Apparentemente la “funzione” di un traduttore sembrerebbe essere quella di tradurre le parole di una lingua in quelle di un’altra. Ma ridurre un traduttore a ciò sarebbe farlo diventare un vocabolario, o una più moderna app. Quel che fa un traduttore, uno bravo, è riscrivere un testo in un linguaggio che sia fruibile a una determinata comunità. Ad esempio, trasformare un romanzo scritto in inglese in uno leggibile da un qualsiasi italiano completamente digiuno di altre lingue. Quindi, non solo un’opera di traduzione di ogni singola parola, ma una vera e propria riscrittura o ricostruzione. Ciò detto, appare del tutto lecita l’operazione che ha dato vita a questo bel libro, Si vede che non era destino, pubblicato da TerraRossa Edizioni. Daniele Petruccioli, traduttore di mestiere e certamente per passione, ha tradotto una narrazione nota, letta e riletta da secoli. Come dicevo, non ha tradotto le parole che la compongono ma ne ha creata una che tiene conto del contesto iniziale, della sensibilità del traduttore e della fruibilità per il lettore.
La struttura da cui Petruccioli è partito è forse la narrazione più nota, o fra le più note, che, almeno nelle sue parti principali, è conosciuta un po’ da tutti. Si parla della vicenda di Maria che da semplice ragazza ingenua si ritrova a diventare madre di un uomo-simbolo per milioni di persone e donna-simbolo a sua volta. Sicuramente una vicenda su cui sono stati scritti migliaia e migliaia di libri, una vicenda che ha milioni di lettori ed estimatori, una storia che va dall’essere una narrazione simbolica, per alcuni, fino ad essere la più assoluta verità e fonte di fanatismo per altri. Petruccioli, quindi, ha avuto un grande coraggio a misurarsi con questa narrazione, per dedicarsi a tradurre, nel suo più personale e intimo linguaggio, un libro che immagino esista già in quasi tutte le lingue del mondo. Ma non esisteva nella lingua di Daniele. Ed ora c’è. Ed è un bene.
La lettura è come una visita ad un museo, in cui i reperti sono stati dissotterrati, meticolosamente puliti e liberati dalle scorie depositate dal tempo e infine esposti, magari in un contesto che ne spiega la funzione originaria. Così, i misteriosi oggetti riacquistano la loro vera natura di suppellettili di uso comune o di ornamenti di persone semplici, intente a un quotidiano perso nei meandri della storia. Come un archeologo, prima che traduttore, Petruccioli ha ripulito la storia di Maria da tutte le stratificazioni che le si erano depositate addosso nel corso dei secoli, ha ripulito le mistificazioni, i simbolismi, le funzioni, fino a restituircela bambina quattordicenne, spaventata per qualcosa che non riesce a capire del tutto ma da cui sa che non potrà sottrarsi. Non aureole d’oro, pesanti monili, frasi dense di sussiego medievale, ma la semplicità di una casupola, un albero di olivo: una vita comune. Non il tuonare di voci divine ma le risate di bambini a dare il sapore della presenza divina, al posto di ali d’oro un offuscarsi argenteo del reale. Elementi che per una bambina di quattordici anni dovevano essere più reali e comprensibili rispetto ad apparizioni di divinità o entità sovrannaturali. Ed è infatti per mezzo degli occhi di una bambina, nel suo ambiente naturale e domestico, che Petruccioli ci porta ad attraversare la storia di cui si è più scritto e detto al mondo riuscendo a farlo in un modo assolutamente inedito. I rapporti tra Maria e il marito prima e col figlio dopo diventano una vicenda intima, mostrano tra le pieghe del quotidiano l’eccezionale e il divino. Portando alla luce l’idea che se fatti tanto eccezionali sono stati vissuti in una quotidianità tanto semplice, allora nelle vite di ciascuno si annida il sacro, nella quotidianità risiede l’eccezionale, e non viceversa. Il sacro è molto più umano di quel che si pensa e fa parte della vita di ciascuno. Sono grida di bambini festosi, è un vecchio ulivo, è una distrazione che si tinge d’argento, ma soprattutto è l’amore.
La storia, così come ce la racconta Daniele, è piena d’amore, di ascolto e comprensione e per questo non vi è posto per l’arroganza del dogma, del sacro intoccabile; le vite di Maria e di Gesù sono portate a livello umano, il livello che effettivamente devono avere avuto quando sono accadute e ha la limpidezza cristallina delle vicende comuni, e solo molto tempo dopo è stata offuscata dal fanatismo e dall’intransigenza religiosa.
Nel precedente romanzo di Petruccioli, La casa delle madri, vi era una luce che si spandeva nelle stanze, veniva lasciata dilagare, dando il senso del sacro e del sublime nelle esistenze dei protagonisti, la luce legava i personaggi, lasciando immaginare una dimensione altra delle loro vite, quasi una dimensione lustrale o di un sacro appena accennato. Anche in questo nuovo lavoro l’autore spande luce sui personaggi, ma in questo caso è connaturata agli ambienti ove si svolgono i fatti, e questo rafforza l’idea di una sensazione di sacro presente nel quotidiano e che il sacro venato di misticismo (chissà perché rischio sempre di scrivere fanatismo), sia un accessorio aggiunto in seguito. La divinità è una perla che costruisce pazientemente l’ostrica a partire da un granello di sabbia, cosicché, a ritroso, spogliata dagli orpelli depositati dai secoli, si trova una storia semplice ammantata di luce propria, naturale; tolto il sacro, si ha una madre e il suo amore verso la propria famiglia. Inoltre, un tema caro all’autore sembra ritornare: un figlio speciale non deve essere isolato, piuttosto la sua diversità è un valore da difendere e per una madre il figlio è come tutti gli altri.
Per ri-costruire questa vicenda umanissima l’autore adotta un registro linguistico molto semplice, frasi brevi, pensieri che arrivano sulla carta così come li pensa Maria, con la sua semplicità e il suo amore. L’intercalare, che risuona anche il tiolo del libro, è un ulteriore segno del discostarsi dal sacro e dal leggendario: non era già scritto che le cose dovessero andare così, non era destino. Non c’era il destino, c’erano solo dei fatti vissuti in semplicità, forse Maria avrebbe voluto una vita più semplice, più comprensibile… però, si vede che non era destino, le cose sono andate così. Non c’è ribellione, solo rassegnazione e accettazione di una vita che ha preso la sua strada, come le vite di tutti che seguono percorsi che non sono voluti dal destino, sono vite che ci capita di vivere, e mentre facciamo del nostro meglio per viverle non sappiamo se saranno ben presto dimenticate o se ne parlerà anche dopo millenni.
Solo nel finale Maria avverte il senso di quanto ha vissuto, del fatto che non è mai stata sola ad affrontare le singolarità della sua vita: «inciampo, ma mi è impossibile cadere. La folla mi spinge, mi sostiene, mi trasporta». Sarà forse l’addensarsi di qualcosa di superiore attorno a Maria o sarà la consapevolezza del fatto che non si è soli nei momenti difficili. Questo, Daniele, non ce lo dice, neanche Maria lo sa, sa solo che non vuole vedere morire nessuno, come ogni madre di ogni tempo. In fondo quella che emerge dalle pagine del libro è una donna semplice che ama il proprio figlio non per quel che sarà o che potrebbe essere, ma semplicemente perché è il proprio figlio, una donna come tutte; forse avrebbe potuto essere diversa, avere avuto un’altra vita ma si vede che non era destino che le cose fossero più semplici.