Ho smesso di scrivere in versi, senza avere ancora compreso
la differenza tra un verso e un non-verso,
leggendosi, entrambi, da entrambi i versi,
dal 20/09/2014, e siamo, oramai, alle 04.00 abbondanti
di una mattina fredda del 18/02/2015.
Spinto dall’urgenza di finire una bottiglia di amaro Montenegro,
mi riorganizzo amaro, Lucano, nell’ineluttabilità della Pharsalia,
nell’amarezza di un mondo dove nessuno conta niente
tranne Cesare e Pompeo, dove nessuno conta,
l’uomo, in qualsiasi conta, è sostituito da macchinette infallibili.
Ho scoperto di essere amaro: ironico, sarcastico, amaro buffone,
nell’era della crisi della «poesia», vate-closed,
accendo micce, da Pietro Micca, che micca esplodono all’istante:
restano inavvertite – come mi faceva notare oggi Ambra,
in Iran o in Cina l’arte è causa di omicidio di stato-
in Italia, al massimo, sintomo di stato di suicidio dell’artista militante.
Desidero essere condannato a morte, in modo che ai miei versi
sia dato valore irriverente e ribelle, e condannato alla resurrezione,
in modo che due neo-stronzi a Emmaus trovino spazio in televisione.
Non desidero diventare redattore di Vanity Fair, uscire in Mondadori
con un volume su come non rimanere single,
vorrei che i miei versi siano temuti, retribuendo terrore a terrore,
come cecchini appostati davanti al Parlamento,
in fondo, di decretinisti, ne basterebbero anche cento,
meglio un blow-job di una troia che un job-act di una troika
a mandare avanti una nazione sulle rotaie del fallimento.
[Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
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