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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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L’amore non c’entra?

Argomento: Letteratura

di Fabrizio Oddi
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Pubblicato il 10/05/2015 14:20:08

Questo è il mio intervento in occasione della presentazione romana del libro, svoltasi, in presenza dell'autore, presso la libreria "Marcovaldo" di Roma il giorno 8 maggio 2015.

 

Luca Martini   L’amore non c’entra

 

Ringrazio Luca Martini di avermi chiamato a presentare il suo bel libro di racconti, dal titolo L’amore non c’entra, testo che peraltro non rappresenta l’esordio dell’autore ma giunge dopo altre sue opere.

 

Dopo alcune raccolte di poesie, l’autore ha pubblicato alcuni testi su riviste letterarie (quali “Toilet”, “Fernandel”, “Il paradiso degli orchi”, “Catrame letterario”), vincendo con il racconto inedito Un comunista  il “Premio Arturo Loria 2008”, organizzato nell'ambito del “Festival del racconto” di Carpi (Modena). Il racconto ha dato il titolo all’antologia di racconti finalisti Un comunista ed altri racconti, pubblicata dalla casa editrice “Marcos y Marcos” di Milano.

Nel mese di giugno del 2009 è uscita la sua prima raccolta di racconti, La geometria degli inganni (a cura della casa editrice Voras, con prefazione di Gianluca Morozzi), raccolta finalista del Premio editoria di Qualità), cui ha fatto seguito, nel 2010, sempre per l’editore Voras, il suo primo romanzo Le mani in faccia. Entrambi i libri sono stati “libro del giorno” alla trasmissione di Radio Tre Rai “Fahrenheit”. Nel 2011 ha partecipato, quale scrittore, al progetto “Sorprese Letterarie”, promosso dalla scuola Holden insieme a Tre Marie, che lo ha portato a scrivere un racconto lungo rilegato sotto forma di libro, inserito nelle uova di Pasqua, insieme ad altri sei scrittori, per una tiratura complessiva di 110.000 copie. A settembre del 2012 è uscito il libro a quattro mani L'amore spaccato – quattro storie di ordinario abbandono, scritto insieme a Carla Sermasi Calvi e pubblicato dall’editore Incontri.

Nel giugno 2014 è uscito un altro romanzo Il tuo cuore è una scopa, per l’Editore Antonio Tombolini, nella collana Officina Marziani.

 

Penso che il miglior modo per iniziare la presentazione del bel libro di Luca Martini, prima di formulare qualche osservazione in merito, è leggerne qualche brano.

 

E allora mi sembra molto significativo scegliere proprio uno dei racconti centrali del libro, l’8° dei 18 della raccolta, che reca lo stesso titolo dell’opera: L’amore non c’entra (pagg. 98-112; il 3° racconto in lunghezza, a pari merito con Le mani sul volante, parimenti di 15 pagg.; dopo: Nemici: 22 pagg.; Formiche, diciottoanni e Il cuscino, 17 pagg.).

 

L’amore non c’entra

 

Ho le palpebre pesanti e appiccicose.

Mi sento come se fossi stata presa a calci, buttata fuori da qualcosa di bello, come un bagno caldo o una sauna profumata. Lanciata da qualche parte, forse nella neve, o in qualcosa di fastidioso e inospitale.

Una gran botta, insomma.

Le narici mi pizzicano.

Sento l’odore di bucato delle lenzuola mentre un sorriso mi invade piano il viso, superando le piccole rughe d’espressione che da qualche tempo sono comparse.

Apro un occhio, sono ancora assonnata, e nella penombra della mia camera allungo la mano.

Trovo le grinze umide di una federa fuori posto.

Porto le dita alla gola e premo forte.

Il cuore traballa, come sempre, ma il suo ritmo è calato, adesso, e non ho più la sensazione che qualcosa mi scoppi nel petto.

Sono sola nel letto, il cuscino è finito dall’altra parte e le lenzuola sono tutte ammonticchiate in mezzo, come due buste accartocciate. Sento l’umido con i polpastrelli, sono chiazze di lotta, tatuaggi di qualcosa che viene, passa, non si ferma. Non credo di essermi addormentata, ho soltanto chiuso gli occhi pochi minuti. Ho la sensazione di aver sognato, però. Non ricordo cosa, deve esser stata roba di pochi minuti, ma sono certa di aver sognato qualcosa.

Mi sforzo per ricordare, ma non c’è niente da fare, ed è meglio così, perché sono mesi che non sogno niente di buono.

Vedo la luce che filtra da sotto la porta.

Lui è in bagno, sento la sua voce stonata canticchiare una canzone che ho ascoltato qualche volta per radio. Riesco ad attraversare il legno bianco della porta con gli occhi, a vedere il suo profilo, il rasoio che batte sul lavandino, i peli neri che scorrono sull’acqua, che cadono nello scarico, che si fermano sullo smalto bianco insieme al sapone.

Quando Daniele esce, lascia le impronte dei piedi bagnati sul parquet.

Anni fa l’avrei sbranato, ma oggi non mi importa niente.

Si è fatto la doccia e profuma di deodorante al muschio bianco, l’odore che fanno tutti, tutti quelli che non hanno personalità.

Quando viene da me si porta sempre la sua borsa da palestra.

Deve essere quella la scusa, e allo stesso tempo torna a casa con i suoi profumi sulla pelle.

Un piano perfetto: pulito, rasato e profumato.

Io resto nel letto, fingo di dormire e mi metto ad ascoltare. Lui si avvicina alla cassettiera e si sistema i capelli bagnati all’indietro guardandosi nello specchio.

Si piace da morire, questo è sicuro.

È una cosa che mi ha sempre irritato di lui, questa sua insensata attrazione verso il proprio aspetto.

Continua a mimare con la bocca una canzone. Non canta ma accompagna le passate della spazzola con un suono gutturale appena accennato.

«Te ne vai?»

Ha un sussulto, pensava che dormissi. Mi guarda di nascosto, bloccandosi con la mano sul ciuffo scuro, indurito dal gel.

«Ho un appuntamento di lavoro.»

«Non sapevo avessi un lavoro.»

«Appunto, ancora non ce l’ho. È un’offerta che mi hanno fatto.»

«Di cosa si tratta?»

Riprende a pettinarsi, sposta lo sguardo dal mio seno alla sua riga dei capelli, e si fa serio.

«Non mi va di parlarne, è ancora presto. Forse vado a Parigi.»

«Inviato?»

«Dalla Francia, per un canale satellitare.»

«Complimenti.»

Da quando ci siamo separati ha cominciato a viaggiare per il mondo.

Quando stava con me andava a lavorare in autobus e       non faceva mai niente di interessante. Era redattore di nera al Carlino e non si sarebbe mai mosso per nulla al mondo, nemmeno per un lavoro da reporter per «La Stampa» di Torino che gli avevano proposto.

Forse se avesse accettato ora staremmo ancora insieme.

«È presto per i complimenti.»

Mi stiracchio all’indietro, puntando le dita delle mani contro il muro e stendendo i piedi come una ballerina di danza classica.

Ho fame e vorrei far qualcosa.

«Ti è piaciuto?»

Lui sorride, si sente soddisfatto.

«Che domanda...»

«Sì o no?»

«Mi piace sempre, lo sai.»

«Davvero?»

«Certo, perché me lo chiedi?»

Mi rigiro tra le lenzuola ancora umide e mi metto su un fianco.

«Così.»

«Così cosa?»

«Niente, mi è sembrato che tu abbia finito in fretta stavolta.»

Daniele pesca da un astuccio e si passa il deodorante sotto le ascelle.

«Forse perché mi eccitavi più del solito.»

«Perché?»

«Boh, non lo so, forse erano solo pensieri.»

«Pensavi a un’altra?»

«Ma no, pensieri e basta.»

«Ah, ho capito.»

Apre il cassetto e prende il dopobarba che non ha mai portato via e che deve essere lo stesso che usa ancora.

«A te è piaciuto?»

Si picchietta le gote increspate di barba appena accennata. «Sì, ma se duravi ancora un po’ mi sarebbe piaciuto di più.»

«Non avevi pensieri strani tu?»

«Niente di che, i soliti.»

Lui si ferma, il sorriso scema, le dita smettono di saltare sulla pelle e iniziano a spalmare il profumo, mentre i suoi occhi mi scrutano per cercar di capire se sono seria.

«Cercherò di impegnarmi di più la prossima volta.»

«Farò lo stesso anche io.»

Sono seria.

Scosta lo sguardo, torna sulla sua faccia, si scruta i capelli, osserva se ne ha qualcuno bianco che l’ultima volta non c’era.

Non ha apprezzato la mia osservazione.

È proprio un uomo e non mi stupirei se ora andasse in bagno a misurarselo con il righello.

«Quando ci rivediamo?»

Abbassa le braccia, sospira facendo rumore con il naso chiuso.

«Non lo so, Elisabetta, dipende da questo appuntamento.»

«Addirittura?»

L’accarezzo sulla coscia con la punta del piede destro.

Lui non dice nulla e mi riserva soltanto una veloce occhiata dallo specchio.

«Passerà una settimana, due mesi, tre anni? Quanto?»

Ancora tace. Ed è meglio così, in fondo. D’altro canto sono io che prima l’ho sposato e poi l’ho lasciato, io che lo trovavo insignificante, io che non sopportavo più di essere sfiorata da lui mentre eravamo sposati. Adesso, invece, non so perché, è il mio unico appiglio a una sessualità che non riesco più a vivere in altro modo. Non è che sia l’amante migliore del mondo, ma mi rendo conto che ormai ce la faccio solo con lui, forse perché mi conosce bene e sa cosa voglio e cosa non mi piace. A pensarci bene non è così, anche Mirko, il mio primo marito, mi conosce da quel punto di vista, anzi, forse meglio di Daniele, ma con lui, ora, non prenderei nemmeno un caffè. Quello che so è che adesso Daniele lo vedrei tutti i giorni. Soltanto per scopare, s’intende. Nient’altro. Certo, gli voglio bene, ma il bene non basta per pensare di ritornarci insieme. Solo adesso riesco a lasciarmi andare davvero con lui, ora che non ho più legami, ora che non ho più obblighi e non ci sono patti o promesse dietro l’angolo, pronti a rovinare tutto.

Ora che non devo più amarlo […]”

 

Ci fermiamo qui (alla pag. 103 del brano) e sicuramente i lettori incuriositi vorranno andare avanti nel seguire la vicenda della protagonista Elisabetta.

 

Devo ammettere che generalmente preferisco come lettore i romanzi (o i saggi), ma la raccolta di racconti di Luca Martini (che mi giunge in concomitanza con quella di un altro amico autore) procede agevole nella lettura, con uno stile che indubbiamente coinvolge il lettore.

 

Tra i vari aspetti che possono essere evidenziati in merito al libro L’amore non c’entra, voglio sottolinearne due.

 

1)  Il primo, come mio solito, è un profilo, che definirei, per così dire, “strutturale”, un sentiero di lettura e interpretativo che non a caso prende l’avvio proprio dal titolo del libro (e pertanto ha attinenza anche – come vedremo a breve – con il racconto appena letto).

 

I. Ritengo infatti molto significativo il titolo di questa raccolta di racconti, titolo che si presenta con quella negazione “di principio”, L’amore non c’entra, che in realtà viene poi ad essere, per così dire, smentita, proprio dal contenuto, dalle vicende e dalle emozioni dei racconti e dei loro protagonisti, e, in modo esplicito – mi permetto di anticiparlo, anche perché potrebbe sfuggire - , nelle ultime righe (quello che viene definito l’excipit) del “saluto” di chiusura, con i ringraziamenti e annotazioni dell’autore, alla pag. 230 del libro, avente quale titolo Ecco.

 

Vi leggiamo infatti:

 

“un’ultima cosa, ma forse l’avrete capito da soli.

 L’amore c’entra eccome.

 Sempre.”

 

Peraltro, ben si potrebbe sottintendere, nel titolo, un punto interrogativo, che diverrebbe così L’amore non c’entra?

E questo piccolo stratagemma ci potrebbe consentire di entrare ancor più rapidamente in sintonia e in profondità con la parte più intima del testo.

 

II. Altro elemento rilevante da sottolineare e strettamente collegato al titolo della raccolta di racconti è - a mio avviso - la citazione – o come si dice tecnicamente l’esergo – posto all’inizio del libro (a pag. 3), prima della dedica al figlio di Luca Martini, Giacomo.

Sono dei versi tratti da una poesia di Raymond Carver: Le pietre azzurre.

Mi sembra un elemento importante la circostanza di aver premesso da parte di Martini un componimento poetico al suo libro di racconti, considerato che anche Luca Martini è poeta, scrittore di poesia.

Come accennavo in premessa, Luca ha infatti pubblicato negli anni alcune raccolte di poesie (dovrebbero essere tre se non erro), l'ultima nel 2006, dal titolo Partitura compiuta per pensieri distratti (pubblicato dalla casa editrice Giraldi).

 

Una piccola parentesi.

 

Ritengo siano sempre importanti come elementi e strumenti interpretativi che noi come lettori – e non solo i critici letterari professionisti – se vogliamo, possiamo utilizzare: il titolo ed eventuali citazioni iniziali, le ricorrenze interne, e la parte iniziale della prima pagina del libro (detto incipit), vale a dire il primo, i primi periodi, dello stesso, cui fanno da pendant le ultime battute alla fine del libro (il c.d. excipit).

Tutti questi che ho evidenziato possono sembrare elementi estrinsechi, esterni al libro, o ad effetto, per strizzare (come si dice) l’occhio al lettore, accattivarselo; ma invece (come del resto la struttura del libro e lo stile dello scrittore e questo per ogni libro) sono (di norma) determinanti ai fini della comprensione e della sintonia con l’opera da parte del lettore. Il lettore, infatti, accingendosi a leggere il libro sta compiendo non solo una lettura, ma una “riscrittura” del libro stesso, in un percorso continuo e senza fine, di osmosi e compenetrazione (cammino che probabilmente lo troverà diverso da quando ha intrapreso quella lettura, pur in minima parte): un percorso sconosciuto allo stesso autore del libro una volta dato il libro alle stampe, perché calato nella vita, nelle vicende, nella sensibilità e nei sentimenti di chi ne sta affrontando la lettura.

Un sentiero che l’autore potrà conoscere se decida di avere un colloquio e ascoltare i suoi lettori, cosa che può succedere del resto talvolta anche in occasione delle presentazioni del suo libro.

 

Altro elemento che può essere utile (quando non sia solo di ammiccamento al lettore) per entrare in empatia col testo e con l’autore è spesso la copertina del libro.

 

Nel caso del testo di Luca Martini spicca la significativa e bella copertina tratta da un’opera di Armin Vasiliauskas: Facing your face, tradotto in italiano: ‘di fronte al tuo volto’, ove però c’è in inglese il gioco dei termini “Facing” – “face”, difficilmente riproducibile in italiano.

 

Ma ritorniamo al 2° elemento accennato, in linea con il titolo della raccolta, che ritengo utile evidenziare.

 

Leggiamo allora i versi della poesia Le pietre azzurre (che Carver ha dedicato alla moglie) riportati da Martini:

 

«Quella sera cammini sulla spiaggia,

 con il tuo amico chiacchierone, Ed Gonocourt.

 Gli dici che in questi giorni

 quando scrivi scene d'amore puoi venire

 senza muoverti dallo scrittoio.

 «L'amore non c'entra niente» dici.

 Ti godi un sigaro e una bella visione di Jersey.

 La marea si ritira dalla ghiaia,

 e niente al mondo può fermarla».

 

Vediamo per l’appunto come nei versi della poesia compaia la frase “L’amore non c’entra”.

 

In realtà, se prendiamo l’intera poesia di Carver da cui sono tratti i versi appena ricordati posti ad esergo del libro, possiamo notare che tale frase ricorre anche nei versi precedenti altre due volte: quindi in tutto tre volte nel componimento.

 

Mi permetto di riportarli:

 

“Stai scrivendo una scena d'amore
tra Emma Bovary e Rodolphe Boulanger,
ma l'amore non c'entra per niente.

 

[…]

 

L'amore non c'entra per niente.
Scrivi e riscrivi quella scena […]”.

 

III.  Sempre sul sentiero intrapreso su questo profilo che stiamo analizzando, si può notare un piccolo inciso che troviamo nel primo racconto della raccolta Ada love Eva.

C’è infatti nel brano un riferimento a qualcos’altro che non c’entra.

 

La protagonista, nel vedere due innamorati su di una panchina,

 

“Desidera essere entrambi quei ragazzi.

Il sesso non c’entra, contano solo le labbra, nient’altro.

Il ricordo si trasfigura e pare illuminare a giorno la notte che si fa piccola, come le mani gelate.

Ma allora non è stato soltanto sesso.

E lo scopri ora?

No, tu lo sapevi benissimo, ma speravi che non fosse così. Farlo non è mai stato fondamentale per te, Ada. Almeno fino a quando non l’hai conosciuta. E poi? E poi cadi in un buco che diventa sempre più grande e il tuo cervello sempre più piccolo, fin quasi a sparire. E quando capisci dove stai andando è troppo tardi, lei non ti vuole più, perché per lei è diverso.

Per lei è soltanto sesso.

Ada non crede nemmeno a questo ma qualcosa dovrà pur raccontarsi.”

 

(Ada love Eva, pag. 15).

 

Avremo modo di ritornare, se ve ne sarà tempo, su questo coinvolgente e drammatico racconto.

 

IV. Ma veniamo ad un ulteriore più immediato aspetto con riferimento alla frase contenuta nel titolo.

 

Abbiamo letto all’inizio il racconto dal titolo emblematico: L’amore non c’entra.

 

Ma, oltre al titolo e proprio in connessione con esso, c’è un profilo significativo da evidenziare.

 

Nel racconto infatti, come possiamo riscontrare tornando con la mente, con più attenzione, sul quel brano appena letto, ricorre più volte proprio la frase L’amore non c’entra”.

 

A partire dall’espressione similare, pronunciata dalla protagonista del racconto, Elisabetta, a pag. 105:

 

“il cuore […] Quello non c’entra e non deve entrarci mai.”

 

e più avanti leggiamo a pag. 110:

 

“Ma l’amore, spesso, non c’è o non basta.

 

Se penso a me, posso dire tranquillamente che l’amore non c’entra.”

 

E ancora, due pagine dopo (pag. 112):

 

“Lo so, l’amore non c’entra.

Ma a volte vorrei che non fosse così.”.

 

Si diceva in precedenza dell’importanza del titolo del libro (oltre ad eventuali citazioni iniziali: ad es. nel romanzo La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo ogni capitolo ha un esergo), come delle ricorrenze interne.

 

Peraltro e similmente, ugualmente significativi rispetto al titolo dell’opera sono anche i titoli dei capitoli del libro stesso e, come nel nostro caso in L’amore non c’entra, i titoli dei racconti sono utile elemento di interpretazione.

 

Possiamo scorrerli rapidamente:

 

Ada love Eva (p. 7); Formiche (p. 17); Antinomie (p. 34); Ombre giapponesi (p. 46); Cento sacchi (p. 58); Ululati (p. 66);  diciottoanni (p. 79); L’amore non c’entra (p. 96); Nemici (p. 111); I cristi in testa (p. 133); Il cuscino (p. 142); Pappa (p. 159); opocaJ (p. 170); Un pallone forato (p. 182); Senza guardare (p. 185);  Veronica (p. 197); Guardie e ladri (p. 206); Le mani sul volante (p. 211).

 

Basta soffermarsi su alcuni elementi, come ad es. il fatto che diciotto anni è scritto tutto in una parola sola; oppure abbiamo il titolo Ombre giapponesi anziché "Ombre cinesi"; o ancora il titolo con il verbo all’inglese Ada love Eva; per non parlare dell’emblematico opocaJ, di cui non svelo la soluzione per lasciarla ai lettori.

 

2) Ma in premessa ho fatto riferimento a due aspetti, tra i vari riscontrabili, attinenti a questo libro, cui perveniamo sempre prendendo le mosse dalla metodica appena illustrata.

 

Dei 18 racconti, di varia lunghezza, si può osservare come tutti tranne quattro, se non erro, recano il nome del o dei protagonisti e sarebbe interessante saperne dall’autore il motivo, come un primo spunto di discussione con Luca Martini, cui potranno seguire altre domande dei partecipanti all’incontro e cui potrò aggiungere eventualmente – qualora rimanga del tempo – qualche altra domanda.

 

I racconti di cui il protagonista non ha nome mi sembra siano Cento sacchi, Ululati, Un pallone forato, Guardie e ladri.

 

Ed ecco sono giunto più propriamente all’aspetto, per così dire, “contenutistico” cui voglio far cenno.

 

Come si legge anche sul sito delle edizioni lagru, casa editrice che ha pubblicato il libro di Luca Martini di cui oggi discorriamo, lungo i sentieri che si snodano e possiamo intraprendere in ognuno dei racconti della raccolta incontriamo uomini e donne di ogni età, ma anche ragazzi o bambini (come in Ombre giapponesi, diciottoanni, I cristi in testa, ove c’è uno scontro tra generazioni, in un certo senso, e come in Antinomie, in cui lo scontro generazionale è tra padre e figlio in particolare) o flashback in cui il protagonista rivede scene della sua giovinezza (come in Cento sacchi e Le mani sul volante). In un racconto è protagonista addirittura un infante (Pappa).

 

E questo dare un nome ai personaggi, talora in cerca di una svolta per cambiare la propria esistenza, talora intrappolati, nelle loro difficoltà, nelle loro vite che non riconoscono, in situazioni che sembrano senza via d’uscita, questo descrivere i luoghi, talvolta utilizzando anche precisi riferimenti topografici, fa sì che noi sentiamo che quello potrebbe essere il nostro paesaggio e quei o quel personaggio potremmo essere noi, o un frammento di noi, appartenente ad una nostra vicenda passata o che stiamo vivendo o futura; o potrebbe essere un amico, un compagno o una compagna incontrati lungo il cammino della nostra vita, che ci hanno confidato (o ci confideranno) una storia proprio simile a quella che stiamo leggendo o abbiamo appena letto.

Quei drammi, quelle vicende le possiamo trovare – come si è detto – anche molto vicine a noi

 

Ad es. per quanto mi riguarda potrei far riferimento al racconto I cristi in testa , essendomi ritrovato coinvolto (per fortuna ero solo senza mia moglie e i miei figli) in una circostanza simile qui a Roma, sotto la mia abitazione, qualche tempo fa.

 

Oppure per chi scrive, come il sottoscritto, altamente significativo è il contesto, le vicende e l’epilogo, a metà strada tra i reality e il mercato, il business, editoriale, di Nemici  il cui titolo echeggia o può echeggiare – così mi sembra – per contrapposizione al noto programma condotto dalla Filippi Amici.

 

Spero in questo percorso di osservazioni di avervi suscitato curiosità e desiderio di immergersi in queste storie e nei loro personaggi, in queste vicende spesso a tinte forti, drammatiche, talora più sognanti  e nostalgiche, in questa sapiente e attenta descrizione di attimi di esistenza, indagati in profondità e dilatati in un’analisi disincantata e senza false speranze; figure e vicende nelle quali, secondo le varie modalità di cui si diceva, possiamo ritrovarci.

 

Spero anche di aver fornito, sia per coloro che desiderano acquistare il bel libro di Luca Martini, sia per quelli che ne sono già in possesso, e magari hanno già iniziato a leggerlo o ne hanno finito la lettura, delle possibili chiavi o spunti di lettura, tra le varie percorribili

 

A mio avviso - e qui concludo – ben si possono richiamare per lo stile e il contenuto dei racconti contenuti nel libro di Luca Martini L’amore non c’entra, due poesie, entrambe di Raymond Carver.

 

La prima poesia, richiamata nell’esergo del libro, quella di Raymond Carver Le pietre azzurre, o meglio gli ultimi quattro versi del componimento, non riportati dall’autore, alludono proprio alla scrittura dei racconti e della bellezza dell’opera dello scrittore quando vale:

 

« Le pietre lisce che hai raccolto e che esamini
al chiarore della luna sono state rese azzurre
dal mare. La mattina dopo, quando le tiri fuori
dalla tasca dei pantaloni, sono ancora azzurre

 

         La seconda poesia, sempre di Raymond Carver, contiene versi che ritengo possano esprimere in modo suggestivo ciò di cui in fondo sono in cerca i personaggi dei racconti di Luca Martini.

 

La poesia si intitola Ultimo frammento

 

E hai ottenuto quello che volevi

da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos'è che volevi?

Sentirmi chiamare amato,

sentirmi amato sulla terra.”.

 

Penso che i partecipanti dell’incontro gradiranno un altro excursus tra i bei racconti inclusi nella raccolta.

 

Ho scelto per chiudere questo intervento il primo, intenso, racconto del libro, prima accennato, così commovente e pieno di pathos (pagg. 9-18):

 

Ada love Eva

 

Ada si sveglia di soprassalto e si sente come in mezzo a un campo minato.

Non vede i nemici, non con gli occhi, ma li sente.

Li avverte vicini, bisbigliare frasi oscene, nascosti nel buio, coperti da un dolore denso e nauseabondo.

Tutto, intorno, le pare scoppiare.

Di colpo la scena si capovolge.

Resta la sensazione, sa di essere osservata, ma le cose non sono più le stesse.

Non è nel campo.

È lei la mina, lei che sta per esplodere.

Si volta intorno e realizza.

La tapparella chiusa lascia filtrare un filo di luce dalle fessure.

Il clima di festa le fa tremare le palpebre pesanti.

Da lontano sente qualcuno che canta Bianco Natale in maniera strozzata. Sembrano ubriachi e quelle parole urlate in modo così sguaiato le rimbalzano in testa, riportandola sulla terra, fuori da quel sogno così reale e vicino.

 Ada accende la luce, guarda fuori dalla finestra e vede l’albero del condominio di fronte tutto addobbato con luci multicolori. Poi allunga la mano, tastando a memoria sul comodino, e prende il telefono.

Osserva la cornetta, come per avere risposte.

Non parla nessuno ma dentro di lei qualcosa ancora sussurra.

Compone un numero.

Non sono in casa. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.

In sottofondo si avverte la voce stonata di una bambina piccola.

Ada tentenna.

Silenzio.

Segnale acustico.

Ada ascolta il tu tu ripetitivo del telefono. Poi riaggancia la cornetta, appoggiandola con il timore di chi ripone un animale di cristallo in uno zoo di vetro. E se ne resta qualche secondo a pensare a quelle cifre, ancora impresse nella sua mente dopo tanto tempo.

Per ogni numero scorrono cento ricordi, una chiave, una lama, qualcosa che la taglia e le fa male dentro, farfalle che devastano la pancia, che fanno singhiozzare, mentre tutti quelli che conosci ti sfottono e dicono che sei fuori di testa.

Ada è inquieta.

Non c’è spazio per la tristezza.

Fuori tutti si stanno divertendo.

Tutti tranne lei.

La testa le gira, è intontita dal Tavor trangugiato due ore prima, nella disperata ricerca di una calma artificiale che non è mai stata tanto lontana.

Il pensiero la ossessiona ancora.

Non è servito nemmeno un matrimonio per dimenticare, figuriamoci ora un divorzio.

Qualcosa la tormenta.

Forse il tempo, che sa passare così in fretta quando non serve, che ti ripiomba tra le ossa come un fulmine umido quando ormai ci credi.

Tempo galantuomo, tempo bastardo.

Si sente soffocare. I muri sembrano avanzare verso di lei, opprimendola, come una camicia di forza di calce e cemento, e d’improvviso la casa diventa troppo piccola.

Qualcosa la schiaccia.

Ha bisogno d’aria, un senso di nausea la pervade.

Le mani cominciano a formicolare, il cuore accelera e diventa torrido.

Si infila in fretta i pantaloni, la maglietta e il maglione ruvido di lana cotta. Poi si mette gli stivali, che ha lasciato aperti sul tappeto, come sfioriti.

Due margherite appassite.

Esce, cercando in strada quello che non ha trovato in camera, che assomiglia a un sogno abbandonato in fretta, perché fa troppo male o sai che non si realizzerà mai.

Fa freddo, le gocce ghiacciate che piovono dal cielo cadono diritte sul suo viso e si vanno a conficcare tra il collo e la nuca, nell’unico pertugio lasciato libero dalla sciarpa di ciniglia.

Ada trema, le sembra di avere addosso il freddo più freddo di sempre.

Guarda la gente che incrocia, ma ha la sensazione che loro non la pensino così.

Nell’aria c’è una vaga tristezza d’inverno e un sospetto di noia che il Natale, forse, porta sempre con sé al suo arrivo.

Attorno scorrono bande di ragazzi allegri, mentre dalle case arrivano suoni di stoviglie e profumi di dolci appena sfornati.

«È già Natale.»

Lo sussurra tra i denti, parlando a chi non c’è, e stringe i pugni per la rabbia.

Gli alberi addobbati e i sorrisi uditi in lontananza le ricordano la gioia di una festa che vorrebbe soltanto sotterrare insieme a lei.

Una macchina di ragazzi con la radio altissima sgomma dalla strada laterale e si avvicina, inchiodando a pochi centimetri dalle sue caviglie.

Ada ha un sussulto e indietreggia di scatto, gli occhi spalancati, il pallore che risalta nel buio della sera.

Il cuore le schizza direttamente in gola.

«Ehi bella, dove vai tutta sola?» dice il passeggero, ubriaco.

«Dai, vieni a divertirti con noi…» dice quello di dietro aprendo lo sportello e rischiando di cadere.

«Andatevene via» risponde Ada senza riguardo.

«Ehi, ma che ti prende? Dai, stronza, sali in macchina, su, è Natale, facci un bel regalino.»

Quello dietro mette fuori una gamba e si tocca a due mani tra le cosce, sporgendosi con un sorriso nauseante.

«Vattene a fare in culo, bastardo.»

Ada urla, usa un linguaggio duro, quasi isterico, ma è l’unico che le viene in mente adesso.

«Ma che ti prende? Stiamo solo scherzando. È festa per tutti, su.»

Quello che guida si intromette, usa un tono diverso, come se volesse scusarsi o avesse capito che c’è qualcosa che non va.

«Lasciala perdere, Andrea. Andiamo via. Questa qui è fuori di testa, non hai visto che faccia da cazzo che ha?» dice quello che sta davanti, vicino all’autista.

«Hai ragione. Buon Natale, stronza, e fatti curare.»

E il tono buono si perde subito, confuso nel rumore di gomme che sfregano sull’asfalto bagnato e risate che muoiono lontano, in un effetto doppler che si propaga fin dentro le costole di Ada, ancora ferma nella stessa posizione.

Quando non li vede più Ada si gira e continua a camminare per le vie della città, verso una meta senza contorni.

Respira forte, per allentare le pulsazioni, cercando di ritrovare una calma che non aveva nemmeno quando è uscita di casa.

La testa inizia a pulsare e i piedi si mettono ad andare da soli, sempre più in fretta, cercando a fatica di raggiungere una panchina nascosta tra gli alberi di un giardino condominiale. Sopra di lei un enorme abete addobbato con festoni dozzinali, e sul tronco una scritta incisa con il coltellino svizzero, quello rosso di papà: Ada love Eva.

Non le serve la luce. Ada la trova a tastoni, la sente seguendo le lettere con le dita, ricordando ogni millimetro di quella scritta solcata tanti anni addietro, prima sul cuore e poi sul legno.

 Si siede e si accuccia sulla panchina, tenendosi il capo con le mani, e osserva le finestre accese del palazzo di fronte. Appese al davanzale ci sono due paia di calze color carne, proprio come quelle che usava Eva.

Ada rivede le sue cosce, così sinuose e tornite, profumate di vaniglia.

La sua prima volta.

Un mistero nascosto tra le gambe, una dominazione senza padroni, un brivido percorso a piedi, tra la pelle screpolata e la saliva dolce, come nettare guadagnato.

E poi gli incontri, il batticuore, la normalità di un piacere divenuto abitudine, non tanto al benessere quanto alla gioia.

Forse non se la meritava quella felicità, forse non l’ha mai neanche cercata.

E allora perché me l’hai fatta provare?

Ada sorride e scuote la testa, sa che è tutto finito, che non è bastato sposare Alberto per colmare quell’assenza. E sa anche che è stato un errore farlo. Ma è fiera almeno di non avere messo al mondo bambini. Sarebbe stato ingiusto far pagare a loro le insoddisfazioni di una vita espiate attraverso scelte sbagliate.

La notte si fa sempre più buia, il freddo sempre più pungente e adesso anche le voci e le musiche sembrano soffocare.

Il Natale va morendo mentre nasce il rimorso.

Qualcuno sta di certo facendo l’amore, nel caldo rassicurante e umido del piumone imbottito. Qualche moglie starà fingendo il piacere, qualche altra non lo farà nemmeno ma alla stupida domanda del marito sei stata bene? risponderà con un sì scontato, senza nemmeno cercare di essere credibile. E lui, il marito, si convincerà, perché gli fa comodo così, perché è meglio credere in qualcosa che ritrovarsi nudo, coperto di incertezze.

Ada decide di tornare a casa, con la testa zeppa di pensieri.

Passa vicino al campo sportivo.

Alza la testa e osserva l’ultimo piano.

Le finestre sono tutte spente, la festa dev’essere già finita. O forse non è mai iniziata.

Sopra una panchina due ragazzi si annusano il viso.

Ada si ferma e li osserva.

Desidera essere entrambi quei ragazzi.

Il sesso non c’entra, contano solo le labbra, nient’altro.

Il ricordo si trasfigura e pare illuminare a giorno la notte che si fa piccola, come le mani gelate.

Ma allora non è stato soltanto sesso.

E lo scopri ora?

No, tu lo sapevi benissimo, ma speravi che non fosse così. Farlo non è mai stato fondamentale per te, Ada. Almeno fino a quando non l’hai conosciuta. E poi? E poi cadi in un buco che diventa sempre più grande e il tuo cervello sempre più piccolo, fin quasi a sparire. E quando capisci dove stai andando è troppo tardi, lei non ti vuole più, perché per lei è diverso.

Per lei è soltanto sesso.

Ada non crede nemmeno a questo ma qualcosa dovrà pur raccontarsi […]”.

 

Come nel primo racconto letto ci fermiamo qui (alla pag. 15 del brano) nella lettura del racconto Ada love Eva: sicuramente, come il precedente, i lettori andranno avanti nel seguire la vicenda della protagonista Ada.

 

Cedo la parola ora a Luca per le sue osservazioni in merito, cui potranno far seguito eventuali domande o richieste di chiarimenti o curiosità da parte dei presenti, e – se rimane del tempo – qualcun’altra da parte mia, oltre alla curiosità dei 4 – mi sembra – racconti ove i protagonisti non hanno nome e del significato di questa circostanza.

 

Domande

 

1) Per la prima domanda (dopo quella già posta) prendo le mosse dalla poesia di Raymond Carver, riportata in esergo. Carver infatti è ritenuto figura, oltreché di eccellente scrittore di racconti (tanto da assurgere a modello di tale genere) di scrittore di poesie, alcune peraltro piuttosto esplicite in alcuni riferimenti, come del resto la presente nella sua interezza.

 

 “Anche se sono stati i racconti a renderlo celebre, Raymond Carver ha sempre alternato alla prosa la poesia, con risultati di pari perfezione, al punto che l’autore si considerava prima poeta e poi narratore.”

 

(dal sito di minimumfax - Orientarsi con le stelle , tutte le poesie di Raymond Carver)

 

Come è stato osservato (da Elena Frontaloni, su “Stilos” in occasione dell’uscita nel 2013 della raccolta completa di tutta la raccolta poetica di Carver, per l’editore Miminum fax: Orientarsi con le stelle) in Carver c’è un esercizio poetico (un trentennio) “che scorre parallelo a quello in prosa fin dal 1957, ne anticipa spesso schegge e tonalità (a mo' di canovaccio, o come diversa scarnificazione dell'attimo sulla pagina […] e che diventa, negli ultimi dieci anni di vita (quelli del post-alcoolismo, del connubio con Tess Gallagher, del successo), il territorio privilegiato d'una disinvolta sperimentazione su eterogenei riferimenti letterari (da Kafka a Milosz) e stralci di quotidiano.”

 

A tal proposito, si può osservare che la poesia di Carver citata da Martini, a sua volta, reca una citazione (o esergo) all’inizio da un’altra poesia, questa volta dello scrittore francese Flaubert.

 

«Se chiamo azzurre le pietre è

perché, credetemi, azzurre è la parola giusta.»


Come è stato osservato

 “ancora da Flaubert ci viene la migliore lezione di stile - «se chiamo azzurre le pietre è perché, credetemi, azzurre è la parola giusta» - e che Carver l'ha accolta: chiamando la propria tensione a dire «felicità» e «gratitudine» nei confronti delle vite a lui vicine e della parola; nominando amore l'«amore» e paura la «paura» senza eluderne le complicazioni e le insondabilità.”

 

(Elena Frontaloni, su “Stilos”)

 

Veniamo al dunque:

 

Il tuo è un libro di racconti. Ti sei ispirato a livello stilistico, come modello, a Raymond Carver, ritenuto da gran parte della critica tra i migliori scrittori del genere e/o a quali altri scrittori di racconti italiani o stranieri?

 

2)  Quale tra i racconti della raccolta è tra i tuoi preferiti o ti riconosci di più?

 

3)  Ritornando ancora una volta alla poesia di Carver e di lì alla poesia in generale; nella tua esperienza letteraria, come in precedenza evidenziato, c’è una presenza di poesia e di prosa.

 

In una presentazione di un suo recente libro di racconti, Leonardo Bonetti, uno scrittore anch’egli poeta e ora “prosatore”, ha affermato che

«Scrivere racconti è uno sprofondamento intenso, ma breve, attraverso la parola e che l’elemento poetico è più presente [rispetto ad un romanzo], in quanto la scrittura poetica nel racconto è molto più sentita

Ti ritrovi in questa asserzione di un intreccio – quasi indissolubile – nella scrittura tra poesia e prosa o la tua è un’esperienza ancora diversa?

 


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