lui tremava. «Forse è un animale».
«Zitti, aspettiamo, stiamo vicini», disse Franci piegandosi a terra.
Il rumore si intensificò seguito da un suono sordo, come uno schianto.
«È un animale, avevi ragione», sussurrò Samu.
«C'è qualcosa che non va, forse sta male», fece Filippo.
Rimasero in ascolto di quel roco ansimare.
«Che si fa?», chiese Samu dopo un po'.
«Andiamo a vedere?», disse Franci alzandosi in piedi.
«Cazzo, siete sicuri? E se è pericoloso? Magari è una volpe e ha la rabbia..nostro padre dice che le volpi sono idrofobiche..».
«Non fare il cagasotto Lele». Samu prese sottobraccio il fratello.
Lentamente avanzarono verso il lamento irregolare. Si fermarono a circa tre metri dall'animale. Un odore acre li avvolse.
Con cautela Filippo accese la sua torcia spostando il fascio di luce in avanti.
Sentirono di nuovo rumori confusi. E poi solo un respiro, intervallato da deboli raspi.
«È ferito, non riesce ad alzarsi», disse Filippo.
«Ma cos'è?», chiese Franci di rimando.
«Forse un capriolo...o un cervo», le rispose Filippo.
«Avviciniamoci piano», bisbigliò Samu, avanzando nel sottobosco.
Era proprio un capriolo. Giaceva in una pozza di sangue, aveva una chiara ferita da arma da fuoco sul fianco destro. La povera bestia cercò ancora una due volte di alzarsi, ma cadde subito riverso, le zampe impotenti, gli occhi vitrei terrorizzati dal fascio luminoso.
«Povero, è ferito...gli hanno sparato», biascicò Franci.
«È stato il vecchio, quello spara a ogni cosa che si muove...», rilanciò Lele con enfasi.
«Ma non dire scemenze», fece Samu. «È stato un cacciatore...forse un bracconiere...»
«Guardate», continuò Franci con un nodo alla gola. «Sembra che pianga, poverino».
Filippo che, fino a quel momento, era rimasto immobile, quasi paralizzato, fece due passi verso l'animale. Poi allungò una mano verso il dorso della bestia.
«Ma che fai!», urlò Samu. «Dai, è pericoloso!».
Ma Filippo non l'ascoltò. La sua mano toccò la schiena dell'animale e si fermò. Sentì il cuore dell'animale che batteva all'impazzata. Il corpo della bestia si mosse ancora una volta, prima di crollare. Il ragazzo non arretrò.
«Sta morendo», disse come in sogno.
Franci si avvicinò a Filippo e mise la sua mano sopra quella dell'amico. Gli occhi dei due si incontrarono, quelli del ragazzo erano rigati di lacrime. Franci se ne accorse e strinse la sua presa pensando al timido abbraccio che si erano scambiati fuori dalla porta della chiesa, al funerale di sua madre. Sentì il calore della sua pelle, mescolato al dolore e al rantolo della bestia, il fiato del fiume poco lontano. Anche Samu e Lele si fecero avanti e così si ritrovarono insieme abbracciati attorno al capriolo. Lele tirò fuori dalla borsa una vecchia felpa Lonsdale con cappuccio che aveva nello zaino e la mise sopra il fianco dell'animale che adesso tremava violentemente, come se stesse gelando. Il bianco leone del marchio si tinse di rosso amaranto. Restarono così, allacciati, a vegliare sulla bestia per un tempo indefinito come guardie reali in attesa del cambio.


Fu Franci la prima a parlare.
«Penso sia morto».
«Già, non respira più», disse Samu, abbassandosi un poco per sentire meglio. «Povera bestia».
Indugiarono ancora un po' nella penombra, come cercando qualcosa nel cielo stellato.
«Andiamo adesso, dai.», disse Samu. «E' ora di tornare, fra poco è chiaro».
«Lo lasciamo così?», chiese Lele. «Non lo seppelliamo?».
«Dai Lele, non abbiamo niente per scavare. Dobbiamo andare. Se papà ci scopre, ci uccide», gli disse Samu mentre indietreggiavano insieme. E poi, dopo una pausa: «Non era la tua felpa preferita?»
Lele rispose alzando le spalle.
Filippo e Franci rimasero ancora qualche istante di fronte alla bestia.
«Andiamo adesso», disse Franci dolcemente.
Filippo annuì con la testa. Entrambi si mossero all’unisono verso l'interno. I loro volti si sfiorarono, fremendo nel buio.


Uscendo dal bosco si accorsero che il cielo andava schiarendo.
Affrettarono il passo, non dovevano farsi scoprire. Avevano un segreto da custodire, un segreto da amici per sempre.
Per la prima volta, dopo molti mesi, sentirono freddo, come se l'estate si stesse staccando.
Non gli diedero peso, perché erano insieme.

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