Mi sembrava un miracolo aver scorto un bar in quel paesino fantasma del sud. Vi ero approdata come in apnea, passando tra usci solitari, strade stremate dal caldo e vecchi accasciati su sedie impagliate, boccheggianti nella canicola estiva. All'ingresso del locale, l'aria condizionata mi era giunta come una specie di salvezza.
Trovai posto in un tavolino ranicchiato all'angolo del bancone, incastrato tra una sala attigua e una seconda uscita, ornata di fiori finti, sbucanti da blocchi in cemento dipinti di grigio. Di fronte al tavolino, una finestra in stile liberty si affacciava su un parco di abeti e di piccoli arbusti. "E' incredibile come certi particolari dell'arredo abbiano il potere di pilotare la mente verso nuove e piacevoli visioni," pensai. Mi sentii subito a mio agio e mentre aspettavo la cameriera (una biondina intenta ad armeggiare col frigo bar), mi accorsi di un tavolino sotto la finestra. Presto, venne occupato da una donna non più giovane vestita di rosso, coi capelli tenuti da una pinza fiamminga e con scarpe nere col tacco. Mi domandai, forse con una curiosità un pò morbosa, che senso avesse, per una donna di uno sperduto e anonimo paese del sud, sostare in un bar abbigliata da danzatrice di flamenco. Oppure poteva darsi che fosse davvero una danzatrice di flamenco, approdata lì... Per far cosa? Per lo spettacolo del santo di paese, tra le baracche della frutta secca? La domanda era retorica, ma io ne avvertii la stanchezza implicita. Come se quel mondo ancestrale e remoto del sud me lo portassi addosso, nonostante vivessi ormai da anni a Milano, con la sua fatica, la fede sanguigna, che altro non è se non l'orgoglio che non vuole cedere. E un dogmatico rispetto verso le tradizioni che rallenta il passo, fino alla paralisi.
Mi ritrovai a pensare che il modo di vestire più confacente alla monotonia del posto sarebbe stato, semplicemente, ciabatte, maglietta e pantaloncini. E come se il pensiero si fosse materializzato, nello stesso istante vidi al bancone un sessant'enne pingue con un gilettino morbido sopra ai pantaloni di una tuta sportiva consunta. Ai piedi, un paio di ciabatte di plastica. Immagino la sua vita: fatica (nei campi o di manovalanza), ideologia patriarcale inossidabile, affondo in una noia ancestrale costellata di bevute al bar con gli amici, di sera, di iscrizioni a circoli militari con giocate a carte pomeridiane e di dispute sulle tasse e sulla politica.
Distolsi gli occhi dal prevedibile avventore che, nel frattempo, sentendosi osservato, mi piantò addosso gli occhi liquidi sul volto bruciato dal sole e mi 'riaffacciai' alla finestra. I raggi del sole danzavano nel vento, muovendo le cime de8gli abeti. Vidi che la donna era ancora lì, al tavolo, bevendo qualcosa, forse un'aranciata. Nel frattempo arrivò la cameriera biondina, alla quale ordinai un caffè. Dopo avermelo servito, tre bimbette piombarono nel locale come uragani, accompagnate da una donna, di certo la loro madre, gridando la parola zia con una s strisciata e un suono acuto. La cameriera si affrettò verso di loro, baciandole. Una brezza di allegria si effuse nel locale e anche la mia tensione si smussò in una spumeggiante spensieratezza, che alleggerì la gravità dei pensieri, riportandomi alla mia infanzia (nel frattempo il vecchio rubicondo uscì). Ma il mio sguardo venne ancora attratto dal tavolo occupato dalla danzatrice di flamenco. Quando uscirono le bimbe, notai che la donna se n'era andata. Il sole lanciò un lungo raggio sul suo tavolo come su un palcoscenico vuoto.
Un tizio venne a sedersi al bancone, con una maglia acrilica e lo stesso stile del precedente avventore, emettendo suoni gutturali. Pensai che dovessi bere il mio caffè che, nel frattempo, era diventato freddo, invece di scrutare la sala come una detective, insospettendo gli altri avventori e interferendo con la placida consuetudine dei loro gesti. Annoiata ma, per un'oscura ragione, per niente intenzionata ad andarmene, finii il caffè e ne approfittai per liberarmi di vecchi biglietti da visita nel portafoglio. Tra questi spuntò un un biglietto, giacente da 'hillo tempore'. Era di un ex collega della banca che mi invitava, in maniera per lui romantica, a prendere un caffè dopo l'orario di lavoro. Peccato che tutto era andato a rotoli e che, per lui, ero stata niente di più che un passatempo, una sorta di Madame Butterfly del sud da mangiare in un pomeriggio, come una mela, per poi tornare al rassicurante cibo locale. Lo avevo pensato, sognato per anni, prima che lui si accorgesse di me. Ma, ora, che importava rinvangare quei ricordi? Però, nello stesso tempo, lo stronzo mi aveva dato la possibilità di lasciare l'asettico lavoro in banca.
Mi domandai dove finiscono gli amori che finiscono. Se mai finiscono. Ma quel bar, secco e vero, come il meridione, mi spronava a lasciar andare anche quell'ultimo errore. Per cui strappai il biglietto, senza rileggerlo e lo misi nel posacenere.
Il mio soggiorno stava per finire. Tra qualche giorno sarei tonata a Milano e avrei dovuto prendere una decisione su come sopravvivere dopo l'inevitabile prosciugamento del mio conto. Dipingevo ormai da tempo, ma non ero certa che l'arte potesse divenire una professione. Se non altro, mi consolai, mi sono liberata dalla glassa dell'amore romantico. Ma perchè, allora, guardare quel biglietto strappato nel posacenere mi faceva ancora così male? Sentivo di esserci io, in quella carta e che essa fosse, in realtà, il mio pericardio distrutto, mentre il cuore bruciava ancora come carne viva, esposta. E cosa resta, in fondo, quando la membrana del cuore si strappa? Un dolore sordo, persistente. Un dolore che a8nnebbia la vista, fino a quando vivere è come galleggiare in un eterno autunno, tra ombre indistinte e slittamenti di memorie e di ricordi. Era per questo che il viaggio nel sud secco, carnale, brado, mi aveva ferita così tanto? Perchè mi aveva posta di fronte al mio dolore, senza remore? Ed io ero ormai diventata un'anima lacustre, simile a quegli insetti acquatici che nuotano nell'umido di atmosfere gotiche e surreali? Sentii il dolore al petto acuirsi, dopo quelle riflessioni, poi il solito buco al cuore. Una voraggine che non è abisso e non è nemmeno altezza. Forse, semplicemente una buca con una tomba.
Guardai i fiori alla mia destra, forse crisantemi. 'E' strano', pensai. "I fiori celebrano la vita e la morte..." ma quel pensiero sul legame profondo tra la vita e la morte mi scivolò subito dal luogo remoto della mente, ormai avvolta in vecchie spire di sanguinanti ricordi. Stavo per lasciare il bar, quando la donna rossa, come per mistero, ricomparve. Senza chiedermi il permesso sedette al tavolo. Poi, tirò verso sè la tazzina vuota del caffè. Mentre la scrutava, osservai i suoi lineamenti dolci, il naso dritto, nobile, la fronte bianca e lucida. Era bella, pensai e ne ebbi la conferma quando sollevò gli occhi grigi, che fissarono innanzi a sè, come a voler catturare qualcosa nello spazio.
" Sei ricca, figlia mia, molto e hai, vedo, molti figli" disse, tornando a scrutare per un attimo la tazzina.
Stavo per risponderle che non avevo figli e che stavo per andare in bancarotta, ma decisi di attendere il resto del 'responso' da colei che avevo scambiato per una danzatrice di flamenco, ma che si rivelava ora, invece, un'indovina..
" E i tuoi figli troveranno la loro strada, perchè sei una donna attenta. E generosa. Tu hai il raro dono di lasciarti coinvolgere fino in fondo".
" Già" mormorai, ma quell'atmosfera mi piaceva. Lei mi piaceva, per cui continuai ad ascoltarla.
" I tuoi figli sono i tuoi molti talenti. Ma tu cosa vuoi, figlia mia, dalla vita?" disse a un tratto, guardandomi coi suoi occhi magnetici.
" Credo di non volere nient'altro rispetto a ciò 8che ho. Magari solo del denaro per passare la vita a girovagare tra un bar e l'altro, per incontrare persone come... te" dissi, stupendomi di quella sincerità.
" Allora fallo, fà ciò che ami e datti fino in fondo, perchè l'intenzione appartiene agli uomini, ma è al cielo che spetta la fioritura".
La guardai ancora e la vidi ancora più bella.
" Come ti chiami?" chiesi.
" Marija. Sono Croata".
La invitai a mangiare e a bere qualcosa, ma lei mi disse che l'avevo già nutrita della mia attenzione e che questo basava.
8" Ma non è finita" aggiunse.
Prese così un accendino dalla sua borsa e bruciò il bigliettino di Mike, che giaceva nel posacenere.
" Il fuoco trasforma tutto, basta solo avere fede".
" In cosa?", chiesi.
" Nella vita. E nel fuoco. E tu ne hai troppo, figlia mia, per perderti così. Tu hai dentro il fuoco del sud" disse e fece una risata aperta, come se avesse detto qualcosa di lapalissiano, che a me sfuggiva.
Osservai le fiamme sollevarsi dal bigliettino e danzare per poco, per poi cadere, disegnando la sagoma di un uccello. Forse di un'araba fenice.
Quando sollevai lo sguardo dal posacenere, Marija non c'era più.
Guardai verso il suo tavolo. Sul davanzale della finestra liberty un lilium splendeva, con un grande fiore rosso, portato chissà da dove. Forse dal fuoco del sud.
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