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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Er palazzo dell’oro

di Carlo Emilio Gadda 

Proposta di Roberto Maggiani »

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Pubblicato il 23/06/2009 01:12:00

Cinquant'anni fa, nel 1946, la nota rivista "Letteratura" cominciò la pubblicazione di un romanzo a puntate. Il genere e il titolo, "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", sembravano perfettamente in linea con le indicazioni che arrivavano dal mondo della cultura, degli intellettuali, degli scrittori, complessivamente raccolte sotto il nome di Neorealismo. Ripresa del romanzo e abbandono della prosa d'arte o lirica che aveva caratterizzato il Ventennio, ritorno a moduli veristici e naturalistici (Verga e Zola, tanto per intenderci), predilezione per la lingua parlata, gergale o dialettale: erano alcuni degli ingredienti di quella "fame" di realtà e di impegno civile che molti intellettuali sentivano dopo il lungo digiuno fascista. Le premesse di un successo, quindi, parevano a prima vista esserci tutte. Ma il "Pasticciaccio", lungi dall'incontrare favori di critica e men che meno di pubblico, fu quasi totalmente ignorato. Come non fosse neanche uscito, tranne che per quei pochi - pochissimi - che da anni si erano interessati all'attività di uno scrittore strano, che non era proprio uno scrittore perché faceva l'ingegnere, ma che era fuori di ogni dubbio uno scrittore perché, pur di scrivere, si era da qualche anno consacrato alla bolletta più nera, licenziandosi per vivere di sola penna: e scriveva e scriveva, già parecchi lavori aveva pubblicato, quasi sempre in rivista. Ma forse per il suo caratteraccio, forse per la sua penna al vetriolo autentico, dalla quale uscivano anche giudizi poco lusinghieri sullo stesso Neorealismo, continuava a restare totalmente isolato. Tratto da: C.E.G. "Quer pasticciaccio brutto da Via Merulana", Garzanti, Milano, 1991:


"...Quando i due agenti gli dissero: "Se so' sparati a via Merulana: ar ducentodiciannove: su le scale: ner palazzo de li pescicani...", un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. "Duecentodiciannove?" non poté a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subito in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch'era, il lui, la maschera del senso d'ufficio...
..."Jàmmoce," disse Ingravallo, e poi borbottò: "Jamecenne", e prese giù, dal piolo, il cappello. Il male infitto cavicchio si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta mencia dentro al buco: e con la mancia dell'avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatine al cappello nero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito ordine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondine, e Pompeo, detto invece lo Sgrandia.
Saliti sul PV e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico duecentodiciannove...

...Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d'una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte, e sedani: qualche esercente d'un negozio di là, col grembiule bianco: un "uomo di fatica" e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d'un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano "a Peppì!", maschietti col cerchio, un attendente saturo d'arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzioni grossi, che in quell'ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l'altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: "Sto palazzo, drento c'è più oro che monnezza." Tutt'attorno, la fascia delle ruote delle biciclette, come un derma sui generis, pareva rendere impenetrabile quella polpa collettiva..."



(Fonte www.club.it)

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