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Tamerisco IV

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 28/10/2021 09:01:40

IV

 

Dove si svela il segreto di Guido 

Piero scopre che i ricchi sono pure belli

e assiste a una spiacevole lite in famiglia



Il traffico sull’autostrada procedeva a rilento a causa della neve e del ghiaccio. Solo qualche scalmanato andava a tutta velocità incurante del pericolo. Susanna guidava con molta prudenza. Solitamente i lunghi viaggi sono occasione per approfondire la conoscenza, ma lei non sembrava interessata a me, ed io non trovavo niente da dire.

Si andava in silenzio in una lunga colonna di automobili. Il riscaldamento rendeva confortevole l’abitacolo, e dopo qualche chilometro ci spogliammo: lei della pelliccia, io della giacca a vento. Non aveva indossato i jeans, come aveva promesso, ma un vestito da sera azzurro e un filo di perle attorno al collo. Non potevo fare a meno di ammirare le ginocchia sottili e le gambe di perfetta fattura. Quando passammo il tunnel che, dopo aver forato la montagna, si affacciava sul mare, le domandai come mai si fosse rivolta proprio a me e non ad altri. Mi rispose che io non avrei raccontato a nessuno di quella nostra gita, per timore che Guido lo venisse a sapere, perché sicuramente per gelosia mi avrebbe tolto il saluto. Veramente nei giorni passati avevo avuto il rovello di come comportarmi con Guido: tacere mi sembrava disonesto nei suoi confronti, raccontargli tutto significava farlo soffrire enormemente; la gelosia avrebbe potuto rovinare un’amicizia cui tenevo moltissimo. Mi meravigliavo che Susanna avesse diabolicamente preveduto tutto questo. Indeciso tra le due possibilità, era prevalso l’immobilismo, che voleva dire tacere, che era poi la prima ipotesi, ma essendo stata accolta non per scelta, ma per indecisione, sembrava avere una valenza morale molto inferiore. Domandai perché non avesse invitato Guido, anziché me. In fin dei conti erano amici da tempi immemorabili.”

“Guido mi angoscia!” rispose, “Con lui ho passato le ore più tristi della mia vita. Non ti ha raccontato del fratello?” Pareva che mi guardasse con aria di rimprovero perché non sapevo nulla del fratello di Guido. 

“Guido aveva un fratello maggiore che, essendo morto il papà quando lui aveva appena cinque anni, gli aveva fatto da padre; per questo gli era morbosamente legato, come Guido solamente può essere. Pure io e Pietro eravamo affezionati a Giovanni e spesso lo andavamo a trovare in campagna, faceva infatti il contadino. Aveva una moglie e due bambini stupendi, proprio una bella famiglia. 

Una domenica di settembre di quattro anni fa io, Pietro e Guido lo andammo a trovare. Giovanni era nel campo, sul trattore; ci accolse calorosamente, come sempre. Ci dirigemmo con lui verso casa. Davanti al cascinale c’era uno spiazzo nel cui centro troneggiava una grande quercia. Quante volte all’ombra di quell’albero avevamo pranzato in allegria!  Allora, ho orrore solo a pensarlo, c’erano appesi, impiccati, la moglie e i due bambini. I loro corpi penzolavano così da sembrare da lontano nient’altro che degli stracci.  Lui disse – Non sono ancora maturi!-  Noi restammo di sasso.

Giovanni, vedendo il nostro stupore e poi lo sgomento, sbarrò gli occhi e coprendosi il viso con le mani corse in casa. Ho ancora davanti agli occhi quella espressione di follia e disperazione. Pietro, quando si riebbe, chiamò la polizia. Guido ed io, come paralizzati, non riuscivamo a distogliere gli occhi da quei corpi appesi immobili e paonazzi.

Era successo, così ricostruì il fatto la polizia, che alcuni giorni prima Giovanni aveva strangolato con una corda la moglie e il figlio più piccolo e li aveva appesi alla quercia. Quando il più grandicello era tornato da scuola, vedendo la madre e il fratello impiccati, era corso piangendo dal padre che era nel campo. Questi, abbracciatolo, gli aveva torto il collo e lo aveva appeso, lui pure, all’albero che non faceva più frutti, si lamentava.

I poliziotti bussarono a lungo alla porta di casa, chiamando Giovanni col megafono. Si decisero poi a forzare la serratura. Frugarono in tutte le stanze, giù in cantina, nel solaio. Fu Guido a indicare una scaletta che portava a una stanza da bagno nel soffitto. Trovarono Giovanni più bianco della porcellana del Water nella cui tazza aveva messo la testa sentendosi mancare le forze: si era reciso le carotidi con un colpo netto di rasoio.”  

 Sentivo la sua voce tremare per l’emozione. Quando tacque, era come se fossimo entrambi sotto la quercia dove pendevano i corpi della moglie e dei bambini del fratello di Guido.

Usciti dall’autostrada, prendemmo per la pineta che costeggiava il mare, e poi un sentiero lastricato di pietra rosa ai cui lati siepi di bosso e tamerici, alti muri di basalto riparavano da sguardi indiscreti le ville dei ricchi. Il cancello era aperto per ricevere gli ospiti che arrivavano alla spicciolata. Susanna mi presentò ai padroni di casa: entrambi alti e biondi, erano proprio come uno s’immagina i divi del cinema. - E’ proprio vero che i ricchi sono pure belli- pensai, mentre la signora mi stringeva la mano cordialmente. Susanna mi aveva presentato dicendo che ero un suo carissimo amico, uno scrittore. Lui mi chiese che cosa scrivessi.

Chi non ha almeno un racconto o una poesia in fondo al cassetto? Quando ero studente componevo versi e avevo scritto qualche racconto senza pretese. Dopo la laurea, la preoccupazione di trovare un lavoro che non fosse la raccolta stagionale dei pomodori, aveva inaridito la mia vena letteraria. Sembravano veramente delle brave persone i Cabrini, con quei visi belli, puliti, mai affaticati. I camerieri giravano con i vassoi attorno ai capannelli degli ospiti. Presto mi trovai io pure con in mano un bicchiere di prosecco, al margine di un capannello di persone cui ero stato frettolosamente  presentato. L’attenzione di tutti era monopolizzata da un signore in doppiopetto blu, dai capelli tirati a lucido, che chiamavano “Cavaliere”. Parlava in bella pronuncia lombarda dell’inefficienza dei servizi pubblici, faceva ironia sulle ferrovie di stato che erano, come era noto a tutti, una voragine senza fondo, raccontava grassi e gustosi aneddoti sul sistema sanitario nazionale spendaccione e inefficiente. I denti bianchissimi delle signore brillavano in gaie, rumorose risate.

Avevo perso di vista Susanna. La gente sembrava essersi riunita in quel posto per dire banalità e ridere di niente. Il Cavaliere mi aveva stufato. Mi misi a passeggiare per la stanza, che era vasta come una piazza, col bicchiere in mano, unico segno di partecipazione fisica alla festa, guardandomi attorno tra il curioso e l’annoiato. Quando mi accostai al bar, mi si affiancò un tale alto e sottile dal viso affilato di viperino. Ho sempre pensato che sia una grossolana ingenuità credere che l’uomo discenda soltanto dalla scimmia. In verità si incontrano persone che palesemente derivano dalla specie canina, o da altre specie, come nel caso di quel signore sibilante che, simile a un serpente, si contorceva sullo sgabello del bar. Si incontrano facilmente persone, soprattutto nel sesso femminile, che derivano con certezza dai gallinacei o dai coccodrilli, altri dagli equini o dagli ippopotami. Sono convinto che tutte le specie animali, e forse anche quelle vegetali, hanno contribuito alla formazione della gloriosa specie umana, fatta a immagine e somiglianza niente meno che di Dio.

“Mi chiamo Nicola Coito” si presentò. “Piacere, Piero Cretini” risposi.

“Anche tu sei venuto a tanta noia!” disse abbracciando con lo sguardo la sala brulicante di signore eleganti e uomini in finto casual.

“Ammetto che non è divertente!” Sorrisi con amarezza, per darmi un contegno.

“Proprio per niente, conosci i Cabrini? Sono le uniche persone di valore qua dentro. Vieni, ti mostro un cimelio di famiglia.”

Attraversato il salone, entrammo in una stanza nel cui centro, dentro un cubo di plexiglas, si trovava un gozzo di otto metri, di quelli che si vedevano un tempo nei paesi di mare: ben catramati, dipinti con colori sgargianti dalle amorevoli mani dei pescatori, ormai sostituiti da più moderne e anonime imbarcazioni. Illuminato da potenti fari alogeni lo scafo sbiadito dal sale, incrostato di licheni e conchiglie, mostrava su un fianco un grosso squarcio, come se un mostro marino avesse tentato di divorarne i legni ben stagionati.

“Questa era la barca del nonno dei Cabrini. Faceva il pescatore e una sera è scomparso in mare in circostanze misteriose, forse finito contro rocce affioranti, ma era troppo esperto e conosceva molto bene quel tratto di mare per fare un errore così banale. Più probabilmente fu speronato da una grossa imbarcazione. In ogni caso il corpo del nonno non fu mai ritrovato. I figli trovarono la barca qualche anno dopo e, tiratala su, la misero in questa stanza, che è il nocciolo della famiglia, attorno al quale è cresciuta la pianta della loro fortuna. In verità è gente molto capace e onesta, che poco per volta ha messo su una flotta di pescherecci e una ditta di surgelati.

Mario attribuisce a questa barca la fortuna dei Cabrini e, non proprio per scherzo, racconta di incontrare il nonno, di notte, intento a pulire lo scafo. Il vecchio si informa di ogni cosa e spesso gli dà buoni consigli per gli affari.”

Da dietro una porta si sentivano voci concitate:

“Non ti credevo così coglione!”.

“Insomma vuoi smetterla? Mi sembra che tra noi sia finita da un pezzo e tu sei solo un’amica, una delle tante, e non hai nessun diritto di farmi la morale”.

“Oltre che coglione sei pure uno stronzo! Perché non capisci che io mi sono fatta a pezzi per te. Altro che amica, una delle tante! Chi ti ha presentato ai Cabrini pregandoli di tirarti fuori dai debiti? Ti sei dimenticato che quelli ti avrebbero tagliato i coglioni se non pagavi?” L’alterco cresceva di gradi. Nicola sorrise maliziosamente: “Là dentro si scambiano paroline d’amore”.

Riconobbi la voce di Pietro e di Susanna. Ora Pietro dava della puttana a Susanna e lei ribatteva per le rime, ma si capiva che aveva raggiunto il limite e presto sarebbe scoppiata a piangere. Con mio grande sollievo tornammo nel salone. Non sapevo perché, ma ero sulle spine, come se quella lite di ex amanti mi riguardasse e non potevo tollerare che un estraneo facesse dell’ironia su quei panni sporchi di famiglia. Eppure Susanna e Pietro mi erano estranei quasi quanto Nicola, che avevo appena conosciuto. 

Lasciai Coito davanti a un piatto di zuppa inglese e uscii all’aria fredda della sera. Avevo voglia di urinare e non volevo perdermi nel labirinto di corridoi e stanze alla ricerca di un bagno. Così feci le mie necessità al buio, dentro un’aiuola; dalle finestre del salone veniva la musica della festa e una luce fioca, multicolore. Fuori dal giardino, si udiva soltanto il bruire del vento tra gli aghi dei pini e, più in là, il suono lento della risacca. Rimasi a lungo al cospetto del dorso nero del mare, immaginifico Levitano nel cui ventre dormiva il nonno dei Cabrini e chissà quanti altri pescatori con le loro barche ricolme di poveri tesori: otri di vino, reti, carni salate, carte geografiche d’improbabili mari e continenti. Sono nato in riva al mare, in un certo senso sono uomo di mare anch’io, sebbene esso mi incuta paura come il buio e il silenzio. Mi è rimasta l’abitudine contemplativa di scrutare l’orizzonte, come tutti quelli che vivono sui litorali, che passano ore e ore con lo sguardo perso nei tramonti, nella spuma delle onde, nello specchio della luna.

 Poco distante un uomo seduto sulla sponda di un patino, il capo reclino, dormiva russando fragorosamente: era Pietro, puzzava di alcool lontano un miglio, poteva narcotizzare tutti i pesci dell’oceano. Pescatore di pesci ubriachi! Domani lo avrebbero raccolto congelato dalla notte invernale, calcinato dal sale e dalla sabbia. Un brivido mi corse per la schiena, rientrai in casa. Nella sala la festa era finita; i lampadari erano spenti. Nella penombra la padrona di casa confabulava con il Cavaliere. A un’estremità del bar, in perfetto equilibrio sullo sgabello, dormiva Nicola Coito. All’altra estremità due ragazze si scambiavano rare parole fumando avidamente. Domandai a un cameriere intento a sparecchiare se avesse visto Susanna. Mi rispose che la signorina era partita con la sua macchina. Bello scherzo era quello! Come avrei fatto a tornare a casa. Il cameriere fece di spallucce e riprese il lavoro. Mi rannicchiai su un divano e mi addormentai. Mi svegliai dal freddo. Il salone era buio. Erano andati via tutti quanti. Presi una tovaglia dal tavolo più vicino e me la buttai addosso a modo di coperta. Non mi rendevo conto di quanto tempo fosse trascorso nel sonno.

Un calabrone mi ronzava attorno. Non potevo vederlo ma intuivo il suo nero pungiglione, la sua crudeltà indifferente. Mi ricordai che ero allergico alle punture delle api e non avevo con me l’adrenalina. Dovevo stare immobile! Forse si era posato su di me pronto a infilzarmi al primo movimento. Apersi gli occhi terrorizzato: il chiarore del primo mattino, filtrando tra i tendaggi, spandeva una bianca luce sul marmo del pavimento dove correva una lucidatrice allegramente ronzante trascinandosi dietro una serva minuta, una nana, che indossava una sottana bianca sotto il grembiule rosa. 

I grandi occhi azzurri e la bocca larga e rossa sorrisero come mi videro sveglio. Mi domandò se volessi fare colazione. Presi un caffè forte e amaro e raggiunsi con un taxi la stazione più vicina.




 


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