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Mancanze

Poesia

Alessandro Fo
Einaudi

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 19/09/2014 12:00:00

 

Angeli, musica e piccole cose

 

L’ultimo libro di Alessandro Fo Mancanze (edito nel 2014 da Giulio Einaudi) si divide in tre sezioni, la prima delle quali, “Libro d’oro”, aveva fatto la sua apparizione, ma solo in parte, in Corpuscolo (2004). Nell’ultima silloge i testi sono in tutto 19, meno, comunque di quelli che, nel frattempo l’autore aveva aggiunto, avendo preferito “per varie ragioni” escluderne alcuni. È, d’altra parte, questo incessante mettere e levare materiale poetico da una silloge all’altra un procedimento tipico di Fo, che rivela una sempre più selettiva analisi nei confronti della propria produzione, così che, come scrive più volte Davide Puccini in un lungo saggio -La parola del testo- pubblicato recentemente sulla “Rivista Internazionale di Letteratura Italiana e Comparata” (Fabrizio Serra Editore, Roma), essa finisce con l’assumere le caratteristiche di un work in progress. Anche l’Appunto che l’accompagnava e che ora si può leggere in Mancanze è stato in qualche parte modificato; però, per la comprensione del disegno generale della sezione, è molto più utile leggere quello inserito in Corpuscolo, in cui Fo fa riferimento ad un lavoro di dilatazione dei testi dell’ Ave Maria al Padre Nostro e al Gloria. Immutata resta, invece, la dichiarazione di poetica: “Il tentativo era accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà, nella persuasione che, generalmente parlando, specificità e forse compito della poesia sia precisamente cogliere e svelare, nella più favorevole posa, momenti alti, significativi e (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone”.

Questa prima sezione si apre con il testo al Figlio, i cui versi finali “Nulla è mai davvero come sembra,/ma almeno sette volte più complesso” ribadiscono la preferenza accordata a questo numero (che più di una volta ritorna nei testi) dall’autore, come dichiara in Anagrafe, un testo presente in altra raccolta: “Ho sempre amato il sette”. La sua comparsa trova qui una perfetta coincidenza con il numero delle stelle dell’Orsa Maggiore, visibile dal terrazzo vicinissimo al cielo,

e con quello del piano del testo successivo che sei nei cieli, da cui il poeta si affaccia per consolare un bambino in pianto (ma tornerò, tra breve, su questo testo). Questo numero, d’altra parte, si è da sempre ammantato di sacralità sia nelle antiche culture e religioni, sia nella liturgia cattolica: è sufficiente pensare al Libro dei sette sigilli (non deve nemmeno sfuggire l’accostamento fra i due titoli), disserrati i quali, di visione in visione, si giungerà a quella culminante che disvelerà il sacro segreto di Dio.

Dunque, la realtà delle cose, così come appare ai sensi, non coincide con la loro verità, e tutto è “almeno sette volte più complesso”, pur se una tale complessità e segretezza reclami imperiosamente un’interpretazione più attenta di ciò che si offre alla conoscenza. L’autore ammette, infatti, che per la ricerca di Dio avrebbe potuto avviare, come fa Agostino, il metodo ascensionale neoplatonico applicato, consciamente o meno, nel famoso episodio dell’ “estasi di Ostia” con la madre Monica nel nono libro delle Confessioni; e, come aggiunge nei ragguagli: “il caso vuole che il nostro appartamento fosse allora immediatamente a ridosso del cielo, all’ultimo piano di uno stabile in Via Dell’Orsa Maggiore, a Roma, “non lontano da Ostia”.

Molto interessante, per i diversi livelli interpretativi che sollecita, è il secondo testo: che sei nei cieli: l’episodio narrato è semplice. Gli attori sono due: un bimbo rimasto chiuso fuori, e un inquilino del palazzo (lo stesso Fo) che cerca di consolarne il pianto, promettendo di aiutarlo. La lettura letterale è ovvia. Ma essa si fa più complessa, se in quell’inquilino del settimo piano e in quel bambino, laggiù, che “implora il padre”, cogliamo la metafora del rapporto fra l’uomo e Dio: quest’ultimo cerca di manifestarsi alla sua creatura angosciata, che sembra non vederLo e non sentirLo, restando preda il bimbo della sua solitudine, di impotenza Dio. Ma a quest’ultima si potrebbe aggiungere un’altra lettura e vedere in quell’inquilino che abita al settimo piano e in quel bimbo accorato che sta dietro il cancello chiuso lo stesso Fo (tant’è che il bimbo si chiama come lui, Alessandro), che, dunque, si autorappresenta, sdoppiandosi nell’adulto che ormai è dal punto di vista biologico-anagrafico e nel suo “io” più interiore ancora bambino in cerca di un Dio che non trova, anzi, che rinnega “pure/ la pura verità” di averne udito la voce.

I due testi successivi: Il prato metafisico e come in cielo (parla Mario Ciani), che occupano le pagine 10 e 11 sembrano mettere anche visivamente a confronto le creature visibili e quelle invisibili, oscillando, tuttavia, le prime “fra le nebbie del dubbio”, mentre le seconde, pur non concrete, sfatte già nel piccolo cimitero vigilato dalla vicina Basilica dell’Osservanza,si fanno

memoria che può dire: “Simone è qui../ Poi ci sono altri giovani, / Gaia, Claudia, Francesca…”

La seconda sottosezione, ruotando sul concetto del tempo che trascorre inesorabilmente

(Stagioni) fino a condurre ogni creatura vivente alla morte (La visita in ritardo) rappresenta anche un veloce excursus autobiografico, riscattati l’una e l’altro dalle “scarpe di Emma” (Ripristinando indumenti invernali). Le scarpe di Emma è il titolo di una plaquette pubblicata nel 1996: essa, dunque è richiamata (e questa dei richiami da una silloge all’altra costituisce un altro dei procedimenti ricorrenti di cui fa uso Fo nell’organizzare le sue pubblicazioni, come a volere costruire un’architettura globale intorno a degli assi portanti o temi-chiave); le scarpe di Emma, come scrive Davide Puccini nel saggio già citato: “contengono al loro interno il celebre carpe diem di Orazio.” Il senso metaforico è quello già espresso nella plaquette: le scarpe, infatti, rappresentano la poesia “incaricata di vincere la lotta contro il tempo, ma qui come altrove, rappresentata da piccoli oggetti di uso quotidiano, per la differenza di statura tra il poeta moderno e il grande classico, dovrà accontentarsi di salvare l’attimo che fugge, realizzando in proprio il carpe diem, passato da un’aurea regola di vita ad una modesta concezione poetica”.

In tutte e due i componimenti la stagione da sconfiggere è l’inverno (simbolo del male e del dolore); evocato nella prima versione dalle pozzanghere, nella seconda da pioggia, tramontana e gelo; però, se nella prima versione veniva citato il “monumento perenne” anch’esso di oraziana memoria, indicante l’eternità della poesia, qui Fo non indulge a nessun legame fra l’una e l’altra, e invece fa entrare in scena Dio che “invita lungo il lucido sentiero / l’angelo che consola”, dove allora si stabilisce un nuovo legame tra l’atto della scrittura e l’Assoluto, per cui la poesia diventa essa stessa “àngelos”, cioè colei che annunzia il divino, anticipando la sezione terza Figure d’Angeli, in cui anche il testo iniziale (Angelo del Botticelli) allude al nesso arte-angelicità. L’idea della sacralità della scrittura ritorna in benedetto il frutto: nella prima strofa, l’autore rappresenta la scrittura come pensiero che si fa inchiostro sulla carta, veicolando “idee, conforto e affetto”, nella seconda, facendo il percorso contrario, risale dalla scrittura lasciata su un foglio (dove una lei distante gli sta scrivendo, come immagina) al “suo pensiero”, che definisce “lo spicchio di un rapporto, di un progetto,/nientedimeno che un’idea di Dio”. Seguono i testi dedicati a Maria, quelli che sono rimasti dopo una selezione severa, come avverte il “Reliqua desiderantur” che li suggella. Infatti si tratta di soli nove testi. Il numero non è frutto del caso (niente lo è nelle opere di Fo): anche il nove, infatti, come il già ricordato sette, è un numero teologico: nove sono i cori degli angeli, nove le sfere dell’immagine cosmica medievale. E soprattutto il nove richiama alla mente la pratica devozionale della novena, recitata a Maria.

Il primo di questi testi, Ave Maria, ricorda la statuina di legno della Madonna collocata nel reparto Ortopedia dell’ospedale Sant’Eugenio, opera di un “approssimativo” ingegno artigianale di un “devoto cultore”. Essa, con le sue mani “grandi e tozze”, “un po’ scrostate,/tese e aperte, riparo/dagli assalti del male”, rappresenta l’impossibilità da parte dell’uomo di raffigurarsi il sacro, essendo destinato per “mancanza” di verità e fantasia ad un approccio approssimativo, sebbene funzionale alla salvaguardia della “simbiosi di spirito e corpo”, grazie alla quale, attraverso i sensi fisici, si possono comunque avvertire epifanie di chiara bellezza inverante (anche se solo parzialmente) benedetta dallo Spirito. Così come la bellezza di Maria “dev’essersi/ se non tutta/ spartita almeno in parte” fra le donne “che sono nel mondo”, sebbene quella delle donne terrene sappia di precarietà, tanto da spingere Fo ad accampare una questione squisitamente teologica: se cioè le creature “si possano ammirare / con innocenza: senza / colpevolezza” e conclude con una domanda rivolta a San Paolo: “si può amare / il Creatore nelle sue creature?”: “Adesso vediamo – scrive l’apostolo – come in uno specchio, in modo oscuro: ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto” (Lettera ai Corinzi, 13,1). La questione sta, infatti, nel rapporto tra Perfezione e imperfezione, tra Eternità e caducità, tra Verità ed apparenza; e tuttavia la risposta si suppone affermativa, visto che poi tante donne concrete, e talvolta in parte o perfino fortemente imperfette, assurgono a figure d’angeli nella terza ed ultima sezione.

Intanto, fra la prima e la terza, si colloca Il tono blu. Si tratta di 17 componimenti distribuiti in quattro gruppi più o meno scarni (da uno a cinque testi) dedicati all’amato Chopin, il grande compositore polacco, che, come il pittore Eugène Delacroix, tendeva alla ricerca di quel tono blu, come “suo respiro naturale” e che si approssima a quell’idea di grazia che “si dispiega nel rallentatore” (e mi si perdoni l’avere fuso insieme alcuni versi del primo testo “Grazia (secondo Gide)” e altri di “Diciassette”). Molto probabilmente il numero diciassette è stato scelto in omaggio alla “melodia nel la bemolle/minore del preludio 17”, la più amata da Fo, appunto per quella lentezza di cui si diceva, che la caratterizza.

Questa sezione, forse più delle altre, evidenzia sia “la coltissima scrittura in versi di Fo”, quasi alessandrina, come scrive il critico Massimo Natale (Il Manifesto, 22/6/2014), sia quel tema dell’Assenza che percorre tutta la silloge e che variamente si configura: imperfezione, desiderio, manchevolezza, brevità e dissolvimento di epifanie, e perfino, quella soppressione di testi, in questa come nelle raccolte precedenti, in quanto giudicati mancanti di qualcosa.

Il tono blu è tutto costruito intorno ad una serie di citazioni (dal necrologio apparso poco dopo la morte del compositore il 21 ottobre del 1849; dalla biografia di Jarosław Iwaskiewicz; da Ripellino, da Gide, Virgilio, da “La vita di Chopin attraverso le lettere” a cura di V. Rossella e così via), che però non appesantiscono i testi che lo compongono, ma piuttosto sembrano avere il compito di fare convergere le varie voci, allo scopo di tracciare parallelismi e manovrare agevolmente il filo del tempo, arretrandolo o avanzandolo nel giro di pochi versi, come quando i molti ritratti di Chopin permettono a Fo di paragonarne il volto ai personaggi più disparati: Mozart, Del Piero, Leopardi, Carrai, espediente che serve probabilmente a disegnare l’indefinibilità dell’essenza dell’arte musicale. Il tema della mancanza domina il testo Congedi (Gide in Italia), in cui si racconta l’incontro di Gide con l’Abate di Montecassino, che, seduto in poltrona, “legge una partitura / eseguendola nella mente”; così che “la musica più pura” di Chopin, diventata silenzio, può infine definirsi “una gioia perfetta”. Infatti, solo coincidendo con un’astrazione del pensiero, essa è diventata qualcosa di davvero perfetto, non avendo più bisogno di alcuno strumento materico per esprimersi.

La terza ed ultima sezione del libro ha titolo Figure d’angeli: anche in essa Fo raccoglie testi già proposti in varie sedi, ma non senza averne scartati alcuni, non “in virtù di una poetica del frammento; ma per una sorta di variante della discrezione, combinata con la sensazione che a volte, per amore di serie, chi si cimenta con il comporre poesie rischi di farsi trascinare dai suoi testi e non trattarli con la dovuta severità” (da Un appunto).

L’idea muove da La vita nova di Dante, là dove si legge (34,3): “Onde, partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli” (brano che fa da exergo alla sezione).Tuttavia, la figura stilnovistica della donna-angelo passa attraverso la lezione di Montale, specie de La bufera, che l’attualizza proiettandola sullo sfondo della guerra, quasi fermandola su una sorta di limen fra tragedia storica e metafisica, dove tuttavia ella resta inattingibile. Ma le suggestioni, che concorrono alla composizione di questa sezione, sono molteplici: La Venere del Botticelli come la piccola Torun, protagonista di un celebre raccolta poetica di Ekner, Ripellino come Sant’Agostino, Petrarca come il regista Wim Wenders. Né trascurerei le figure femminili disegnate da Giorgio Barberi Squarotti, a cominciare da “Le vane nevi”, soprattutto per l’attenzione ai dettagli dell’abbigliamento (i jeans, le magliette sopra l’ombelico, i piercing, i tatuaggi) e delle acconciature, come a certi particolari fisici -che le rendono così riconoscibili e diverse l’una dall’altra- e all’ambiente in cui si muovono (Fo aggiunge, rispetto a Squarotti, una particolare predilezione per gli elementi dell’arredo degli spazi interni). Tuttavia, c’è da dire che le ragazze di Squarotti, sempre giovanissime e fisicamente perfette, come sospese fra “il gioco amabile di verità sfrontata e di modestia”, rappresentano, più che messaggere celesti, l’impeto amoroso e spavaldo della giovinezza; Fo, invece, scrive in Appunto di volere fissare nei suoi versi: “schegge d’incontri con persone di diversa età, natura e condizione, che in un qualche loro gesto o atteggiamento schiudono un raggio di sostanza angelica”. Così, fra gli angeli di Fo, troviamo anche un passerotto ed un palloncino con la forma di un coniglio blu, e alcuni uomini, come Angelo Ciriaco, un prete indiano, dalla voce naturalmente melodiosa, “umile e mesto”; Angelo Leone, che “cammina molto, e lungo i passi prega”; e soprattutto il Padre già quasi angelo, testo fra i più intensi della sezione, dove, come in molti altri, il dialogo fatto di banali quanto affettuose battute e di ricordi e minimi progetti (purtroppo non destinati a realizzarsi) sottolineano la dolorosità dell’evento prossimo della morte del padre. Fo, infatti, cosi scrive sobriamente nei ragguagli: “Non siamo più ritornati insieme ai mondiali di pallavolo”. Un altro testo tenero ed intenso è quello che ha titolo Angeli su scala, in cui gli angeli sono due (“due capolavori del Creatore”): una ragazza down “preziosa luminescenza bianca con foulard”, poco prima scambiata per una sposa; e un’altra “di occhi bruni acuti e luminosi/ vestita in scuro” (il contrasto cromatico evidenzia maggiormente le loro singolarità).

Lei, la ragazza down, appare come mossa da un curioso quanto vago desiderio di misurare tutto lo spazio intorno: “la vidi scendere le scale”, “si aggirava flessuosa nella sera”, “si dispose accanto a una bellezza giovanile”, “riprese il giro”, “uscì di scena, risalendo le scale”, tracciando, così come il moto incessante degli angeli lungo la scala di Giacobbe a cui va la memoria, quel dialogo fra alto e basso, di cui ogni angelo ha il compito di farsi mediatore.

Un altro incantevole testo è Diffrazioni: angelo bambina, (che ricorda un passo delle memorieproustiane, in cui però domina il biancore dei biancospini)dove le diffrazioni si moltiplicano e si intrecciano mirabilmente come in un gioco prezioso di specchi: così il bianco del giglio che giace nel grembo di un dipinto di Santa Caterina in una chiesetta solitaria, come uscendo dall’illusione pittorica, si fa reale moltiplicandosi in un mazzetto di gigli posto sull’altare che sembrano riverberare la loro luce sulla pelle bianca di una bambina, creando una sorta di crescendo luminoso; intanto che un’altra diffrazione si somma alla prima, quando la voce della madre che chiama la piccola figlia con lo stesso nome della Santa dà luogo ad una sovrapposizione di purezza su purezza, se si considera il significato del nome che vuol dire “la pura”, e la considerazione che quella bimba porta con la sua età il bene dell’innocenza. E così, in questo gioco elegante di rimandi visivi e sonori, la poesia si snoda tra concretezza e visione; e realtà e sovra-realtà fluiscono l’una nell’altra senza soluzione di continuità.

Ora, al di là di quest’analisi per forza sommaria delle tre sezioni di Mancanze, è doveroso sottolineare quei nessi tematici che le collegano e fanno del libro un discorso unitario. Essi sono il dolore e la pietas, il mistero della vita e della morte, il dialogo difficile ma ineludibile fra umano e divino, la bellezza femminile (e direi la bellezza in genere) e la morte; l’atto della scrittura, Dio e il tempo, che, poi, sono quelli attorno cui ruota da sempre la poesia di Alessandro Fo. Non manca in questa raccolta la presenza anche delle creature animali: passeri, chiocciole, cani, formiche, pecorelle, un pettirosso, piante e fiori (cioè, il “brulichio infinito delle vite”), tutto ciò che vive per molto o per poco, e che è segno di un progetto spesso incomprensibile nella sua totalità e soprattutto dell’ “immateriale/dentro il materiale”, complesso e variegato e, tuttavia, offerto ai sensi dell’uomo per un salto verso la conoscenza della Verità, ma anche come possibilità di stabilire particolari relazioni affettive con i fratelli più piccoli. Mancanze, al pari delle altre sillogi, s’avvale di una capacità scrittoria raffinatissima e tuttavia accessibile, classica ed insieme aperta ad un garbato sperimentalismo, tutta giocata su un’attenta ed equilibrata combinazione di sermo cotidianus e di citazioni colte.

 


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