Mia madre corrisponde in maniera esatta alla descrizione delle vecchiette che nelle poesie di Fabio Franzin s’incontrano dal tabaccaio appoggiate al bancone, intente a grattare con la moneta i cartoncini del gratta e vinci.
Ostaggi del gioco, rincorrono un sogno impossibile.
Le ho letto la poesia in questione e si è riconosciuta, si è persino commossa. Poi però si è fatta seria e ha detto: - Ma non potete toglierci ANCHE questa illusione -.
Ricordo che Borges parlava di miseria che si aggrappa alle lotterie.
Abbiamo attraversato anni di feroce perdita, fondati sull’inganno, scivolati lungo un degrado senza sorprese: si sapeva che l’economia nascondeva al suo interno bolle d’insincerità, la politica ci aveva abituati a flussi di mostruosità, di comportamenti indecenti, di follie e di lampanti menzogne, senza neanche i sussulti di uno sbigottito stupore, in una colpevole assenza di pudore.
Il degrado più terribile e infamante è stato quello del comune sentire.
Nella poesia del gratta e vinci la vecchietta torna a casa, alle sue preghiere, alle pentole e all’odore di brodo, alle care fotografie che dalle mensole la guardano e sembrano dirle: - E adesso, sei contenta ? -.
Anche in queste poesie, al termine di ogni quadro il poeta sembra suggerirci: - E adesso siete / siamo contenti ? -.
Di che cosa dovremmo essere contenti? Del fatto che politici presunti autorevoli non avvertano l’enormità di vantarsi di non conoscere Mario Luzi, non avvertano la colpa della inadeguatezza, dell’approssimazione, il peso di una colossale stupidità.
Siamo contenti dei manovali stranieri, quasi sempre in nero, che volano dalle impalcature, siamo contenti dei turisti che riprendono col telefonino i cadaveri iracheni congelati dentro un camion frigo, siamo contenti dell’assurdità di quella morte, ma ancora di più dell’allegria scanzonata al cospetto della tragedia.
Questi canti dell’offesa di Fabio Franzin sono uno scossone, un brusco tentativo di risveglio.
Eccolo il disfacimento morale, i cui segni germogliano a partire dai fatti della cronaca, le violenze sessuali consumate per noia, lo straniero come capro espiatorio, gli sgomberi forzati delle baraccopoli dei nomadi, la disumanità degli ospedali, gli anziani costretti dall’indigenza a rubare nei supermercati.
Alla fine ci si chiede: - Ma era proprio così il mondo / che sognavamo ? -
E ancora: - Ma siamo proprio noi quelli là? -
Queste domande costituiscono l’atmosfera che si respira nel fluire dei versi.
Il giudizio rimane al di qua, l’invettiva è implicita, più che l’ indignazione, è lo stupore per quello che siamo diventati, è la dolorosa meraviglia di fronte all’enormità dei fatti la protagonista di queste poesie.
Leggerle è una sana scrollata, è riaprire finalmente gli occhi su una realtà che ci rivela insieme offesi e offensori.
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Riflessioni di FABIO FRANZIN su CANTI DELL’OFFESA
Certe mie raccolte poetiche - anche poco più che plaquette come i CANTI DELL’OFFESA di cui parlo - hanno una gestazione decennale o ultradecennale; lo dico, anche in risposta ad alcuni critici che, benevolmente, mi accusano di aver pubblicato molto, negli ultimi anni: crf, ad esempio, Daniele Maria Pegorari .
Molto di ciò che esce ora – anche perché solo ora, dopo che proprio le opere in questione uscite mi hanno dato una certa notorietà, trovo editori disponibili, a volte addirittura su loro richiesta, a pubblicare i miei lavori -, ha una sua lunga e sofferta gestazione (nella primavera dell’anno in corso uscirà, presso Città nuova, nella collana VERSUS diretta da Daniele Piccini, la mia raccolta “Margini e rive”, parte in lingua e parte in dialetto; per dire: “Margini e rive” è un lavoro portato avanti per almeno un ventennio, fra stesure varie, revisioni, ripensamenti…); è vero altresì, che le mie raccolte “Fabrica” e “Co’e man monche” hanno avuto una gestazione rapida e compulsiva – una sorta di “presa diretta” quasi giornalistica con ciò che (mi) accadeva, e che hanno avuto la fortuna, proprio per l’aspetto voluto di testimonianza-reportage, di uscire a ridosso della loro stesura.
Nel dicembre del 2004 mi trovavo a Lucca per cose legate alla poesia, e proprio nel week-end in cui ero lì, ebbi la fortuna di assistere ad una delle ultime uscite in pubblico di Mario Luzi - da poco onorato del titolo di senatore a vita -. L’occasione era una sua “Lectio magistralis” dal titolo “Luce incarnata”; la lezione, che doveva tenersi in un luogo istituzionale, fu poi spostata in una dimora privata, a causa della sua famosa dichiarazione conseguente al fatto del treppiede scagliato addosso all’allora presidente del consiglio Berlusconi, e alle violente reazioni che suscitò nel dibattito politico. Ecco, che fosse negato un luogo istituzionale al più grande poeta italiano vivente e persona di specchiata civiltà, solo perché si era “permesso” di dire: “in fondo se le cerca anche un po’ lui”, lo trovai un gesto di spregio, leggi offesa, verso lo stesso Luzi - condito dalle candide dichiarazioni di alcuni senatori, di non sapere neanche chi egli fosse - e verso la cultura, l’Italia intera. Non potevo non accostare l’ignominia in oggetto, con la sua famosa invettiva alla Repubblica . Poco dopo Luzi morì, come sappiamo, e subito dopo la sua morte scrissi, in suo omaggio e memoria, Ignominiosamente che è il testo che apre i “Canti dell’offesa”.
Intanto, sia nei luoghi di lavoro, sia all’interno della società, avvertivo l’accrescersi di una crisi che, prima ancora sfociasse poi in economica, era già incistata all’interno della società: vuoi il regredire delle condizioni di tutela dei lavoratori stessi, vuoi certi proclami razzisti e omofobi, le tragedie dei “clandestini” del mediterraneo - diventato un vero e proprio “cimitero marino” -, o del riflettersi nei gesti e nelle abitudini di tutti noi dei messaggi subliminali della tivù, sempre più vuota, maleducata, arrogante, sempre più portata a una malsana pruderie: pensiamo all’audience cavalcato sui vari delitti insoluti, alle macabre gite nei luoghi dell’orrore; tutto ciò lo sentivo / lo sentiamo sempre più come un’offesa all’umanità; non un’indignazione, come ha giustamente rilevato un giovane critico a ridosso dell’uscita della raccolta , ma una vera e propria offesa.
Poi, nell’estate del 2007, avvenne il fatto tragico di Mestre; prendo dalla nota al testo in questione che ne è scaturito: Il 14 luglio 2007, nell’area di servizio Bazzera, a Mestre, da un camion-frigo tedesco che trasportava angurie, furono estratti i corpi congelati di tre clandestini iracheni. I giornali raccontarono le risa divertite dei turisti di passaggio, le foto ricordo fatte coi telefonini.
Quelle risa, quegli scatti-souvenir dei telefonini su quei poveri corpi morti, mi rimbombarono dentro come una selva di tuoni, non mi diedero più pace. In quei gesti senza cuore avvertivo un brusco scivolamento verso l’inciviltà, la barbarie. Nacque il testo “Povere statue”, che è il secondo della raccolta.
Andavo intanto maturando anche la convinzione che il poeta non potesse più limitarsi solo a scrivere dei “bei versi”, ma che dovesse ergersi a testimone della sua epoca, epoca travagliata che, secondo me, segna uno spartiacque fra la civiltà dei consumi, dell’abuso sulla natura e il paesaggio, e quella del necessario ripensamento, tanto più che si è ormai giunti, volenti o nolenti, a una sorta di resa dei conti con le istanze suddette.
Avverto il lettore di queste mie note - anche per rispetto della sua pazienza - che non continuerò a fare la cronistoria di ogni testo che compone la raccolta, ma che era necessario averlo fatto per i primi due testi per darne conto sulle origini della stessa, del tema contenuto in epigrafe del titolo.
Poi, nel 2008, partita dall’insolvenza dei mutui subprimes negli Stati Uniti, dall’infestazione cui non c’era antidoto - perché ogni banca mondiale aveva “in pancia” i suoi parassiti di carta straccia -, tutti abbiamo incominciato a fare i conti con l’offesa di un’economia non più “controllabile”, con una crisi economica che, come ogni virus, attacca per primi gli esseri più indifesi: i ceti più umili, i pensionati, le famiglie con qualche malato o portatore di handicap da assistere, i migranti che, vorrei ricordarlo per l’ennesima volta, espatriano da paesi in cui non c’è civiltà, libertà, possibilità di emergere dalla fame, non perché vogliono venire qui a insidiare le nostre indifferenti tranquillità.
Nel 2009 ho ripreso per mano appunti che avevo fermato sui miei notes da quel testo su Luzi in poi, e che per loro stessa natura, non potevano essere in dialetto, lingua con cui mi confronto da sempre, ma che, sgorgate per lenir/mi le offese quotidiane sempre più avviluppate al linguaggio televisivo, venivano fuori nella stessa lingua in cui si palesavano all’interno della società.
Non ho altro da aggiungere.
Al lettore resta da aprire la raccolta, se ne avrà voglia e benevolenza, per specchiarsi nella mia scrittura, per dare un senso ad essa e al bisogno, che tutti avvertiamo, in una realtà e in una società più giuste, meno offensive.
Alberto Cellotto, “Canti dell’offesa” di Fabio Franzin: molto più dell’indignazione, in http://www.librobreve.blogspot.com/, 30 novembre 2011.
Da: Canti dell'offesa
di Fabio Franzin
* * *
Questi vostri nomi Andreas Peppe
Jordanu Emir Mailat questi nomi
sporchi di sabbia e calcina volati
da impalcature posticce il giorno
stesso dell'assunzione queste urla
perse fra putrelle e betoniere sono
il grido che resta imprigionato fra
le celle in cartongesso dei nostri
appartamenti e nelle intercapedini
le piastrelle sono lapidi che il mocio
lucida il detersivo cancella il sangue
e i nomi sudore e precariato caporali.
* * *
Oggi il kosovaro che lavora con me
mi ha chiesto se potevo imprestargli
cinquanta euro si guardava nei piedi
mentre formulava quella sua richiesta
chissà quanto a lungo meditata - lo sa
che ho due figli il mutuo per la casa
e tutto il resto - e sono sicuro sapesse
anche la mia risposta perché non se l'è
presa sì sì certo comprendo continuava
a dire scrollando la testa intanto che ci
avviavamo verso i reparti stretti i guanti
nella mano. Però io non lo riconoscevo
quello che ha dovuto dire mi dispiace
proprio quando suonava la sirena e non
c'era più tempo neanche per la vergogna.
* * *
Oh quelle vecchiette che incontro
spesso dal tabaccaio quando entro
a comprarmi le sigarette: ostaggi
del gioco lì appoggiate al bancone
tutte intente a grattare con la moneta
quegli allettanti cartoncini colorati
coi simboli della fortuna: dadi carte
da poker e segni zodiacali...le guardo:
paltò di grisaglia grigia a bottoni grossi
sformato odoroso di naftalina grigio
come i loro riccioli scarmigliati grigio
e sformato come la loro vita ormai
-anche se condita da progenie- di anni
volati in un lampo fra un ballo lento
e una sberla del marito fra uno sgorgo
di gioia e mille malanni e umiliazioni;
babbucce di feltro ai piedi calzerotti
di lana mista fatta a ferri....le guardo
dilapidare la miseria della pensione
per rincorrere un sogno impossibile
grattata dopo grattata.... le seguo poi
andar via deluse e coi loro stanchi
passi tornare all'appello con quella
realtà che le ha grattato via un altro
po' di speranza un'ulteriore patina
di vita tornare dalle pentole dalle
loro preghiere dentro quelle stanze
che sanno di brodo da quelle care
foto che sulla credenza sembrano
dirle severe “e adesso sei contenta ?”.