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Tamerisco XXI seconda parte

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 12/08/2022 17:20:53

XXI

 

Una passeggiata tra i rifiuti



Il ferragosto era passato e non pioveva da parecchio tempo. Dopo gli acquazzoni di Luglio, due o tre scrosci troppo repentini, troppo violenti perché la terra potesse abbeverarsi, non era più caduta una goccia d’acqua.  

Dalla pianura giungevano i lamenti dei contadini: se fosse continuato così sarebbe stata la rovina, non ci sarebbe stato raccolto e la semina sarebbe andata male, una specie di carestia d’altri tempi. I viticultori in collina annunziavano per quell’anno un vino forte e buono come mai si era visto, perché la scarsità d’acqua produceva uve dolci e zuccherine, se pure in minore quantità. Ma si sapeva come sarebbe andata a finire poi: in Autunno improvvisi, violenti temporali avrebbero inondato la campagna, distruggendo i raccolti e i filari delle vigne, si sarebbe proclamato lo stato di calamità naturale e il Governo avrebbe distribuito un po’ di soldini, quel tanto da comprarsi un trattorino nuovo, oppure rifare l’intonaco della casa o il pozzo nel cortile. In città quel secco produceva il disagio di qualche doccia in meno e del filo d’acqua al rubinetto nel tardo pomeriggio. Poi le piogge torrenziali avrebbero allagato le strade. La rete fognaria avrebbe tracimato le sue acque bianche e schiumose, maleodoranti come le polemiche d’ogni autunno sul giornale.

Quelle giornate di fine Agosto erano come rose gialle troppo mature, già appassite nelle prime ore del mattino.

Andavamo lungo l’argine del fiume, dove il letto fa un’ampia ansa sfiorando le mura quattrocentesche del monastero di Santa Caterina: traditur che il signore locale avesse costruito quel convento, che aveva più l’aspetto di una fortezza che di un luogo sacro, per rinchiudervi la figlia incinta e disonorata da un cortigiano, non nobile abbastanza da poter aspirare alla mano della fanciulla. Ora il luogo era mantenuto da un manipolo di suorine provenienti dall’Asia che l’avevano ingentilito con gli ornamenti della loro civiltà profana. Guido era taciturno, camminava al mio fianco o sopravvanzandomi di qualche passo. L’aria era mite e il paesaggio troppo dolce perché mi ponessi dei problemi. Seguivo con gli occhi il letto del fiume in secca che si curvava con grazia e s’imboscava in folti di noccioli e arbusti sempreverdi, per riemergere in lande di fango madreperlaceo e duro che specchiava la luce sbiadita del mattino. Adelina era andata a trovare i genitori: da dieci giorni aveva un preoccupante ritardo delle mestruazioni. Avevamo deciso che, quando ci fosse stata la certezza dell'inseminazione, sarebbe venuta ad abitare da me. Era tanto tenera e indifesa in quei giorni, non domandava neppure di fare l’amore ed io godevo un lungo periodo di astinenza sessuale. A volte il pensiero di diventare padre mi causava il panico. La osservavo camminare per la sala della biblioteca, o meglio guardavo la sua pancia dove forse si svolgeva quel misterioso processo che porta alla formazione di un essere vivente. Le cellule si mettevano in fila, soldatini alla parata militare, ciascuna con un proprio compito. La vita iniziava con un movimento ordinato. Sarebbe bastata una turbativa, anche minima, nella loro vita operosa e il processo si sarebbe interrotto, il progetto di un uomo sarebbe abortito nel caos. A parlare di progetto, tuttavia, avremmo dovuto ammettere l’esistenza di un progettista, un’entità superiore e mi pareva impossibile che costui avesse definito in ogni minimo particolare l’esistenza di un numero infinito di esseri, curandosi di ciascuno di essi. Pensavo che avesse piuttosto stabilito un copione di massima, come una recita a soggetto in cui ognuno entrasse in scena al momento giusto, e le battute fossero create a seconda della necessità e dell’estro dell’attore.

A quei tempi ero propenso a credere che ciascuno di noi fosse il frutto di innumerevoli tentativi, che il caso fosse l’oscuro signore che domina la nostra esistenza fin dal nascere. Queste considerazioni ponevano altre domande di cui non ultima era da dove derivava la forza che portava il maschio a deporre il seme nella pancia della femmina, e forse un domani non tanto lontano a deporlo nell’alambicco di una moderna alchimia. Da dove veniva l’oscuro magnetismo che portava la donna tra le braccia dell’uomo a mischiare gli umori, a condividere il letto, i pasti, lo spazzolino da denti. A quel punto mi coglieva un crampo allo stomaco, come se dentro la pancia scalciasse un bambino come quello che ero stato io, che si chiudeva nella stanza da letto al buio, stanco delle provocazioni degli altri bambini perché non amava giocare al calcio, stanco di perdere alla corsa e alle prove di forza. Giuravo di rimanere in quella stanza, sdraiato sul letto, al buio, per sempre solo. Mio padre diceva che nella vita non sarei arrivato da nessuna parte. .   

 Del cortigiano non si sapeva niente: poche righe nelle cronache della città, niente più di un pettegolezzo: la copula sarebbe avvenuta durante una festa campestre, forse una battuta di caccia: amore all’aria aperta, guardando le nuvole passare, il passero sgambettare sul ramo, la mantide religiosa più verde dell’erba e delle foglie consumare il suo pasto maritale. Dopo, dell’uomo si perse ogni traccia. Forse, chi può sapere, imprigionato nelle segrete del palazzo signorile, bruciò i suoi brevi giorni in compagnia di topi e  ragni, oppure fu ucciso mediante veleno o pugnale e seppellito nel bosco o dato in pasto ai suini; oppure, preferibilmente per lui, fuggito in paesi lontani dove nessuno gli poneva domande, si era fatto una nuova vita, un commercio, una famiglia. Della ragazza si sa che visse nel convento dove fece rapidamente carriera divenendo madre badessa. Allora il convento godeva di grande prosperità essendovi più di cinquanta suore in regime di semi-clausura. Della creatura non si sa nulla. Probabilmente fu un maschio, ammettendo che mai venne alla luce. Forse fu affidato a una coppia di contadini sterili, com’era in uso a quei tempi, oppure, allevato in convento, fu avviato alla solida professione di giardiniere o stalliere. Si sa che dei bastardini non importa niente a nessuno.      

“Sei stanco? Arriviamo alla discarica” disse Guido distogliendomi dai pensieri. 

La discarica era una montagna grigia che si trovava dopo l’ampia curva che il fiume faceva contornando una collinetta rocciosa. Ai suoi piedi una coppia di barboni contendeva il campo a un cane meticcio figlio di meticci, bastardo da infinite generazioni. Chissà se pure i cani hanno avuto un primo, un’epoca in cui tutti erano puri, come noi abbiamo avuto Adamo, che poi forse non era un uomo, ma un popolo, una civiltà di esseri felici che non conoscevano il dolore e la morte. La donna minacciava il cane brandendo un grosso sasso. L’animale si allontanava per tornare quatto quatto appena vedeva un oggetto di suo interesse. La donna riprendeva a urlare, finché l’uomo, alto e smilzo con barba grigia e incolta, che aveva rubato i vestiti a uno spaventapasseri, si spazientì e le intimò, lui pure urlando, di riprendere la ricerca. Spostavano cerate bisunte e lacere disseppellendo scheletri di carrozzine, frigoriferi rugginosi, sedie e divani dismessi.

“La prossima settimana lascio la biblioteca. Finalmente!” disse Guido

“Davvero! Mi dispiace, ma ho piacere per te. Così potrai fare quello che ti interessa. Entri subito in servizio al giornale?”.

“Credo di si. Dovrò fare un periodo di ambientamento. Sono d’accordo col direttore che mi interesserò d’arte, in particolare del patrimonio artistico del territorio. Prima mi vuol fare cimentare in tutti i settori, perché dice che l’arte va legata alla vita quotidiana della gente, allo sport, alla politica. Ha idee tutte sue…”.

“Non ha tutti i torti, a pensarci bene. L’hai già detto ad Albertini?”

“No, e non voglio parlarne con lui. Da tempo mi ignora e naturalmente tutti si adeguano. Nessuno mi rivolge più la parola, tranne te e Adelina.” Camminavamo ai piedi della montagna di rifiuti che per assenza di vento emanava un fetore uniforme, come se tutta l’aria del pianeta fosse ammorbata da quell’ammasso maleodorante e putrido. “Spero che continueremo a vederci. Mi dispiacerebbe rinunciare alle nostre passeggiate in campagna” Guido si era fermato pensieroso e spostava col piede una pila di cartoni dipinti da un dilettante maldestro che buttandoli via aveva  finalmente riconosciuto di non essere in possesso del talento necessario.

“I rifiuti! Sai cosa vuole dire essere dei rifiuti, essere rifiutati? Pochi lo sanno veramente, eppure gran parte dell’arte e della letteratura non parla d’altro”

“Domandalo a quei barboni” Dissi indicando il gruppetto riottoso che razzolava nella spazzatura a cento metri da noi.

“Quelli non sanno, non più del cane che è nato così, perché i genitori hanno vissuto nei rifiuti e così i loro antenati” Disse Guido come se avesse letto i miei pensieri di prima. 

“ Vedi questo bambolotto” spostava con la punta del piede il busto rosa smembrato di una grossa bambola dalle dimensioni di un neonato. “ Una bambina l’ha posseduto, l’ha stretto a sé immaginando per gioco che fosse il suo bambino o il suo uomo. Poi, quando s’è stancata, l’ha smembrato, sempre per gioco, e l’ha buttato nella spazzatura. Oppure l’ha rifiutato, perché non era bello come avrebbe desiderato, e l’ha buttato dalla finestra, sulla strada. Forse un cane di notte o un’automobile che passava l’ha smembrato. Immagina se fosse di carne e ossa, con lo stesso bisogno d’amore di un essere umano. Dimmi che cosa avrebbe provato!”

“Non saprei, dimmelo tu!” Mi guardava con gli occhi lucidi, febbricitanti: “Solitudine, una solitudine infinita. E dentro il tormento dell’amore e dell’odio. E ci sguazza in questo crogiuolo bollente di dolore, perché sente che il giorno in cui esso si inaridisce, che l’amore e l’odio svaniscono, non ci sarà più niente. Sarà morto dentro.”

Pensai che esagerava, che recitava. Guido era tanto immerso nelle sue problematiche d’arte e di letteratura da non distinguere più la finzione dalla realtà. Per questo mi divertivo in sua compagnia. Non potevo immaginare in quel momento quanto mi sbagliassi.





 

 


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