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Tamerisco XV parte seconda

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 04/07/2022 15:49:59

XV

bisogno di confessione

 

Non dissi a nessuno di quella notte con Pietro, nemmeno a Adelina e a Michele. Ora ne scrivo perché quando si racconta una storia non è lecito tacere dei più intimi meccanismi che l’hanno determinata, tanto più che ormai alcuni dei protagonisti sono morti e altri sono dispersi chissà dove, o sono io perduto chissà dove. Per molto tempo, a proposito di quella notte, mi sono domandato come mai Pietro non rispose alla domanda di chi aveva voluto ucciderlo; eppure era evidente che aveva riconosciuto il suo mancato assassino, che anzi, avevo sospettato, gli fosse familiare. 

Mi domandavo che ruolo avessero i Cabrini in tutta quella vicenda; se prima di morire avesse egli trovato quella fede che credeva non gli fosse data; ma se è vero quanto afferma Nietzsche, che chi cerca Dio lo ha già trovato, ora di sicuro Pietro riposa tra le braccia del suo Dio buono. Sentivo in quei giorni la necessità di confidarmi con qualcuno di assoluta fiducia. Incredibile! Io che ero contrario alle confidenze, che consideravo le confessioni una forma insopportabile di autocommiserazione, avevo la necessità di parlare con un estraneo, uno psicologo forse, che avrebbe tenuto il massimo riserbo per il segreto professionale a cui era legato. Tuttavia questi non poteva darmi interamente quello di cui avevo bisogno: non stavo cercando un metodo per rilassarmi, per convincermi che la vita poteva essere giusta così com’era. In realtà non capivo bene di cosa avessi bisogno: forse soltanto di parlare del vuoto in cui ero vissuto, per cui mi sentivo assolutamente impreparato nei confronti dei problemi che in quei giorni mi si ponevano dinanzi, senza possibilità da parte mia, senza il coraggio o la viltà di fuggire. Se da una parte avevo paura della vita e della sofferenza che essa porta in dote, non ero d’altra parte più capace di rifiutarla; per quanto provassi una sgradevolissima sensazione di ribrezzo al solo pensiero di immergermi in essa, non potevo più evitare di sporcarmi nelle sue miserie. Pensai che poteva essere simile al fango  termale, che sprigionava un calore benefico, salutare al corpo e allo spirito. Fu quello un pensiero fuggitivo, la debolezza di un attimo. Questo discorso che pure ora non appare del tutto chiaro, figuriamoci come era confuso non appena affiorato alla coscienza e immediatamente ricacciato dall’orgoglio di un malinteso razionalismo in  quella parte di me più buia, più irrazionale e nascosta. 

Sentivo istintivamente che quel religioso con cui Pietro si era confidato faceva al caso mio. Sebbene non fossi alla ricerca di Dio, ma semplicemente alla ricerca di quella parte di me stesso che si era smarrita, di quell’io che era divenuto debole e pauroso, molle e informe, che domandava di ritrovare l’aspetto gagliardo, la durezza di un tempo. Se avessi capito allora che questo poteva accadere a patto che affrontassi la vita senza chiusure, senza paura, mi sarebbe stato risparmiato parecchio dolore negli anni che seguirono. Si sa che il senno del poi ha poco o nessun valore. Invano cercai di scoprire chi fosse quel monaco: né Susanna, né Maria Pergamena ne erano a conoscenza. Eppure quest’ultima era stata vicino a Pietro condividendo con lui l’angoscia e il dolore di quei giorni. Maria era fatta di un’altra pasta: lei viveva la decadenza fisica con contenuto distacco. Il sangue aristocratico le conferiva quella forza: i nobili sono abituati a convivere con la morte, a considerare la propria vita, come quella dei propri antenati, un fatto accidentale, un anello della catena interminabile che costituisce la famiglia. Così lei contemplava la propria malattia con la stessa rassegnata indifferenza con cui lo storico considera la decadenza e la fine di un regno.





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