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Il cuoco e il poeta

Argomento: Letteratura

Articolo di Grazia Furferi 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 30/10/2008 16:57:41

Che cosa hanno in comune un cuoco e un poeta? Detta così la domanda spiazza e la mente cerca di trovare nell’archivio delle sue informazioni il collegamento tra un produttore di cibo ed uno di parole o meglio di rime. Il cibo! Ecco! La metafora c’è: il cuoco nutre il corpo, il poeta l’anima. Il punto d’incontro è quindi il nutrimento, quello del corpo e quello dell’anima, entrambi vitali per la salute corporale e psichica dell’uomo. Una necessità fisica connaturata, il nutrimento, che procede e si evolve di pari passo con la nascita e l’evoluzione dell’umanità e, solo quando l’uomo ha la piena sicurezza di potersi procurare, sotto la specie di cibo, quello del corpo, ecco che si fa sentire il bisogno di nutrire lo spirito che per essere soddisfatto, nella fattispecie poesia, necessita di un mediatore, il poeta, che tale nutrimento procuri e distribuisca. Chi è il poeta e qual’è il suo mestiere ci piace riferirlo così come lo vede e lo definisce Carducci nella poesia “Il Poeta” : “…Il poeta è un grande artiere, Che al mestiere Fece i muscoli d'acciaio… …Ei co 'l mantice ridesta Fiamma e festa E lavor ne la fucina: E la fiamma guizza e brilla E sfavilla E rosseggia balda audace, E poi sibila e poi rugge E poi fugge Scoppiettando da la brace... …Ne le fiamme cosí ardenti Gli elementi De l'amore e del pensiero Egli gitta, e le memorie E le glorie De' suoi padri e di sua gente. Il passato e l'avvenire A fluire…” A guardar bene, questa definizione potrebbe adattarsi perfettamente alla figura del cuoco. Come il poeta anche il cuoco ha sviluppato i muscoli del mestiere a ridestare fiamme e lavorare nella fucina-cucina dove, nella brace e nelle fiamme ardenti, egli “gitta” gli elementi dell’amore e del pensiero che creano il suo atteggiamento verso il cucinare, ma anche la memoria dei padri e della sua gente, costruttori della conoscenza gastronomica per la quale egli, artiere, tramuta i beni della terra in cibo in un “fluire” d’informazioni e sperimentazioni che dal passato, digerite e trasformate, proietta verso l’avvenire. Entrambi il cuoco ed il poeta sono dunque artieri ed entrambi hanno bisogno perché la loro arte esista della parola scritta; non avremmo mai conosciuto i versi di Omero, se non fossero stati scritti così come non avremmo mai saputo come mangiavano e preparavano il loro pasto i nostri antenati se non ci fossero stati documenti scritti a tramandarcelo. Apprendiamo, dai reperti archeologici, che cuoco fu chi per primo, in tempi neolitici, pose un pezzo di carne sulla brace e poi comprese che una prima bollitura l’avrebbe resa più tenera e digeribile. Immaginata e supposta dagli studiosi d’antropologia, questa figura di cuoco acquista identità solo nel momento in cui la sua azione è scritta e diventa oggetto di componimento in versi del poeta. E’ appunto attraverso la poesia di Omero, nell’Iliade, che abbiamo la prima descrizione di un cuoco in azione nel personaggio Achille, artefice con Patroclo e Automedonte della preparazione del pasto offerto dall’eroe all’ambasceria di Agamennone, venuta a convincerlo a partecipare alla guerra di Troia. Sappiamo dunque come si cucinava ai tempi degli eroi dai poemi omerici, e apprendiamo la cucina e la valentìa dei cuochi del periodo greco classico ed alessandrino dai versi dei poeti comici e parodici, raccolti da Ateneo di Naucrati, che ci raccontano di Cadmo, famoso cuoco al servizio del re di Sidone in Fenicia e di Soterida, cuoco di Nicomede re di Bitinia, che riuscì a cucinare delle fettine di rapa in modo che sembrassero alici. La cucina e il suo artefice, il cuoco, hanno vita - almeno nel nostro passato - nel momento in cui si pongono all’attenzione del poeta e dei suoi versi e finiscono per compenetrarsi con lui in un unico messaggio comunicativo. Nel momento storico in cui la comunicazione scritta aveva solo la struttura poetica, l’arte culinaria, per essere manifestata, dipendeva dalla poesia e dai sentimenti, più o meno benevoli, del poeta. Quando poi nasce e si afferma la prosa, ecco che il cuoco si appropria di questo strumento e nascono i trattati e i manuali di cucina, spesso autoreferenziali, che faranno la letteratura gastronomica e la fama di personaggi come Apicio: un non ben identificato cuoco della Roma imperiale che attraverso la raccolta e la pubblicazione di ricette a lui attribuite è diventato l’alfiere dei cuochi per antonomasia. Non per questo il sodalizio cuoco e poeta sparisce, lo ritroviamo intatto e concluso nel 1380 con il cuoco, padre della cucina francese, Guillaume Tirel detto Taillevent, tagliavento - non si sa se per il grande naso o per l’olfatto sopraffino di cui era dotato - che scrisse in versi un manoscritto di cucina, “le Viandier”; un’opera che ha più la stoffa del poema che quella di un ricettario. Il cuoco diventa poeta; i suoi versi, però, non sono specchio di sentimenti nel quale riflettersi ma istruzioni per allietare il gusto. Un piacere al quale i poeti sono abbastanza inclini se Oscar Wild era solito ripetere: « Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo. Tutti gli uomini sono dei mostri; non c'è altro da fare che cibarli bene: un buon cuoco fa miracoli ». A volte individuato il cuoco, il poeta ne diventa il mentore e fa del suo ambiente di lavoro, trattoria o cafè, che sia, l’habitat per le sue relazioni culturali. Così è stato anche per Montale negli anni trenta in “Quella che fu o che non fu l'antica tertulia dell’Antico Fattore” - trattoria del cuoco Giulio, in via Lambertesca a Firenze - tra gli amici pittori: Carena, Magnelli, Peyron, fondatori del circolo culturale “ La Tavolata” e istitutori di un premio di poesia del quale il poeta fu il primo vincitore nel 1931 con “La casa del doganiere”. Montale, volle celebrare la passione per la cucina di Peyron pittore-cuoco, come egli stesso amava definirsi, dedicandogli la poesia il “Gallo Cedrone” e così lo ricordava in una sua prosa: “Come cuoco toccò l’eccellenza dell'arte sua. Mediocre forchetta, non cucinava per sé ma per gli amici…”. Siamo lontani in questa considerazione del Montale sull’arte del cuoco - per quanto amico - da quella che il Parini sentì di dover rivolgere ai cuochi delle case bene del suo tempo che, nelle “ime officine”, ripetevano modelli francesi marcatori ormai nell’aspetto e nell’atteggiamento, di uno stato sociale ricco e raffinato che la Francia del Settecento aveva esportato insieme ai suoi “lumi” in tutta l’Europa. Il poeta osservava questa tipologia di cuochi, sicuramente presenti nella casa del “Giovin Signore”, con malcelato fastidio e così nella sua poesia “il Meriggio” ironizzava sui nuovi maîtres che “ In bianche spoglie affrettansi a compir la nobil opra gravi ministri: e lor sue leggi detta una gran mente del paese uscita ove Colberto e Risceliù fûr chiari. …O tu, sagace mastro di lusinghe al palato, udrai fra poco sonar le lodi tue dall’alta mensa. Chi fia che ardisca di trovar mai fallo nel tuo lavoro?...” Il cuoco, la “gran mente” della cucina, si riappropria con Varenne, Maestro Martino, Vatel Messisbugo, Scappi, Careme, Corrado, Escoffier - per ricordare alcuni dei più celebri artisti della cucina- della professionalità autorevole e del potere esclusivo d’indirizzare i gusti gastronomici di un ceto sociale privilegiato che vide il cuoco protagonista invidiato della grande cucina greca e romana; tanto che il poeta comico Demetrio fa dire ad un suo personaggio-cuoco: la mia arte è un impero affumicato. Sono io che preparo l’arbytaco a casa di Seleuco. Sono io che ho introdotto la lenticchia reale in casa di Agatocle di Sicilia.” Un’arte che, ancora una volta, sulla falsa riga del Tirel, si può trovare tradotta in versi da un cuoco-poeta come Giuseppe Fontana. Illustre cuoco milanese del novecento, Fontana è un esponente particolare della categoria cuochi-poeti in quanto, appassionato cultore della lingua milanese, la usa nella sua opera “La cusinna de Milan” e detta in versi un gustoso modo di preparare il vero risotto allo zafferano certo che “Quest chi si, l'è on risòtt che var la spesa,on risòtt pròpi faa a la milanesa!” Il cuoco si scopre dunque proprietario di una certa sensibilità espressiva che lo avvicina al poeta e prende in prestito i suoi mezzi del mestiere, i versi, per comunicare la propria opera. Altrettanto il poeta tende a calarsi nei panni del cuoco, entra nel suo ambiente di lavoro e, se non lo sostituisce nella preparazione del cibo, ne controlla e osserva l’azione e poi esprime, con la sua poetica, sapori pensati altrettanto veri e gustosi di quelli che il cuoco prepara, ne riporta le metodologie di mestiere e i mezzi necessari a riprodurre la pietanza. Così come fa Pascoli in “Il Desinare” “…Ora la madre nella teglia un muto rivolo d'olio infuse, e di vivace aglio uno spicchio vi tritò minuto. Pose la teglia su l'ardente brace, col facile olio; e, solo intenta ad esso, un poco d'ora l'esplorò sagace. L'olio cantò con murmure sommesso un acre odore vaporò per tutto. Fumavano le calde erbe da presso, nel tondo ch'ella inebbriò del flutto stridulo, aulente…” Il poeta, nel riportare l’azione del cucinare della madre, non lascia dubbi sul cibo che la donna sta preparando – delle erbe saltate in padella -, ne descrive la ricetta in versi e lo fa in modo così chiaro e preciso da renderla facilmente riproducibile. Poeta che canta il quotidiano il Pascoli, che riesce a rendere poesia i gesti più comuni della vita familiare e di essa tutto quello che ruota intorno alle figure di casa ed al loro agire; non ultimo appunto il cucinare. Resta comunque un osservatore estraneo, anche se attento a cogliere i particolari, quasi un cronista. Gozzano, invece, nei versi de “La signorina Felicita”, ha il sospetto che “…in me rivive l'anima d'un cuoco forse…”, tanta era la sensazione di piacere provata a godere “…Sotto l'immensa cappa del camino…” “…il sibilo del fuoco” e “...tra le stoviglie a vividi colori: “…godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico, d'aglio, di cedrina...”. Il poeta diventa così un cuoco virtuale ed i suoi “manicaretti” dettano emozioni che stimolano lo spirito e, con un poco d’intraprendenza immaginativa, anche il gusto. Ora, anche se spesso la comunicazione poetica soffre della mano del cuoco nel trasmettere i suoi dettati culinari e il risultato dei suoi versi abbassa l’arte della poesia e il suo godimento, se il poeta invece ci diletta di alti versi e poca applicabilità del suo dettato gastronomico, non per questo dobbiamo perdere le speranze di poter avere un giorno un cuoco padrone della lirica poetica e un poeta padrone dell’arte culinaria; o meglio ancora “l’artiere” che possa comprendere entrambe le due arti.


(Fonte: www.polimnia.it)

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