«Dateci le lacrime delle cose e risparmiateci le lacrime vostre»: questa provocatoria riscrittura che Francesco De Sanctis fece del celebre adagio virgiliano avrebbe potuto forse aggiungere un ulteriore, adeguato esergo alla cruda, straziante e illacrimata cronaca di una morte annunciata che è il romanzo Ricci di Linnio Accorroni. Commentata da due voci, osservata da due angolazioni diverse e complementari, quella di un padre condannato da un cancro al colon e quella del figlio che lo assiste e lo accompagna impotente, passo dopo passo, verso la fine, questa cronaca si dipana in un diario di giornate in apparenza sempre e disperatamente uguali, tra controlli e ricoveri ospedalieri, recrudescenze reali e illusorie remissioni del male, attraverso il filo conduttore, volutamente esibito in tutte le sue più nauseanti e respingenti fenomenologie e varianti linguistiche: la defecazione incontenibile, patologicamente multiforme del vecchio malato, il Leit Motiv coprologico assurto a emblema della dissoluzione della carne e dello spirito (se mai esso esista), ostentato ad esorcizzare qualsiasi tentazione di lettura pietistica o edificante del testo. Eppure, nonostante questo, mai una materia così sgradevole ha catalizzato di più l’espressione della più intima e nuda umanità dei coprotagonisti, le due personae del padre e del figlio che, progressivamente e insensibilmente, sembrano convergere in un solo essere: nel senso che la prima (quella paterna) sembra parlare sempre più attraverso la seconda, trasmigrare in essa offrendosi così l’unica forma possibile di sopravvivenza e consegnandole nel contempo la sua unica, definitiva e autentica eredità. Struggenti ed altrettanto sobri nella loro funzione di simbolico contrappunto all’umanissima crudeltà della storia sono i cosiddetti sinantropismi e i crimini di pace: rubrichette che intermezzano il diario sotto forma di descrizioni di vita e di morte di animali che accompagnano e rispecchiano quelle degli odierni umani patendone, per di più, molto spesso la indifferente, quasi ‘naturale’ violenza: si veda fra tutti quella – eponima del libro - della morte di un riccio investito da un’auto ai bordi di una strada: «Un porcospino enorme, con la testa schiacciata e completamente staccata dal corpo. Peccato: ce l’aveva quasi fatta [...] Gli aculei gialli e neri, tanto fieri e ostili quando li sbandierava sul dorso, adesso sparsi a terra sono poca cosa, inerti e sparpagliati come inutili bacchette dello shangai abbandonate da un bambino distratto.»