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Sciroccata

di Fortuna Della Porta
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Pubblicato il 21/09/2010 15:30:49


All’improvviso cominciava il vento del sud. Si avviava con mulinelli di polvere e foglie verso la piazza in cima della collina e lì prendeva a scompigliare la chioma dei tigli, un giornale del giorno prima e, dopo il giro panchina per panchina, sasso per sasso, ritornava, in discesa, a rotolare sull’acciottolato sempre portandosi dietro la sabbia e l’afa raccolta all’altra parte del mondo, dai deserti bollenti, sulla distesa maestosa del mare fino a che non scopriva le fessure degli infissi e allora entrava nelle case dove la gente immancabilmente si svegliava e pronunciava un lunghissimo attonito ooooh!
Tutta l’isola sembrava galleggiare.
Caterina fu la prima a sentirlo. Stirò un braccio poi un altro, mugolò nel dormiveglia, non appena la frustata dell’aria si abbatté sulla flemma dell’acqua, che subito subito fu sbattuta con forza sul bagnasciuga. Lei conosceva il morbido sciabordio dell’infrangersi e anche lo schianto dei cavalloni del mare agitato, ma il vento del sud aveva un sistema tutto suo di sbatacchiare l’onda in avanti, costringendola a perdersi in densa schiuma. Uno schiocco secco come un colpo d’arma, un ramo spezzato.
Caterina si mise a pensare che avrebbe dovuto cogliere i segnali dell’arrivo del vento ben prima di addormentarsi. Il cielo era troppo pulito, l’aria troppo ferma. Cani e gatti se ne stavano da troppo tempo nei propri ripari, all’apparenza tranquilli, ma racchiusi in una sorta di presentimento. Pur essendo di solito invasa dalla luna piena la notte destinata ad arrendersi allo scirocco, già alcune ore prima non si sentiva nell’aria un grillo o una zanzara. Men che mai un cane. Persino le lucciole all’imbrunire avevano smesso di sfavillare nei luoghi umidi. Una sorta di arrendevolezza contaminava la natura. L’inquietudine serpeggiava ovunque, ma lei aveva tenuto gli occhi chiusi.
Ci siamo, pensò ora Caterina nascondendo la testa sotto il cuscino. In quel momento un alito bruciante le mordicchiò la pelle e allora disse ad alta voce che non sarebbe stata una notte come le altre perché il vento del sud portava la follia attraverso ogni boccata di aria rovente che entrava nel sangue delle creature attraverso i polmoni.
Ebbe paura. Un formicolio si diffuse sotto le piante dei piedi e poi un tremore delle dita, una piccola scossa del cuore.
Ma lei fece tutto quello che andava fatto. Indossò la vecchia gonna della bisnonna a balze di trine e merletti, si mise uno scialle sulle spalle e scese in strada perché sarebbero passati almeno dieci anni prima di un’altra notte simile a questa e bisognava approfittarne.
E anche Aldo il pasticciere in quel momento pensava. Si stava meravigliando che la pasta delle ciambelle si attorcigliava sulle mani, invece che intorno al suo buco, e assumeva a suo piacere le forme più complicate, di fiori per lo più: a questo punto anche lui si rese conto che la saggezza quella notte aveva dimenticato la casa degli uomini.
Nessuno dei due sapeva che anche le praterie del mare, appena avvertito l’alzarsi della temperatura, avevano cominciato a svegliarsi e piante, pesci e ospiti, senza domandarsi l’ora o la stagione, decisero che era il tempo dell’amore e, poco dopo, un lungo fremito accompagnò la sferzata del vento. Gli anemoni di mare oscillarono, le alghe si piegarono dallo stesso lato. I rifugi della catena degli abissi si riempirono di vita, prima ancora che di gemiti.
In quel momento Caterina passava davanti all’entrata della panetteria, spalancata sulla fornace della notte, ballando al suono delle nacchere che schioccavano al di sopra dei suoi capelli, raccolti in un pettine con una rosa rossa e allora Aldo dimenticò il forno, anche quegli strani turgori floreali già cotti e da sfornare perché, come sta scritto non si vive di solo pane e neanche di soli dolci e cominciò a strofinarsi le dita sul tessuto del grembiule per toglierne la pasta che si asciugava. Anche lui aveva voglia di andarsene a spasso.
-Caterina, vengo con te, disse tuffandosi nelle magnifiche folate del vento che gli sollevarono i capelli come ciuffi di ginestre. Spalancò le braccia e volteggiò sulla discesa descrivendo cerchi intorno alla gonna di Caterina come un pianeta intorno alla propria stella.
Ad una ad una si accesero le luci delle case e si aprirono le finestre. Voci e musiche cominciarono a scivolare nella strada, sovrastando il fischio delle raffiche. Il bar sulla piazza sollevò la saracinesca come fosse giorno e un gruppo di studenti, libri legati ad un elastico, tirò fuori una chitarra e s’inventò un coro, perché i suoni nascono spesso dal fondo del cuore per consolarci.
Nella casa del sindaco, che era assente da alcuni giorni perché in cura ai bagni termali, in quel momento scorrazzavano due ladri. Due di passaggio, perché da quelle parti ognuno conosceva i calli sotto le zampe delle galline degli altri e avrebbe riconosciuto uno sciagurato intento a spulciare il proprio cane seduto ad uno dei tavolini del bar, perciò ogni furto di verdura o di polli poteva essere ascritto solo a un forestiero.
Questi balordi, in particolare, avevano oltrepassato il mare e i monti. Avevano aperto la porta con una forcina per capelli ed ora andavano sistemando l’argenteria con metodo in un sacco di iuta. Di tanto in tanto si asciugavano il sudore che a rivoli imperlava la fronte e correva per la schiena:
-Nottataccia d’inferno, disse il delinquente più basso.
L’altro non lo stava ascoltando, tutto preso dalla musica di un organetto che giungeva dalla riva del fiume e che gli muoveva i piedi in su e in giù. D’improvviso le braccia gli si alzarono e il pollice e il medio si scontrarono schioccando come biglie sull’asfalto.
-Gesù santo, che fai? gli chiese il collega di tante malefatte e invece anche lui saltellava intorno al tavolo e poi intorno al compagno e poi ancora sulle scale, in mezzo alla strada, verso il fiume, per nascondersi nell’allegria degli altri almeno fino alla prossima alba.
Dovunque guardassero però era così chiaro che sembrava giorno e le tegole così rosse e felici non lo erano neppure sotto la pioggia.
A quel punto, Fuffi, il gatto di Caterina, ritirò il capo dalla cenere e si affacciò sulla porta a cercare Melania dagli occhi di giada di cui distingueva il miagolio innamorato in mezzo al verso languido dei compagni che si accalcavano sulla strada. Uscì, infatti, e si trovò in un corteo di topi e lucertole, in ordine crescente, le tartarughe sulle schiene dei cani per restare al passo degli altri e Melania in terza fila lo aspettava con una pupilla tanto umida e fosforescente da sembrare un cristallo.
Nessuno riconobbe Caterina nel nuovo abbigliamento, per la verità neppure se stessa, se si fosse guardata allo specchio, nemmeno il parroco che ogni domenica era chiamato al lavaggio dei suoi peccati inesistenti.
-Caterina, disse Aldo con la voce tremante, ma forse era colpa dell’emozione.
-Aldo, si fece sfuggire Caterina rispondendo punto per punto.
La realtà è peggio di qualsiasi cosa, avrebbe, per esempio, voluto dire, oppure che lei non sapeva di possedere tanta scioltezza sotto le piante dei piedi, ma quella sera il vento rubava anche le cose non dette per portarsele a spasso per ogni dove, ossia dove servivano e c’era qualcuno così dolce da accoglierle.
Lo scirocco divenne ad un tratto tanto intenso che si appropriò del ballo, ne guidò le fluttuazioni e i salti, li congiunse in una tale simmetria che ognuno sembrava cominciare sul confine dell’altro e il pulviscolo che li avvolgeva, vetroso forse, si mise a brillare perché la luna ce la mise tutta a circondarli di un alone.
E a questo punto il vento, che quella sera si sentiva anche più possente della luna, si impuntò sulle suole delle loro scarpe tanto da sollevarle con la stessa ordinaria tranquillità con cui di solito s’intestardiva con un pezzo di carta di giornale o un sacchetto di plastica. Caterina e Aldo cominciarono a sorvolare i tetti, le strade sfiancate da milioni di passi e di pene, il fiume senza fine che trasporta il suo peso dalla cima dei monti all’ampiezza stupita del mare, il camposanto che custodisce l’eterna pace. E poi via, sempre più in alto, nella Via Lattea, verso il luogo miracoloso dove gli umani usano deporre i propri miraggi.
Sulla spiaggia il falò si era spento e nessuno pensò di riavviarlo appunto perché l’acqua della luna aveva avuto ragione di tutte le ombre e allora, un po’ provati e con la voce rauca, tutti si stesero sulla spiaggia a guardare la grande coperta dell’universo che, pur bellissima, non sempre riesce a tenerci caldi nel letto della terra. Ognuno pensò a se stesso, pensarono e trattennero il fiato per un lungo minuto, ma non fecero in tempo a diventare tristi.
Il più piccolo, un bimbo che appena aveva cominciato a sciogliere le parole, puntò un dito in alto e annunciò balbettando:
-Guardate lassù, che strana stella!
E suo padre che come gli altri avrebbe voluto piangere per sé e per il mondo intero, come piangeva quando aveva esattamente l’età di suo figlio, almeno quella volta cambiò idea:
-Che meraviglia! È una cometa!


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