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Una come lei

Poesia

Anne Sexton
Via del Vento Edizioni

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 18/04/2014 12:00:00

 

Della Sexton (1928-1974) nella raffinata ed essenziale veste delle sue edizioni la Via del vento presenta qui, in una piccola ma esemplificativa scelta, alcuni tra i miglior testi. Scomoda per la nudità e dunque verità delle confessioni, sempre sovvertitrice per una modernità di scrittura nella dolorosa visione di un sé cercato e non amato- eppure celebrato, vezzeggiato e accarezzato - Anne è un’autrice che ci reclama e imbarazza ancora adesso, ad ogni sua lettura, tra disorientamenti e lacerazioni di donna investendo tra l’altro il suo discorso (nello sgomento e nello smarrimento delle aspirazioni) anche il senso di una società e di una cultura (quella americana della seconda metà del secolo scorso) a piena velocità lanciata senza interrogazioni né dubbi entro un benessere asettico, in serie, tra le maglie di ruoli - e dolori se vogliamo - ben strettamente definiti. Inquietudini e dolori da subito presenti in lei a cui evidentemente non bastarono i privilegi della famiglia benestante da cui proveniva (Massachusetts) se è vero che fin dall’adolescenza cercò in qualche modo di emanciparsene preferendo al perbenismo ingombrante e senza respiro dei genitori (dietro al quale continuavano a celarsi le nevrosi di una provincia americana disturbata qui espressa dall’alcolismo del padre e dalla repressa aspirazione letteraria della madre - ma soprattutto del presunto abuso sessuale da parte loro) la fuga e l’immediato matrimonio con Alfred Sexton dal quale avrà due figlie (e da cui divorzierà nel 1973, l’anno prima della morte). Da questo momento, dalla depressione che insorge alla nascita della seconda al tentativo di suicidio, dalla scoperta della scrittura nel percorso di terapia psicanalitica al successo e a una vita rovesciata fuori dai canoni di una normale vita borghese è tutto una lunga corsa, di nuova sofferenza ma anche di sorprendente creatività, in cerca di una riappacificazione con se stessa, soprattutto, con esiti poetici intensissimi per la natura dirompente di un verso sempre spinto sul bordo di un’esistenza e di un mondo (il nostro) tra devastazioni di senso e reclami di tormentate (e seppellite) identità. Identità sì, in lei comunque in qualche modo cercata (e per certi versi forse ritrovata non foss’altro per il sentiero di ricerca stessa) in quella terra di misericordia e lingua d’annuncio, di divenire ed essere già liberato della poesia appreso proprio nell’affidamento pieno delle proprie esperienze personali, e dei propri traumi ad una parola sapientemente fluida per una coscienza senza più occlusioni nella confessione di un sé risalente dal mare immenso delle proprie pulsioni. E alla poesia “confessionale” ( termine usato in quegli anni a definire in senso spregiativo una versificazione sentita come sciatta ed esclusivamente riferita al proprio vissuto) infatti fu ascritta, con Robert Lowell (considerato il capofila) e Silvia Plath in testa. Di autentico c’è piuttosto, ed è esemplificativo in tal senso, in questi autori l’uso della parola come abile strumento per “parlare di tutte le cose inconfessabili a cui prima di allora non era stata riconosciuta dignità poetica” (come la De Calmeri nella bella postfazione ricorda) ed in cui Anne “fu tra le primissime a cercare di esprimere un io lirico consapevolmente femminile che parla di amore, di morte, di Dio” (ancora la De Calmeri) portando moltissime donne a riconoscervi e a riflettere in profondità sulla natura dei propri disagi, delle proprie reclusioni (a partire, certo, dalla visione stessa che allora vigeva del femminile). Così la ricchezza delle interrogazioni, partite come detto da investigazioni su se stessa, la portarono a focalizzare l’attenzione sia naturalmente su questioni di carattere sociale ma ancora più naturalmente a dilatarsi sul tema del sacro abbracciato con forza e con disperante amore negli ultimi anni (“Dio è nella tua macchina da scrivere” le disse al proposito un sacerdote a lei caro). Percorso questo che ai nostri occhi, allora, non può non apparire sotto una creaturale e trascendente luce d’incontro tra un essere rigettato un po’ farisaicamente dal proprio stesso mondo e il suo Fattore come meravigliosamente espresso qui ne “In compagnia degli angeli” , in cui nella rivelazione del sogno sceglie di seguirli, lasciandosi condurre fino alla spoliazione completa di sé, senza nemmeno essere più donna, almeno non più “di quanto Cristo sia un uomo”. Purtroppo questo non le ha impedito poi di togliersi la vita a soli 46 anni, vittima di una depressione ed anche di una solitudine dalla quale (aldilà del turbine delle frequentazioni) probabilmente non fu mai abbandonata. In questa scelta di testi è dunque possibile darsi l’idea puntuale di un’autrice a suo modo capitale, anche per i risvolti non solo letterari, della poesia del Novecento. Scelta, dicevamo, esatta anche per la scansione dei testi a seguire in modo efficace l’arco intero della poetica della Sexton, da “Una come lei” (testo paradigmatico del suo discorso e della sua figura nel ritratto di una donna in cui come in un gioco di specchi rivede se stessa: una donna nel cui addomesticamento di madre e di moglie perfetta in realtà sovente si cela il rischio dell’azzeramento) ai reclami intensi di una sensualità piena e liberata sul filo di una mortalità a tratti invalidante (vedi tra le altre “Ora”: ”Siamo qui su una zattera, esiliati dalla polvere”) fino alle ultime in cui come accennato il cuore e lo sguardo sono rivolti a un Dio d’amore in un legame anche se esile comunque salvifico nella certezza di una misericordia in cui “Lui ti cadrà nelle mani/con la facilità con cui un tempo dieci centesimi/ ti procuravano una coca”. (“Fil di ferro”), seppure nella sofferta consapevolezza però di una rinascita che deve partire anche dal coraggio di saper affrontare il proprio malessere altrimenti. monchi, venendo a mancare della nostra parte essenziale, saremmo un “Dio/ senza Gesù a parlare per me”, per noi: un “Gesù/ senza la prova della Croce”.

 


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